Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 164
maggio 1989


Rivista Anarchica Online

Un futuro aperto
di Nico Berti

L'utopia esaminata nell'ottica di un anarchismo problematico, che sappia mantenere - accanto alla critica di ogni futuro all'insegna del dominio - la capacità di non bollare a priori tutto ciò che anarchico non è.

L'utopia nasce nel Rinascimento, non prima, e quindi neppure la "Repubblica" di Platone può a buon diritto rientrare nella categoria dell'utopia, come non vi può rientrare ad esempio il messianesimo ebraico. L'utopia, quindi, nasce nel Rinascimento perché fino ad allora nel pensiero umano è dominante il teocentrismo e solo col Rinascimento diventa dominante l'antropocentrismo. Infatti nell'età antica la funzione che oggi svolge l'utopia era svolta dal mito - che è una concezione della storia come eterno ritorno -; il cristianesimo non è più mito ma è escatologia, cioè l'idea che la storia umana ha un fine che è inverato dall'avvento del Messia, cioè del regno dei cieli, che si invera nel processo storico; il processo storico, a sua volta, rappresenta praticamente una parabola poiché deve dar ragione di questa idea messianica, di una cosa che deve avvenire e che deve concludere il processo storico stesso. Siamo però ancora all'interno di una cultura teocentrica, cioè di una cultura che pone Dio al centro dell'universo.
Il Rinascimento invece, come sappiamo, compie una rivoluzione radicale e passa dal teocentrismo all'antropocentrismo e quindi non c'è più Dio al centro del mondo ma c'è l'uomo, così come non c'è più l'idea della salvezza attraverso l'inveramento e la fine della storia - o attraverso un ritorno alle origini (il mito) - ma c'è adesso l'idea della storia come progresso lineare indefinito. È questa la radice dell'idea di progresso che attraverserà tutto l'ottocento e il novecento.
Quello che è importante notare, sottolineare, discutere, è vedere se c'è una continuità tra il mito, l'escatologia e l'utopia o se c'è una rottura. Io dico che c'è una rottura, nel senso che la rottura avviene proprio tra le prime due fasi - il mito e l'escatologia - e l'utopia con la sua concezione della storia come processo indefinito. Cosa significa in realtà? Progresso indefinito vuol dire sotto sotto, implicitamente, che non c'è più nella cultura umana un'unica idea della storia, e non a caso nasce l'utopia, cioè nasce la pluralità di senso e di progettualità del futuro che prima non era possibile perché esisteva un unico futuro possibile; nasce quindi l'utopia come progetto, come capacità di pensare il futuro non come un futuro che è determinato dentro il presente, ma come un futuro che è il frutto di un progetto razionale umano. La storia diventa quindi manipolabile dall'uomo.
La domanda che si pone è se si tratta veramente di una rottura tra l'utopia e la precedente escatologia e il precedente mito. Io sostengo che questa rottura esiste, ma altri pensatori la pensano diversamente e sostengono che il mito come l'escatologia e l'utopia scaturiscono da uno stesso sentire e cioè dall'indignazione morale verso il presente, per cui da questo punto di vista non sarebbe tanto importante ii fatto di pensare la storia in modo diverso quanto la radice etica comune, la comune insoddisfazione del presente, una comune tensione etica e un comune pensare "religioso". Non c'è speranza - avrebbe detto Bloch - senza religione, e naturalmente l'utopia, comunque la si pensi, è un sogno di speranza.

Da Marx a Stalin
Per vedere come è possibile concepire una visione "religiosa" dell'utopia e dunque una continuità (ma io sostengo che non c'è e poi spiegherò perché) tra escatologia e utopia possiamo pensare ad esempio a un grande utopista come Carlo Marx. Perché Marx è un utopista? Perché è un hegeliano. E perché è hegeliano? Perché vuole trovare Dio nella storia. Infatti, mentre l'utopista fino all'illuminismo costruisce un modello antropologico che tutto sommato fa riferimento a un quadro concettuale "individualista", con Marx - e quindi con tutto il filone dello storicismo che attraversa senza soluzione di continuità tutto l'ottocento e che intacca profondamente qua e là anche il pensiero anarchico - abbiamo il tentativo di trovare l'inveramento, l'autenticità dell'essere, cioè di Dio, nel processo storico. Cioè abbiamo un immanentismo che ha divinizzato il processo storico a tal punto che il comunismo (il Marx dei Manoscritti economico-filosofici del ''44) è veramente il risolto enigma della storia. Questo significa che il fine del cammino umano, cioè il comunismo, ci dice tutto della storia umana, è quella cartina di tornasole che ci dice che cosa veramente è la natura umana, e quindi abbiamo l'assolutizzazione della storia perché c'è un'unica storia che porta a un unico traguardo cioè il comunismo. Siamo qui in un campo perfettamente utopistico ma anche perfettamente totalitario. È questa la matrice che porta poi ai gulag di Stalin, perché la verità è una, e chi non l'accetta è nell'errore e quindi va in prigione o in manicomio.
Ora torniamo un passo indietro e vediamo cosa significa l'utopia in sé. Abbiamo detto che l'utopia non può che essere un progetto razionale - e sottolineo questo termine "razionale" - perché qualunque pensatore che si è cimentato nel pensiero utopico ha costruito un progetto razionale. Questo non significa che l'utopia sia la teorizzazione della razionalità o l'enfatizzazione del razionalismo, ma significa che qualunque progetto utopico non può che pensarsi in senso razionale. Questo è molto importante perché significa anche - e qui entriamo di nuovo nel campo minato della valenza totalitaria dell'utopia - che concepire un progetto razionale di un futuro implica il ritenere che vi sia un'unica ragione, cioè presuppone che si possa ipotecare il futuro con un progetto a partire dal fatto che siamo nel campo di una ragione che non conosce la divisione in se stessa in più ragioni.
Questo dichiararsi progetto razionale che è stato il filo conduttore di tutte le utopie, l'elemento comune di una intenzione, significa a sua volta un'altra cosa e cioè che un utopista non può che avere un'idea "forte" dell'uomo e questa idea "forte" dell'uomo significa scommettere sull'uomo, significa ancora una volta dire che l'uomo "vero" è quello pensato, che la ragione non può che pensarsi così.

La crisi della ragione
Questo discorso è oggi profondamente in crisi perché esiste la crisi della ragione e quindi non esiste più produzione utopistica.
Ma si tratta di una crisi - a cui io non credo peraltro, anche se in questi ultimi dieci anni ne hanno parlato tutti i filosofi - che risale alla fine dell'ottocento, quando si è cominciato a mettere in discussione l'idea di progresso, l'idea dello sviluppo lineare della storia. Una ulteriore valenza della crisi della ragione è costituita dal conflitto - sottolineato da Max Weber agli inizi del novecento - tra la coscienza del presente e la coscienza anticipata del futuro, cioè tra l'etica della responsabilità e l'etica della convinzione; si tratta di un conflitto drammatico e insolubile poiché non è mai possibile riunire completamente l'etica della convinzione e l'etica della responsabilità.
Tutto questo cosa significa? Parlando della crisi della ragione, comunque, siamo sempre all'interno - ed è per questo che io sostengo che non esiste una "crisi della ragione" - di quella divisione che aveva già impostato Kant fra la ragione e l'intelletto, cioè tra la ragione che ci rende consapevoli dell'aspetto filosofico del problema e l'intelletto che ci rende possibile risolvere il problema in senso concreto. E quindi, rispetto all'utopia, se può essere possibile pensare un progetto del futuro con la ragione, è possibile non avere l'intelletto per renderlo praticabile.

Doppia valenza
Ecco perché l'utopia ha questa doppia valenza, totalitaria e libertaria.
Ha valenza totalitaria quando si vuole far coincidere l'intelletto con la ragione, quando si pretende appunto di inverare quell'unico progetto che pensiamo "vero" ipotecando tutto il futuro e quindi immettendoci dentro quella prospettiva che vuole inverare la storia attraverso la sua assolutezza, divinizzando la storia e divinizzando il nostro progetto.
La dimensione libertaria dell'utopia è quella di pensare l'utopia non come progetto assoluto, e quindi non può che avere ed esprimere un'idea "debole" dell'uomo, non un'idea "forte". Avere un'idea "debole" dell'uomo significa ritenere che questo progetto non possa essere fino in fondo un progetto ma semplicemente una proposta. In questo senso la funzione dell'utopia è propedeutica a scatenare una tensione morale che non solo renda insoddisfatto il soggetto di fronte al presente ma che lo renda motivato eticamente a pensare più futuri, e quindi ad avere una visione indefinita della libertà (e non una visione definita).
Si può quindi parlare di un'utopia aperta e di un'utopia chiusa, per mutuare il linguaggio di Popper. Il problema è tenere aperta la possibilità. Ma allora l'anarchismo è un anarchismo forte, che ha un'idea "forte" dell'uomo e la deve rivendicare fortissimamente, quando tutta la sua dimensione utopistica non consiste solo nel pensare il progetto come progetto indefinito, ma consiste anche e soprattutto nel pensare ogni possibile futuro in senso autoritario per negarlo alla radice. Vale a dire - e qui ritorniamo a una dimensione che però è "religiosa" - che ogni possibile futuro se non è quel possibile che pensiamo noi è effettivamente una riproduzione del potere e quindi una negazione del futuro inteso come indeterminatezza, poiché il futuro inteso come riproduzione del potere non è altro che riproduzione del passato.
Da un punto di vista anarchico questo significa pensare contemporaneamente due cose: la critica alla possibilità della riformazione del potere - e quindi avere una posizione aprioristicamente negativa, cioè "religiosa" - tenendo aperta però la possibilità di pensare il futuro come possibilità indeterminata e quindi giocare anche il rischio di non bollare a priori con la critica tutto ciò che anarchico non è. L'anarchismo deve avere questa duplice tensione e non può mai pensarsi fino in fondo né in un modo né nell'altro. L'anarchismo è, per nostra fortuna, problematico.