Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 165
giugno 1989


Rivista Anarchica Online

La lotta per la terra
di Emanuele Amodio

"Per prima resistette la terra: invasione e difesa dei territori indigeni dell'America Latina": con questo titolo è recentemente apparso sulla rivista Arinsana (rivista della cooperazione internazionale nelle aree indigene dell'America latina) un saggio del suo direttore, l'antropologo siciliano Emanuele Amodio. Lo proponiamo ai nostri lettori, quale contributo alla conoscenza di una realtà che pur lontana ci riguarda da vicino.

Osservando il panorama attuale della situazione dei popoli indigeni latino americani, pur senza dimenticare le differenze storiche e politiche di ciascun paese, risulta evidente una uniformità dei problemi che si riproducono - in modo più o meno simile - dal nord al sud.
Infatti, sebbene ciascuna situazione presenti caratteristiche specifiche derivanti dalla sua cultura e dalla sua storia locale, si verificano fenomeni sociali analoghi soprattutto per quanto riguarda la relazione tra lo stato e i gruppi indigeni. Ad esempio, i problemi provocati dalla presenza di coloni nella regione amazzonica peruviana si differenziano ben poco da quelli posti dall'invasione nel nord del Brasile. E allo stesso modo il riconoscere agli indigeni la proprietà della terra che occupano da tempo immemorabile incontra gli stessi ostacoli in diversi governi sudamericani.
Onde evitare interpretazioni errate è necessario chiarire che questa uniformità, lungi dal prodursi in virtù di un presunto sviluppo obbligato della relazione popolo indigeno/nazione occidentale (dove le caratteristiche stesse degli indigeni determinerebbero la forma della relazione), sembra essere invece il prodotto di una unità di intenti da parte dei gruppi sociali occidentali dei diversi paesi. Vale a dire che la società occidentale locale si è auto-investita della missione di far "progredire" le società indigene, considerate primitive, occultando i suoi interessi economici (a) e di omologazione culturale nazionale (b) con ideologie "progressiste".
A) - L'interesse economico che si esprime soprattutto nel non riconoscere la proprietà della terra, e nella pressione statale sui contadini poveri per la colonizzazione delle terre indigene. Nello stesso modo si spiegano le concessioni alle compagnie petrolifere nazionali ed internazionali perché realizzino esplorazioni in aree indigene e successivamente sfruttino i giacimenti di petrolio (vedasi il caso del medio Orinoco in Venezuela o della foresta amazzonica in Ecuador).
Infine, in questo stesso ambito di interessi, dobbiamo anche considerare l'utilizzo della forza-lavoro indigena, possibile soprattutto quando non si riconosce il diritto alla terra. Questo tema sottostimato acquisisce importanza particolare nelle regioni andine e minerarie in genere.
B) - L'interesse di omologazione dei popoli indigeni con i popoli creoli locali. Di fatto, le diverse nazioni sudamericane, per il fatto di essere fondate su un nazionalismo esacerbato, tentano una unificazione culturale orientata a creare "cittadini" con caratteristiche simili all'interno di ciascun paese.
Anche per questo quando un problema indigeno si manifesta a livello nazionale e alcuni settori della popolazione non indigena esprimono posizioni indigeniste, l'accusa che arriva dall'alto è che si vuole creare uno "Stato nella nazione", ossia destabilizzare l'unità dello stato, e altre sciocchezze simili.
L'ultima violenta campagna contro la chiesa brasiliana (1987) utilizzò proprio questa accusa come arma d'attacco.
A partire da queste considerazioni generali è possibile comprendere meglio l'imposizione di studi scolastici non "adattati" alle popolazioni indigene, così come quella del servizio militare per i giovani indigeni (generalmente in regioni diverse da quelle d'origine).
Il fulcro di questi due grandi interessi che i gruppi dominanti delle società occidentali locali dimostrano per i popoli indigeni risiede nel problema della terra. Di fatto i gruppi dominanti creoli hanno ben compreso che a una identità indigena resistente corrisponde una forte difesa dei territori tradizionali. Di conseguenza, promuovono molteplici attività nelle aree indigene per indurre o accelerare la crisi di identità dovuta al contatto. Queste "attività" (da quelle scolastiche a quelle religiose dei missionari) possono essere considerate parte di un piano generale, più o meno cosciente, per eliminare le differenze culturali: quando gli indigeni non si distingueranno dai contadini creoli, non avranno maggiore diritto alla terra di questi ultimi.
Non è questo il luogo per ricostruire la storia dell'invasione europea dei territori indigeni, ma è necessario sottolineare, senza timore di smentita, che le ragioni addotte per giustificare l'invasione attuale non sono molto diverse da quelle coloniali.
L'argomento base che pretende giustificare l'invasione e che è restato pressoché immutabile da quasi cinquecento anni ci sembra il seguente: esistono enormi territori vuoti che, di fronte ad una "evidente" necessità di terra tra la popolazione creola debbono essere occupati.
È la cosiddetta teoria del "vuoto amazzonico" che in un certo senso si applica anche a regioni andine sfruttabili economicamente (soprattutto miniere).
Certo coloro che utilizzano questo tipo di giustificazione per poter occupare le terre non ignorano la presenza di popolazioni indigene. E senza dubbio degli indigeni valutano solo l'aspetto numerico comparato con l'estensione del territorio utilizzando i parametri europei (e occidentali) a livello agricolo produttivo. Infatti il sistema agricolo europeo importato in America è caratterizzato dalla coltivazione intensiva di piccoli pezzi di terra e quindi comporta la presenza di un gran numero di occupanti in piccole estensioni di terra produttiva. Se si proietta questo tipo di sistema sulle aree indigene la conclusione è ovvia: "cosa fanno pochi indios con tanta terra?".
Questa "analisi", utilizzata per grandi "hacendados" come per coloni poveri, non tiene conto della diversità culturale e quindi economica di queste popolazioni, né delle caratteristiche specifiche di queste terre (l'Amazzonia soprattutto).
Nel caso amazzonico l'esuberanza della vegetazione fa dimenticare e non percepire immediatamente che si tratta di un sistema ecologico fragile, con i suoli acidi e un equilibrio instabile. Sappiamo bene ciò che succede quando si abbatte senza controllo la selva per coltivare: dopo due o tre anni di alta produzione la fertilità decade progressivamente e il processo non si arresta neppure con l'uso di concimi chimici. Il risultato è una specie di deserto rosso che può tollerare a malapena la presenza di qualche mucca.
I popoli indigeni hanno cercato di adattarsi a questo ambiente con una strategia che cerca di mantenere in equilibrio il rapporto tra popolazione numerica ed estensione del territorio; mantenendo cioè un numero ristretto di individui su una grande estensione di terra che può bastare loro per caccia, pesca, frutti selvatici e produzione agricola, senza distruggere l'ambiente circostante (rotazione dei campi coltivati per non "esaurire" la sua capacità produttiva; proibizioni relative alla caccia per permettere la riproduzione degli animali, ecc.).
In conclusione la teoria del "vuoto amazzonico" può essere considerata senza alcuna base poiché, in relazione al tipo di eco-sistema, queste terre sono già completamente occupate. È comunque evidente che sono altri gli interessi in campo a livello economico generale: non è certo un mistero il grande interesse delle grandi compagnie multinazionali per queste terre ricche di petrolio e di minerali.
Passando dai problemi ambientali alla diversità culturale ed economica di queste popolazioni, il rapporto con l'ambiente è solo uno degli elementi del sistema di produzione indigeno, che unito agli altri permette di configurare tale sistema in tutta la sua complessità culturale.
Possono essere considerati elementi essenziali di questo sistema:
1 - L'organizzazione culturale della relazione con l'ambiente (chi o che cosa è la terra, come si deve trattarla, ecc. ) ;
2 - La delimitazione culturale del campo di azione (questi animali, non quelli; queste coltivazioni e non altre, ecc.);
3 - La produzione di strumenti per l'azione (armi per la caccia, strumenti per l'agricoltura, ecc.) e determinate tecniche per il loro uso;
4 - La delimitazione degli spazi produttivi in relazione al tipo di organizzazione sociale del gruppo;
5 - L'organizzazione del lavoro (individuale, familiare o di gruppo);
6 - L'organizzazione dello scambio interno al gruppo e con altri gruppi indigeni (circuiti di scambio, mercati, ecc.).
Tutti questi elementi costituiscono una trama di conoscenze che mantiene la relazione con l'ambiente e, in un certo senso, ne è il riflesso.
Da queste diverse concezioni e relazioni, emerge soprattutto una rappresentazione particolare della terra: è altro come nel caso della Pachamama dei quechua o del Nunqui tra gli Shuar - e non uno strumento di produzione. E d'altra parte, anche quando non la si identifica con entità "spirituali", la terra è sempre molto più di un semplice pezzo di terra: essa è lo "spazio culturale" di ciascun gruppo simbolicamente integrato con il contesto globale della sua cultura. In questo senso risulta ben comprensibile la perplessità degli indigeni più anziani di fronte alla possibilità di possedere, e quindi di vendere, la terra.
D'altro canto, data la situazione di contatto e l'invasione delle stesse terre, nasce la necessità di esigere dal governo un riconoscimento globale dell'occupazione di questi territori da parte dei popoli indigeni.
Diviene così necessario utilizzare il concetto occidentale di "proprietà", anche se la richiesta di titoli di proprietà collettivi e del territorio etnico non suddiviso ne trasformano un poco la sostanza. Questa richiesta è diventata la bandiera di lotta per quasi tutte le organizzazioni indigene sorte negli ultimi venti anni. E di conseguenza sono aumentate le azioni dei governi e dei grandi proprietari terrieri per impedire tale riconoscimento di proprietà. A dimostrazione, vogliamo citare almeno due casi.

Il caso Mapuche (Cile)
La situazione del popolo Mapuche può essere considerata una delle più precarie dell'America Latina, anche per la repressione che tutto il Cile vive sotto la dittatura militare di Pinochet. Periodicamente i Mapuche cercano di riprendersi le terre da cui sono stati espulsi e, inevitabilmente, l'esercito e la polizia li ricacciano fuori, li arrestano, li torturano e assassinano i loro leader.
Per arrivare alla distruzione del movimento di opposizione dei Mapuche - visto che la repressione non ha dato i risultati sperati - Pinochet nel marzo 1979 ha firmato la "nuova legge indigena" (decreto legge numero 2568) che tenta di trasformare il sistema di proprietà collettiva delle terre in sistema individualizzato. In questo modo sono stati consegnati titoli individuali di proprietà con il risultato di "diminuire" automaticamente il numero delle unità Mapuches riconosciute legalmente così che, nel 1985, le comunità riconosciute sono passate da 2066 a 655.
Le intenzioni del governo emergono chiaramente dalla seguente dichiarazione di Rosamel Milloman Reinao (1986), membro di "AD MAPU", organizzazione Mapuche: "Pinochet vuole annientarci, demapuchizarci. Il governo cerca di dividere il popolo Mapuche con la forza, l'intimidazione e l'inganno.
In questo modo ha già diviso più del 50% delle comunità che esistevano fino al 1973. Il Huinca usurpatore ha cercato di strappare la terra a molti fratelli e purtroppo il proprietario terriero può contare sulle giustificazioni giuridiche che sono a suo favore".
(Bollettino IWGIA n. 1/2; 1986: 68).

Il caso Yanomami (Brasile)
Dalla fine degli anni '70 organizzazioni internazionali brasiliane lottano perché venga riconosciuto il diritto al popolo Yanomami (di circa 20.000 persone tra Brasile e Venezuela) di avere una base territoriale sicura e protetta dalle invasioni.
Soprattutto il lavoro della Commissione per la creazione del parco Yonomami (CCPY) può costituire un esempio in questa lotta (che fino ad ora non è stata condivisa completamente dagli stessi indios poiché si tratta di una etnia con scarsi contatti con le Società nazionali).
Contro la proposta della "Commissione" di delimitare un territorio unico la Fondazione Nazionale dell'Indio (FUNAI), organismo del governo brasiliano, ha proposto la creazione di 23 piccole riserve che avrebbero permesso l'occupazione delle terre intermedie da parte delle compagnie minerarie e dei coloni (cosa molto distruttiva per la società Yanomami che si basa su una rete di scambio con un ampio raggio d'azione).
Fra il 1981 e il 1982 si cerca di sbloccare questa proposta e si arriva a una dichiarazione di interdizione da parte del governo brasiliano di 7,7 milioni di ettari.
Il termine "interdizione" si intende qui come un ripiego provvisorio in attesa della delibera definitiva sulla creazione del parco (ritardi e attesa furono giustificati con scuse del tipo: è necessario studiare bene la situazione, ecc.).
Di fatto, l'"interdizione" non frena l'invasione dei cercatori d'oro, coloni e compagnie minerarie, spalleggiate dai politici locali, già installati nella stessa regione (vedasi, ad esempio, il caso dell'azienda Paranapae in territorio Waimirì-Atroari, al sud del territorio Yanomami).
Finalmente, nel gennaio del 1987 il presidente Sarney annuncia la sua intenzione di firmare il decreto per la creazione del parco Yanomami, ma lo fa solo per le necessità di una squallida propaganda politica: fino ad oggi (1988) non solo il decreto non è stato firmato e le terre Yanomami continuano ad essere progressivamente invase, ma si comincia a parlare di delimitare piccole aree. Abbiamo citato due casi estremi, anche geograficamente, per cercare di individuare la complessità del problema. In alcuni casi, come in Brasile o Venezuela, le terre sono state formalmente delimitate, ma si tratta di un riconoscimento fittizio visto che attribuisce solo l'usufrutto e non la proprietà reale della terra. Di fatto, questi titoli non riconoscono agli indigeni la possibilità di sfruttare il sottosuolo. Al contrario, lasciano aperta la porta all'invasione di imprese minerarie e, in questo modo, alle espropriazioni. In altri casi come il Cile, Perù, Ecuador e lo stesso Brasile in cui anche sono stati assegnati titoli di proprietà individuali, si fomenta la divisione fra le comunità e la vendita "legale" delle terre.
È certo che la maggior parte delle terre occupate dai popoli indigeni non ha titoli di proprietà, cosa che facilita le invasioni. Il metodo è semplice: si occupa una parte di queste terre e poi si chiede il riconoscimento giuridico di proprietà agli organismi ufficiali preposti. Parentele, amicizie, denaro fanno il resto: si scopre improvvisamente che le terre indigene sono possedute "da molti anni" da questi invasori e diventa molto difficile cercare di allontanarli. Lo stesso processo si verifica comunque in modo drammatico anche nei territori delimitati legalmente.
Attualmente è molto difficile sapere quale è in generale la proporzione tra le terre invase e terre indigene libere, come non esistono statistiche affidabili per ciascuno stato sulla quantità di terre indigene delimitate in rapporto con il territorio globale occupato dai vari popoli indigeni.
Un esempio può spiegare meglio questa situazione.
In Venezuela esistono circa 34 popoli indigeni diversi con un numero di individui che varia da 150.000 a 180.000. Quasi tutte le aree indigene sono invase e in alcune lo sfruttamento petrolifero è avanzato. Il censimento del 1982, realizzato dal governo, mostra che il 75% delle comunità indigene continuava ad essere senza titoli di proprietà, mentre solo l'11% delle comunità aveva un titolo collettivo e il restante dichiarava di non sapere se avevano un titolo o dichiarava di avere titoli individuali.
A questi dati è necessario aggiungerne altri di tipo storico: alcuni popoli indigeni, soprattutto dell'Oriente del Venezuela, come i Kari'na, possedeva un "titolo" coloniale concesso dalla corona spagnola alla fine del 1700.
Questi "titoli", che riconoscevano la proprietà di meno terra di quella effettivamente occupata dagli indios, non furono molto rispettati in epoca repubblicana e tantomeno lo sono ora, malgrado alcune comunità possano esibire il documento corrispondente. Per chi pensasse che questi titoli siano troppo vecchi per essere considerati validi, vogliamo segnalare che lo stesso tipo di documento è servito ad alcuni coloni per vedersi riconosciuta la proprietà delle terre "occupate".
Le percentuali riportate per il Venezuela sono in gran parte valide anche per il resto dell'America Latina (cioè: 75% di terre non delimitate). E, d'altra parte, anche dove esiste un decreto di demarcazione con titolo relativo le invasioni non sono terminate.
In primo luogo perché è difficile espellere giuridicamente gli invasori che già stanno sul territorio indigeno, e in secondo luogo perché questi pretendono una indennità dal governo che è difficile ottenere.
In Brasile, ad esempio, quasi tutte le aree delimitate si trovano in questa situazione. In questo caso si tratta di invasori ricchi di vecchia o nuova data, con aziende di bestiame, imparentati con giudici o avvocati e rispettati dalla polizia. Tutto questo per gli indigeni ha significato veder ridurre le proprie terre e perdere quelle più fertili, bestiame che invade i campi, case bruciate, ecc.. Continuando con questo argomento delle terre indigene già delimitate vale la pena di citare il caso dei Piaroa in Venezuela.

Il caso Piaroa (Venezuela)
I Piaroa sono un popolo indigeno di circa 3.000 individui situati nell'attuale Territorio Federale Amazzonico.
Alcuni anni fa l'Istituto Agrario Nazionale (IAN) ha assegnato ai Piaroa un titolo collettivo. Questo titolo ovviamente non fu riconosciuto dai grandi proprietari terrieri della regione. Ecco come Josè Caballero, leader Piaroa, descrive la situazione nel 1984: "Per la prima volta il nome del nostro popolo percorre il mondo con il rumore del vento. Noi Piaroa da quattro mesi facciamo notizia nazionale e internazionale. Grazie al signor Herman Zingg, un proprietario terriero che si è impossessato di più di 8.000 ettari della Valle di Guanay e pensa di prendersi tutta la valle di 50.000 ettari che l'Istituto Agrario Nazionale ha attribuito a noi con titolo collettivo. L'IAN in varie occasioni gli ha negato il riconoscimento dei suoi pretesi diritti sulle terre dei Piaroa, ma poiché lui è ricco e potente ha continuato. E poiché ci considera come gli altri animali della foresta ha avuto la faccia tosta di offrire di comprare tutta la valle di Guanay con i Piaroa e tutto". (Bollettino IWGA n.3/4,1984: 156).
Sotto la pressione dell'opinione pubblica, nel giugno 1984 il governo nomina una commissione investigativa che dimostra subito da quale parte sta, alloggiando nell'azienda di Zingg e usando il suo aereo privato e conclude la sua indagine con l'accusa di "sovversione ideologica": qualcuno - concludono - sta spingendo gli indigeni a ribellarsi alla società creola. Comunisti e Chiesa cattolica si sarebbero alleati per costruire uno stato indipendente nell'Amazzonia Venezuelana!
Forse per la prima volta in Venezuela l'opinione pubblica si divide in due fronti rispetto al problema indigeno. Sulla stampa non si parla d'altro. Conclusione: il governo riconosce i diritti dei Piaroa ed "espelle" Zingg. Si tratta in realtà di un gioco di potere: in cambio gli vien dato un terreno più fertile oltre ad un congruo indennizzo.

Il ruolo dei militari
Il problema del riconoscimento legale alle società indigene del diritto alle terre occupate (nel senso globale prima descritto) incontra scarsa attenzione negli organismi amministrativi dei diversi governi.
Troppi sono gli interessi in gioco e troppe le complicità esistenti tra il potere politico locale e nazionale e i centri di potere economico.
In questo senso non bisogna dimenticare che buona parte delle famiglie che mantengono il potere all'interno dei vari stati latinoamericani sono di origine agraria e i loro latifondi (in parte in aree indigene) continuano a produrre molto, soprattutto dopo la loro conversione in aziende agricole "moderne", con monoculture estensive (soia, sorgo, ecc.) e allevamenti bovini meccanizzati. Anche in questo contesto il caso del Brasile è molto rappresentativo.
La presenza dei militari in tutti questi processi richiederebbe uno studio a parte. La "vecchia" giustificazione della "sicurezza nazionale" viene utilizzata quando più conviene per giustificare la sua intromissione. In alcuni casi come in Colombia e Perù l'esistenza della guerriglia provoca automaticamente l'occupazione violenta delle terre indigene da parte dei militari. E così qualunque leader indigeno diviene immediatamente sospetto e interi villaggi sono rasi al suolo.
In questo modo i militari cercano semplicemente di eliminare i conflitti locali, soprattutto quelli che riguardano la terra , utilizzando come giustificazione la guerriglia.
In altri paesi in mancanza di guerriglia è la "difesa delle frontiere" a giustificare (o meglio autogiustificare) la presenza dei militari nei territori indigeni.
Essi sono massicciamente presenti alle frontiere fra Perù ed Ecuador, in territorio Shuar; alla frontiera fra Venezuela e Colombia in area Guajira; fra Venezuela e Guayuana, in area Pemon; fra Brasile e Perù , in area Kulina e Kampa, ecc...Fra tutte queste politiche di occupazione militare delle aree indigene, quella del Brasile merita un maggiore approfondimento.

Il progetto "Calha Norte" (Brasile)
Il "progetto Calha Norte" prevede l'occupazione militare nelle frontiere a nord del Brasile, di circa 6500 Km di foresta amazzonica. La cartina indica le aree dove i militari brasiliani pretendono di costruire i loro aeroporti e forti, ai confini di Perù, Colombia, Venezuela, Guyanna e Surinam. Tutta questa zona di circa 100/150 Km in larghezza lungo tutta la frontiera nord, è territorio indigeno con almeno 50.000 persone di gruppi culturali diversi (Wapixana, Makuxi, Yanomami, Tucanos, ecc.). Inoltre, considerando le buone relazioni esistenti tra militari e gruppi economici - sia nazionali che internazionali - questa occupazione può essere considerata il primo passo per l'entrata di aziende petrolifere, minerarie, ecc...
Il Presidente del Consiglio Indigenista Missionario (CIME), il vescovo Krantler, afferma che "esistono due forze simultanee con fini diversi in questa regione che occupa il 14% del territorio brasiliano: da una parte i militari intervengono con una operazione logistica, che alla fine porterà all'instaurazione di un potere politico nell'area, e dall'altra le multinazionali protette perché sfruttino le miniere e utilizzino gli indios per i propri interessi". (El Nacional, 28/6/87, Caracas).
All'inizio di settembre del 1987 il Ministro dell'esercito brasiliano installò il primo plotone del progetto "Calha Norte" sulla frontiera con la Colombia. La stessa occupazione è iniziata in Rororaima, ai confini con Venezuela e Guayana.
Oltre a tutte queste azioni di governi o di gruppi economici particolari periodicamente viene rispolverata una vecchia tecnica "pubblicitaria" anti-indigena: sono o non sono indigene le popolazioni che pretendono di esserlo? In modo del tutto prevedibile i gruppi creoli dominanti ricorrono a questa tattica quando aumentano le lotte indigene organizzate e parte della società creola appoggia queste lotte. Si tratta, in definitiva, di convincere l'opinione pubblica creola che questi gruppi non sono indigeni visto che si vestono e parlano come il resto della popolazione. Inoltre dove fino a pochi anni fa gli organismi "tutelari" ponevano il problema in termini di razza - fino al 1980 in Brasile la Funai cercava le "macchie razziali" degli indigeni - ora sono diventati più sofisticati e, giustificati da studi antropologi, cominciano a utilizzare concetti come acculturazione, grado di contatto, ecc...
Si elaborano così "criteri" per decidere chi è indio e chi non lo è, con il conseguente diritto alla terra riconosciuto solo a chi può essere considerato "puro e non contaminato"!
Non stiamo parlando del passato, ma di realtà contemporanee e processi in corso attualmente. Ad esempio, in Brasile, poco tempo fa, i deputati eletti dall'Assemblea Costituente dovevano, tra l'altro, riscrivere la legislazione riguardante gli indigeni.
Poi, il 19 settembre 1987, il deputato Bernardo Cabral presenta ai giornalisti il testo provvisorio della Costituzione in cui l'articolo 261 riconosce agli indigeni il diritto "su tutte le terre possedute dai tempi antichi e dove sono permanentemente localizzati".
Questo significa che i gruppi indigeni espulsi dalle loro terre non avrebbero nessun diritto a riaverle. Di più, l'articolo 264 nega qualunque protezione costituzionale specifica agli "indios che abbiano un elevato grado di acculturazione e che mantengano una costante convivenza con la società nazionale".
Il che equivale a dire che chi commercia coi bianchi, si dice cristiano, o ha un abbigliamento, o protesta alla maniera dei bianchi, o ha il suo territorio invaso, non ha diritto alla proprietà della terra.

La difesa dei territori indigeni
Noi chiediamo: chi può stabilire con certezza quando un popolo cessa di essere se stesso per diventare "altro"?
Gli indigeni, da parte loro, almeno negli ultimi vent'anni, non sono rimasti inattivi aspettando che i "bianchi" trovassero la soluzione. In quasi tutto il continente abbiamo assistito ad azioni indigene individuali o di gruppi associati nelle lotte per la difesa e la rivendicazione dei territori tradizionali. Sembra quasi che gli indigeni si siano stancati di aspettare il riconoscimento attraverso i meccanismi dello stato occidentale.
In Ecuador, ad esempio, la Confederazione delle Nazioni Indigene dell'Amazzonia Ecuadoriana (CONFENIAE) apre il suo calendario del 1988 con lo slogan: "Con titolo o senza titolo siamo padroni legittimi dei nostri territori". Si tratta senza dubbio di un caso particolare e all'avanguardia nel panorama indigeno latino-americano, che vale la pena di citare perché costituisce un'importante indicazione di lotta e perché la CONFENIAE è una confederazione che riunisce tutte le federazioni indigene dell'Amazzonia ed è molto seguita nel contesto ecuadoriano.
La difesa della terra, in generale, sembra articolarsi in almeno quattro modalità, non necessariamente coincidenti né esclusive.

La difesa anche armata
Rispetto a questo tipo di difesa si possono citare molti casi. Fondamentalmente si tratta di impedire, per quanto possibile, l'entrata di persone estranee nel territorio. A volte è sufficiente creare e divulgare la fama di "selvaggi" per impedire l'entrata. In altri casi gli indigeni sono costretti a ricorrere alla forza col rischio di veder arrivare in massa i "vendicatori". In Brasile, ad esempio, all'inizio degli anni '70, la necessità di difendere il proprio territorio ha portato i Waimirì e gli Atroarì ad uccidere il missionario Calleri e i suoi accompagnatori che tentavano di "pacificarli". Ma ciò nonostante i Waimirì e gli Atroarì non riuscirono a bloccare le scavatrici che avanzavano nei loro territori per costruire la strada Manaus-Boa Vista, né gli elicotteri dell'esercito che le difendevano. Essi cercarono di difendersi, ma contro le armi sofisticate dei bianchi, le frecce poterono ben poco: la strada fu costruita e i due popoli furono parzialmente decimati sia dai soldati, sia dalle malattie introdotte (all'epoca furono denunciate anche incursioni di elicotteri armati nei villaggi).
È evidente che questo tipo di difesa non può essere vincente nel contesto degli attuali stati nazionali latinoamericani, anche se esistono situazioni e condizioni dove continua ad essere utilizzato, a volte anche con buoni risultati. Ad esempio, le "ronde contadine" quechua in Perù, organizzate spontaneamente contro gli abusi della guerriglia e dell'esercito stesso, funzionano relativamente bene per impedire l'entrata di estranei nei loro territori. Un po' diverso è il caso degli Huaorani nell'Ecuador.

Il caso Huaorani
Questo popolo, ridotto a circa 700/1000 persone persiste nella difesa del suo territorio anche di fronte all'invasione delle aziende petrolifere. Diamo una rapida scorsa alle ultime tappe di questo conflitto:
1921 - La compagnia Shell inizia la sua attività nella regione.
1948 - Entra nella zona anche la Esso Standard.
1951 - Sebbene ridotti numericamente per gli assassini da parte dei cercatori di caucciù e per le malattie portate dai bianchi, gli Huaorani mantengono inviolato un territorio di circa 18.000 Kmq.
1956 - Cinque missionari del ILV sono uccisi dagli Huaorani.
1958 – Inizia l'invasione dei coloni, solo in parte frenata dalla difesa degli Huaorani. Disgraziatamente si tratta di indios quechua che sono costretti ad emigrare dalla Sierra alla foresta.
1960-1977 - In questo periodo una parte degli Huaorani è "pacificata" dai missionari, mentre una buona parte continua ad essere isolata e non accetta il contatto. In questi anni 8 quichuas e 5 coloni vengono uccisi. Questi fatti vengono utilizzati per giustificare l'invasione armata. Mancano completamente i dati sugli Huaorani morti in queste incursioni dell'esercito.
1986 - Il "Blocco petrolifero n. 17" viene assegnato al consorzio BASPETROL (Brasile), ELF AQUITAINE (Francia), quest'ultima già famosa per l'invasione delle terre Sateré-Manes in Brasile (1982), e BRITOIL (Inghilterra). Il blocco n. 17 coincide con le aree dei Tagaeri, ultimi Huaorani isolati.
1987 - Il vescovo Labacca e una suora vengono uccisi nel tentativo di stabilire un contatto con i Tagaeri prima delle compagnie petrolifere. Malgrado i due religiosi fossero impegnati nella difesa degli indigeni e conoscessero la problematica locale, essi commisero un tragico errore: si fecero portare nell'area Tagaeri da un elicottero di una delle compagnie petrolifere. Come scrisse un missionario cappuccino della stessa congregazione di Labacca, "le lance furono tirate contro le compagnie petrolifere, non contro padre Alessandro".
(Hoy, 24 giugno 1987: 3 Quito).

La rioccupazione pacifica delle terre
Prima di esaminare alcuni esempi di questo tipo di difesa è necessario sottolineare che si tratta di un comportamento molto diffuso. Infatti è relativamente frequente che l'invasione creola sia seguita da un tentativo degli indigeni, più o meno organizzato, di riappropriarsi delle loro terre. Questo processo è diffuso al nord del Brasile (Rororaima) come in Venezuela (caso Piaroa), in Paraguay (Guarany), Perù, ecc...Senza dubbio in alcune aree questo tipo di azioni si presenta come una vera e propria strategia regionale, come nel caso dei Quechua in Perù.
Prima di descrivere i fatti attuali vediamo alcuni riferimenti storici. La riforma agraria di Velasco aveva creato in Perù "aziende agricole", controllate dallo stato, per favorire lo sviluppo agricolo della regione andina. Queste "aziende" riunivano gruppi di contadini in una struttura tecnico-amministrativa. Caduto il governo di Velasco la riforma viene "sepolta" e le aziende si trasformano in nuove strutture di potere e di sfruttamento.
Basti dire che, nel caso della regione di Puno, il 54% delle terre fino al 1985 era controllato da queste "aziende".
Nel 1985 si sviluppa la protesta dei contadini quechua. Nel febbraio 1986 si cerca di strappare al governo di Alan Garcia due decreti sulla ristrutturazione delle "aziende". Ma l'applicazione dei due decreti tarda e così in maggio 156 comunità di 9 province di Puno prendono possesso di circa 280.000 ettari. La repressione da parte dell'esercito e della polizia non si fa attendere: un dirigente assassinato e 375 arrestati.
Grazie all'appoggio delle Federazioni Unitarie dei Contadini (CARICOMA) si cerca di far scarcerare i contadini arrestati e le lotte riprendono. Nel giugno 1987, finalmente, si riesce a discutere con il ministro e ad ottenere l'assegnazione delle terre occupate. Per accelerare l'attuazione delle promesse del governo in luglio si attua un'altra ondata di occupazioni nella regione, e così altre terre vengono assegnate.
Attualmente il grande pericolo, per i contadini quechua, è la "criminalizzazione" delle loro azioni rivendicative da parte dell'esercito che utilizza l'accusa di appartenenza a Sendero Luminoso per incarcerare i leader indigeni e stroncare le lotte per la difesa della terra.

La delimitazione autonoma delle terre
Tra i casi di autodelimitazione del proprio territorio citeremo il caso degli Shuar dell'Ecuador che sono l'esempio più interessante di questo tipo di azioni e di un processo più generale in cui gli indigeni fanno proprie le tecniche di lotta tipiche dei loro invasori.
Sin dalla sua fondazione, negli anni '20, la Federazione Shuar ha lottato per ottenere il riconoscimento del suo diritto di proprietà sulla terra. In quegli anni ad alcuni gruppi il diritto è stato riconosciuto, ma alla maggior parte no. Nel periodo in cui questa lotta è continuata la Commissione Terra della Federazione, in collaborazione con gli organismi di cooperazione internazionale, ha creato un suo settore topografico per misurare le terre delle comunità (i "centri Shuar") e poter così combattere giuridicamente e "topograficamente" le pretese dei coloni e delle compagnie petrolifere appoggiate dal governo. Nel 1987 si può considerare conclusa la fase di misurazione delle terre Shuar, mentre deve ancora attuarsi quella del territorio Achuar, gruppo della stessa Federazione.
Un effetto secondario, ma non meno importante di questi anni di misurazioni topografiche, è stata la formazione di quattro topografi Shuar che continueranno autonomamente le misurazioni dando il loro appoggio alle comunità che lo richiederanno (i topografi non Shuar che hanno cooperato al progetto hanno concluso la loro collaborazione nel 1987).

La lotta giuridica
Con la creazione delle federazioni indigene nella maggioranza degli stati latino-americani gli indigeni hanno progressivamente compreso che nel rapporto con i creoli è molto importante il sistema legislativo e burocratico occidentale. Non si tratta di escludere altre strategie, bensì di integrarle, di riempire di propri contenuti e di forza l'utilizzo dell'apparato giuridico dello stato. Così, vengono consultati avvocati sensibili al problema indigeno e i gruppi indigenisti a livello nazionale e internazionale formano commissioni di studio cercando di trovare gli strumenti legali per dimostrare la legittimità delle rivendicazioni indigene.
In molti paesi si sono creati gruppi di avvocati disposti ad intervenire nei casi di conflitti prodotti dalle invasioni e molte organizzazioni indigene tendono a formare propri avvocati per cui in Ecuador e Venezuela, ad esempio, giovani indigeni stanno frequentando le facoltà di legge nelle università nazionali.
Come esempio di lotta giuridica si può citare il caso dei Maskoy del Chaco paraguayano. Da quattro anni i Maskoy, un gruppo guarany formato da circa 10.000 persone, cercano di riavere le proprie terre occupate illegalmente dalla compagnia CASADO S.A.; rifiutata la proposta di occupare altre terre, hanno preferito tentare la via legale e dopo anni di pressioni e dimostrazioni, nell'agosto del 1987, il governo ha decretato l'espropriazione di 30.000 ettari alla CASADO, nella zona del rio Mosquito, in favore dei Maskoy.

Quale futuro per i territori indigeni
Da quanto abbiamo detto sinora emergono alcune linee di tendenza che vale la pena di riassumere:
a) I popoli indigeni si stanno organizzando sempre più per difendere i loro territori o riuscire a farseli restituire;
b) A livello internazionale si moltiplicano gli incontri indigeni e indigenisti per scambiarsi le diverse esperienze ed elaborare strategie a livello continentale, oltre che per coordinare momenti specifici di lotta su problemi comuni (ad esempio la problematica amazzonica);
c) Su questi obiettivi hanno trovato alleati nella società non indigena dei diversi paesi: antropologi, intellettuali, gruppi di opinione, ecc., che collaborano con loro in un modo nuovo rispetto a certo indigenismo neo-romantico;
d) È stato molto importante l'appoggio, non solo finanziano, delle istituzioni internazionali preoccupate per il futuro di questi popoli.
Ma i problemi sono ancora molti. Innanzi tutto quelli relativi al mantenimento delle organizzazioni indigene che fluttuano, almeno a livello organizzativo, tra forme tradizionali di gestione e nuovi modelli mutuati dal mondo occidentale. Più di una organizzazione si è dissolta per non aver saputo risolvere questa coesistenza di modelli culturali diversi. Inoltre da parte delle società nazionali non diminuisce certo l'interesse per le terre indigene, anzi è ampiamente prevedibile che questo interesse aumenti in futuro, soprattutto rispetto all'Amazzonia.
Infatti, mentre le multinazionali, spinte dal profitto, continuano ad investire milioni di dollari nel progetto amazzonico, anche i governi locali, attratti dal mito dei facili guadagni, aumentano gli investimenti in queste regioni (alla ricerca disperata di soluzioni alle loro economie in crisi) senza tenere assolutamente conto degli interessi ambientali né tantomeno degli indigeni.
Di fronte a questa realtà sono gli stessi popoli indigeni ad organizzarsi, e non su basi falsamente rivendicative delle condizioni anteriori alla conquista, ma con chiari programmi di lotta idonei ai tempi e alle condizioni locali. Il destino di queste lotte dipende in gran parte dalle condizioni politiche locali, cioè dalla capacità di capire le forze in gioco. Vale anche la pena di accennare al problema delle alleanze con gruppi politici non indigeni. Negli ultimi vent'anni di politica indigenista in America Latina sembrerebbe che partiti e gruppi di sinistra abbiano assunto posizioni a favore delle lotte indigene. Certo, se si considerano alcuni fatti specifici, bisogna dire che non è stato sempre vero. Ad esempio nel caso della Sierra ecuadoriana l'alleanza con partiti di sinistra non ha sempre dato buoni risultati. In un certo senso la stessa cosa è avvenuta in Perù e Bolivia. In tutti questi casi l'utilizzazione di categorie come "classe" o "contadini" (cioè di un classico schema marxista, ndt.), ha posto in secondo piano l'identificazione etnica di questi popoli mentre è proprio questo il punto su cui oggi le lotte hanno ripreso vigore e contenuti.

Terra, organizzazione e cultura
D'altro canto molti partiti scoprono l'esistenza del "problema" indigeno solo in periodo elettorale per dimenticarlo subito dopo. O, in modo ancora più cinico, utilizzano gli indigeni per raccogliere voti o per farsi pubblicità, per dimenticarli subito dopo.
In Brasile, ad esempio, dopo la vittoria elettorale del leader Shavante Juruna (eletto al parlamento nelle liste del PDT nella passata legislatura), nessuno dei candidati indigeni alla Assemblea Costituente (una decina) è stato eletto (scarso appoggio dei partiti, folclorizzazione. ecc.). Anche da parte indigena spesso non si capisce l'importanza di partecipare a lotte proposte da altri gruppi sociali. Un paio d'anni fa, ad esempio, durante uno sciopero nazionale dei maestri ecuadoriani, gli unici a non partecipare furono maestri indigeni Shuar, con la motivazione che essi, in quanto indigeni, non hanno nulla a che vedere con le rivendicazioni dei creoli. Simili esempi non sono isolati e rendono più urgente la necessità di chiarire le posizioni politiche da una parte e dall'altra. È evidente che non si può prescindere dall'esistenza del sistema politico statale sia per elaborare strategie adeguate alla realtà, sia per cercare di ottenere i territori tradizionali.
Per riassumere citiamo la piattaforma politica utilizzata in Brasile nella campagna "l'indio nella costituente", che ci sembra comune anche alla maggior parte delle organizzazioni indigene in America Latina:
1. Riconoscimento dei diritti territoriali.
2. Delimitazione e garanzia delle terre indigene.
3. Sfruttamento e usufrutto esclusivo delle risorse naturali del suolo e del sottosuolo.
4. Reinsediamento in condizioni degne e giuste dei coloni poveri che si trovano sulle terre indigene.
5. Riconoscimento e rispetto per le organizzazioni sociali e culturali dei popoli indigeni e dei loro progetti sul futuro, oltre alla garanzia di piena cittadinanza.
In questo modo terra, organizzazione e cultura sono nuovamente riunite in un unico programma di difesa e di lotta. Il futuro di questi popoli si gioca in base alla capacità di mantenere uniti questi tre aspetti della loro vita.

(traduzione di Fausta Bizzozzero dal n.9, dicembre 1988, della rivista Arinsana)