Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 170
febbraio 1990


Rivista Anarchica Online

A nous la libertè
diario a cura di Felice Accame

Mattacchione d'un georgiano

Otar Davidovic Ioseliani è uno che, nel 1934, nasce nella Repubblica Federativa di Georgia e ben presto doveva rivelarsi uno spirito piuttosto inquieto, visto che, in fatto di studi, passa dalla meccanica alla matematica, o dalla musica al cinema con una certa facilità, e, in fatto di mestieri, prima di indugiare nella regia cinematografica, non si è negato d'imbarcarsi come marinaio o d'interrarsi come minatore. Al georgiano d'altronde - credo sia questo un proverbio - si addice il bizzarro e pure un po' l'anarcoide, se consideriamo che oggidì - che ci sia Gorbaciov o che non ci sia Gorbaciov - è costretto a rammentarsi della terra natia dalla Francia più ospitale.
Alla gente che ha voluto intrattenersi con lui - guardandone i suoi due film, C'era una volta un merlo canterino, 1973, e I beniamini della luna, 1984 - ha detto bene e tanto, con finezza di stile e profondità di sentimento. Se il suo primo film narrava l'amabile e drammatica vicenda di un musicante distratto (distratto fino a morirne: voltandosi a rimirar ragazze e venendo investito da un camion), il secondo tesseva le lodi del furto come attività umana endemica per certuni e arte di massima dignità per certaltri, ma, su un canovaccio o sull'altro, ciò che stava veramente a cuore a Ioseliani era comporre schivando sia le frivolezze che gli angosciamenti, una sana elegia del fortuito, argomentare cioè una tesi cinematograficamente godibile sulla casualità del dire, del fare, del disdire e del disfare.
Tutto ciò è premesso per dire di un terzo film, approdato di fresco fra noi con il titolo di Un incendio visto da lontano, per la libera traduzione di Et la lumière fut. Lo stile è ribadito, togliendo ancora qualche fronzolo: Ioseliani ama molto far da spettatore, accompagna affettuosamente persone e cose, ma senza partecipazioni eccessive - il melodramma non è una corda del suo sentire -, gioca con le sequenze come con le tessere di un mosaico che solo superficialmente vorrebbe apparire semplice. I modi di tagliare immagini e narrazione possono ricordare l'école du regard alla francese (tipo Robbe-Grillet, Butor, la Varda, un po' Le Clezio, fra cinema e letteratura), ma con un occhio sornione e un po' svagato, una sorta di buontemponeria disillusa del tutto nuova e del tutto personale. Sotto la sua guida non ci è mai offerto un qualcosa di meramente percettivo, ma sempre qualcosa di argomentativo: prima fa cercare il bandolo della matassa, poi si sorride di gusto e infine, se ci ha fatto complici, ci si intristisce con serenità.
Un incendio visto da lontano è la tenue parabola della civiltà che avanza - e in questo senso è il più "moralistico" dei tre film di Ioseliani - "vissuta" più che "vista" da una microcomunità indigena ove vige uno strampalato matriarcato.
Così mentre gli alberi secolari d'Africa vengono abbattuti al suolo e trasformati in cadaveri da mercantilizzare, i maschietti dormicchiano o lavano i panni, le femminucce litigano o colgono i frutti della natura in estinzione, i matrimoni si sciolgono e si contraggono con le mozioni assembleari, e gli anziani - quando cominciano a far sballare le norme statistiche su cui la comunità sopravvive - vengono incoraggiati con la perentorietà della religione a togliersi dai piedi.
Non gli ci vuol molte parole - una trentina di didascalie, che traducono la lingua indigena -, a Ioseliani, per non dare scampo a nessuno: è vero che la cosiddetta "civiltà che avanza" è un'immonda schifezza e non riesce a darsi un benché minimo senso, ma certo che gli indigeni - questi indigeni su cui la civiltà esercita tutto il suo sopruso - non sono un granché come valore alternativo, mezzucci e viltà sono anche il loro pane quotidiano. Alla fine le seghe elettriche spazzeranno via anche il loro villaggio, i civili incendieranno le povere capanne, ma niente paura, in città ci sono i bei vestiti, c'è la radio a tutto volume, ci sono i fumetti, e già che ci siamo, andiamo a far mercato della statuetta del dio della pioggia - un dio della pioggia che, qui sta il bello, la pioggia la faceva venire davvero: alla faccia dei razionalisti! Con il che, questo mattacchione georgiano sistema usurpatori ed usurpati, con le loro sicurezze.