Rivista Anarchica Online
Un
futuro aperto
di Nico Berti
L'utopia
esaminata nell'ottica di un anarchismo problematico, che sappia
mantenere - accanto alla critica di ogni futuro all'insegna del dominio
- la capacità di non bollare a priori tutto ciò che
anarchico non è.
L'utopia
nasce nel Rinascimento, non prima, e quindi neppure la "Repubblica"
di Platone può a buon diritto rientrare nella categoria
dell'utopia, come non vi può rientrare ad esempio il
messianesimo ebraico. L'utopia, quindi, nasce nel Rinascimento perché
fino ad allora nel pensiero umano è dominante il teocentrismo
e solo col Rinascimento diventa dominante l'antropocentrismo. Infatti
nell'età antica la funzione che oggi svolge l'utopia era
svolta dal mito - che è una concezione della storia come
eterno ritorno -; il cristianesimo non è più mito ma è
escatologia, cioè l'idea che la storia umana ha un fine che è
inverato dall'avvento del Messia, cioè del regno dei cieli,
che si invera nel processo storico; il processo storico, a sua volta,
rappresenta praticamente una parabola poiché deve dar ragione
di questa idea messianica, di una cosa che deve avvenire e che deve
concludere il processo storico stesso. Siamo però ancora
all'interno di una cultura teocentrica, cioè di una cultura
che pone Dio al centro dell'universo. Il
Rinascimento invece, come sappiamo, compie una rivoluzione radicale e
passa dal teocentrismo all'antropocentrismo e quindi non c'è
più Dio al centro del mondo ma c'è l'uomo, così
come non c'è più l'idea della salvezza attraverso
l'inveramento e la fine della storia - o attraverso un ritorno alle
origini (il mito) - ma c'è adesso l'idea della storia come
progresso lineare indefinito. È questa la radice dell'idea di
progresso che attraverserà tutto l'ottocento e il novecento.
Quello
che è importante notare, sottolineare, discutere, è
vedere se c'è una continuità tra il mito, l'escatologia
e l'utopia o se c'è una rottura. Io dico che c'è una
rottura, nel senso che la rottura avviene proprio tra le prime due
fasi - il mito e l'escatologia - e l'utopia con la sua concezione
della storia come processo indefinito. Cosa significa in realtà?
Progresso indefinito vuol dire sotto sotto, implicitamente, che non
c'è più nella cultura umana un'unica idea della storia,
e non a caso nasce l'utopia, cioè nasce la pluralità di
senso e di progettualità del futuro che prima non era
possibile perché esisteva un unico futuro possibile; nasce
quindi l'utopia come progetto, come capacità di pensare il
futuro non come un futuro che è determinato dentro il
presente, ma come un futuro che è il frutto di un progetto
razionale umano. La storia diventa quindi manipolabile dall'uomo. La
domanda che si pone è se si tratta veramente di una rottura
tra l'utopia e la precedente escatologia e il precedente mito. Io
sostengo che questa rottura esiste, ma altri pensatori la pensano
diversamente e sostengono che il mito come l'escatologia e l'utopia
scaturiscono da uno stesso sentire e cioè dall'indignazione
morale verso il presente, per cui da questo punto di vista non
sarebbe tanto importante ii fatto di pensare la storia in modo
diverso quanto la radice etica comune, la comune insoddisfazione del
presente, una comune tensione etica e un comune pensare "religioso".
Non c'è speranza - avrebbe detto Bloch - senza religione, e
naturalmente l'utopia, comunque la si pensi, è un sogno di
speranza.
Da
Marx a Stalin
Per
vedere come è possibile concepire una visione "religiosa"
dell'utopia e dunque una continuità (ma io sostengo che non
c'è e poi spiegherò perché) tra escatologia e
utopia possiamo pensare ad esempio a un grande utopista come Carlo
Marx. Perché Marx è un utopista? Perché è
un hegeliano. E perché è hegeliano? Perché vuole
trovare Dio nella storia. Infatti, mentre l'utopista fino
all'illuminismo costruisce un modello antropologico che tutto sommato
fa riferimento a un quadro concettuale "individualista",
con Marx - e quindi con tutto il filone dello storicismo che
attraversa senza soluzione di continuità tutto l'ottocento e
che intacca profondamente qua e là anche il pensiero anarchico
- abbiamo il tentativo di trovare l'inveramento, l'autenticità
dell'essere, cioè di Dio, nel processo storico. Cioè
abbiamo un immanentismo che ha divinizzato il processo storico a tal
punto che il comunismo (il Marx dei Manoscritti economico-filosofici
del ''44) è veramente il risolto enigma della storia. Questo
significa che il fine del cammino umano, cioè il comunismo, ci
dice tutto della storia umana, è quella cartina di tornasole
che ci dice che cosa veramente è la natura umana, e quindi
abbiamo l'assolutizzazione della storia perché c'è
un'unica storia che porta a un unico traguardo cioè il
comunismo. Siamo qui in un campo perfettamente utopistico ma anche
perfettamente totalitario. È questa la matrice che porta poi
ai gulag di Stalin, perché la verità è una, e
chi non l'accetta è nell'errore e quindi va in prigione o in
manicomio. Ora
torniamo un passo indietro e vediamo cosa significa l'utopia in sé.
Abbiamo detto che l'utopia non può che essere un progetto
razionale - e sottolineo questo termine "razionale" -
perché qualunque pensatore che si è cimentato nel
pensiero utopico ha costruito un progetto razionale. Questo non
significa che l'utopia sia la teorizzazione della razionalità
o l'enfatizzazione del razionalismo, ma significa che qualunque
progetto utopico non può che pensarsi in senso razionale.
Questo è molto importante perché significa anche - e
qui entriamo di nuovo nel campo minato della valenza totalitaria
dell'utopia - che concepire un progetto razionale di un futuro
implica il ritenere che vi sia un'unica ragione, cioè
presuppone che si possa ipotecare il futuro con un progetto a partire
dal fatto che siamo nel campo di una ragione che non conosce la
divisione in se stessa in più ragioni. Questo
dichiararsi progetto razionale che è stato il filo conduttore
di tutte le utopie, l'elemento comune di una intenzione, significa a
sua volta un'altra cosa e cioè che un utopista non può
che avere un'idea "forte" dell'uomo e questa idea "forte"
dell'uomo significa scommettere sull'uomo, significa ancora una volta
dire che l'uomo "vero" è quello pensato, che la
ragione non può che pensarsi così.
La
crisi della ragione
Questo
discorso è oggi profondamente in crisi perché esiste la
crisi della ragione e quindi non esiste più produzione
utopistica. Ma si
tratta di una crisi - a cui io non credo peraltro, anche se in questi
ultimi dieci anni ne hanno parlato tutti i filosofi - che risale alla
fine dell'ottocento, quando si è cominciato a mettere in
discussione l'idea di progresso, l'idea dello sviluppo lineare della
storia. Una ulteriore valenza della crisi della ragione è
costituita dal conflitto - sottolineato da Max Weber agli inizi del
novecento - tra la coscienza del presente e la coscienza anticipata
del futuro, cioè tra l'etica della responsabilità e
l'etica della convinzione; si tratta di un conflitto drammatico e
insolubile poiché non è mai possibile riunire
completamente l'etica della convinzione e l'etica della
responsabilità. Tutto
questo cosa significa? Parlando della crisi della ragione, comunque,
siamo sempre all'interno - ed è per questo che io sostengo che
non esiste una "crisi della ragione" - di quella divisione
che aveva già impostato Kant fra la ragione e l'intelletto,
cioè tra la ragione che ci rende consapevoli dell'aspetto
filosofico del problema e l'intelletto che ci rende possibile
risolvere il problema in senso concreto. E quindi, rispetto
all'utopia, se può essere possibile pensare un progetto del
futuro con la ragione, è possibile non avere l'intelletto per
renderlo praticabile.
Doppia
valenza
Ecco
perché l'utopia ha questa doppia valenza, totalitaria e
libertaria. Ha
valenza totalitaria quando si vuole far coincidere l'intelletto con
la ragione, quando si pretende appunto di inverare quell'unico
progetto che pensiamo "vero" ipotecando tutto il futuro e
quindi immettendoci dentro quella prospettiva che vuole inverare la
storia attraverso la sua assolutezza, divinizzando la storia e
divinizzando il nostro progetto. La
dimensione libertaria dell'utopia è quella di pensare l'utopia
non come progetto assoluto, e quindi non può che avere ed
esprimere un'idea "debole" dell'uomo, non un'idea "forte".
Avere un'idea "debole" dell'uomo significa ritenere che
questo progetto non possa essere fino in fondo un progetto ma
semplicemente una proposta. In questo senso la funzione dell'utopia è
propedeutica a scatenare una tensione morale che non solo renda
insoddisfatto il soggetto di fronte al presente ma che lo renda
motivato eticamente a pensare più futuri, e quindi ad avere
una visione indefinita della libertà (e non una visione
definita). Si può
quindi parlare di un'utopia aperta e di un'utopia chiusa, per mutuare
il linguaggio di Popper. Il problema è tenere aperta la
possibilità. Ma allora l'anarchismo è un anarchismo
forte, che ha un'idea "forte" dell'uomo e la deve
rivendicare fortissimamente, quando tutta la sua dimensione
utopistica non consiste solo nel pensare il progetto come progetto
indefinito, ma consiste anche e soprattutto nel pensare ogni
possibile futuro in senso autoritario per negarlo alla radice. Vale a
dire - e qui ritorniamo a una dimensione che però è
"religiosa" - che ogni possibile futuro se non è
quel possibile che pensiamo noi è effettivamente una
riproduzione del potere e quindi una negazione del futuro inteso come
indeterminatezza, poiché il futuro inteso come riproduzione
del potere non è altro che riproduzione del passato. Da un
punto di vista anarchico questo significa pensare contemporaneamente
due cose: la critica alla possibilità della riformazione del
potere - e quindi avere una posizione aprioristicamente negativa, cioè
"religiosa" - tenendo aperta però la possibilità
di pensare il futuro come possibilità indeterminata e quindi
giocare anche il rischio di non bollare a priori con la critica tutto
ciò che anarchico non è. L'anarchismo deve avere questa
duplice tensione e non può mai pensarsi fino in fondo né
in un modo né nell'altro. L'anarchismo è, per nostra
fortuna, problematico.
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