Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 164
maggio 1989


Rivista Anarchica Online

Il gioco della libertà
di Maria Teresa Romiti

Un viaggio attraverso il sogno utopico dell'umanità, sempre presente nelle società letterate come nei popoli senza scrittura. Oggi l'utopia letteraria sembra non interessare più nessuno, segno forse di un'incapacità ad immaginare un mondo diverso.

"Un atlante che non includa Utopia
non merita neppure uno sguardo
poiché lascia fuori l'unico paese che
l'umanità ha sempre avuto quale suo approdo,
e quando l'umanità vi approda,
spinge oltre lo sguardo
e scorgendo un paese ancora migliore, alza la vela.
La vecchia landa,
la vecchia isola abbandonata
ha perduto il suo nome di utopia".

Oscar Wilde

Il sogno ad occhi aperti, il paese felice, il paese dove tutto è perfetto, dove non c'è posto per gli errori degli uomini, dove non esiste il dolore: ecco l'utopia. Presente in tutte le culture umane conosciute, nelle culture della scrittura, soprattutto la nostra che l'ha lasciata davanti ai nostri occhi a testimonianza per il domani, ma presente anche nelle culture della parola, le culture orali che hanno narrato per secoli, forse per millenni del mitico paese posto oltre i confini del mondo oppure oltre i confini del tempo.
È l'utopia l'Isola Bianca dei Greci, ad Occidente, dove vanno gli eroi alla fine della loro vita tra i mortali; è il mitico paese degli Iperborei, a nord, dove la terra è verde e feconda, caro ad Apollo per le qualità morali dei suoi abitanti, dove non esiste malattia, miseria, desolazione. È Avallon, l'isola misteriosa, nascosta dalle brume, dove vivono le maghe, le signore della conoscenza che custodiscono il sapere oltre il tempo, forse dove è finito anche il sacro Graal, certamente dove riposa Arthur, signore dei Britanni. È la terra promessa dei profeti Tupi-Guarany, ad oriente, oltre la grande distesa azzurra dell'oceano, dove le frecce raggiungono da sole i bersagli, la terra dà frutti abbondanti e le donne sono sempre disponibili per tutti; è la Verde Prateria degli Indiani delle Pianure, dove non è mai inverno, l'erba è sempre verde e rigogliosa, i bisonti non mancano mai. E potrei continuare, ogni cultura ha il suo Eden, ogni popolo il suo mitico mondo dove non c'è posto per ingiustizia, dolore, miseria, malattia e morte. Perché l'utopia è sempre presente nelle culture umane? Cos'è veramente? Perché è così importante? È forse legata a qualche esigenza umana? E cos'è l'utopia in letteratura, genere specifico, presente solo in una cultura, la nostra, con una storia precisa?
Se tra i Greci non mancano le utopie mitiche, i paesi fantastici, più vicini alle culture orali, a loro dobbiamo anche il nascere dell'utopia come genere letterario. La creazione di un mondo parallelo, immaginato, che sia anche il mondo perfetto. Platone con "La Repubblica" ne è certamente l'esponente più famoso, ma non l'unico. Falea di Calcedonia sostiene l'uguaglianza assoluta della proprietà e Ippodamo di Mileto progetta uno Stato diviso in tre classi: agricoltori, artigiani e difensori . Zenone di Cizio immagina un paese senza moneta , né commercio, senza templi, tribunali o ginnasi, dove tutti vestano allo stesso modo e le donne siano comuni tra gli uomini. L'utopia greca è quindi teoria filosofica, esempio didattico, programma politico vero e proprio.
Durante il Medioevo l'utopia torna ad essere vicina al modello orale: il paese di Bengodi, il mondo fantastico della felicità eterna sulla terra stessa, il Viaggio di San Brandano, l'Isola del Santo Graal sono solo esempi di questo modello utopico.
È con il Rinascimento che l'utopia letteraria rinasce per conoscere il suo periodo più fulgido e per strutturarsi canonicamente. Tommaso Moro con "Utopia" ne segna i limiti: descrizione precisa, fin nei minimi particolari di una società diversa da quella vissuta dall'autore e nello stesso tempo critica feroce alla società reale. Gli utopisti diventano ben presto una massa in continuo aumento: da Rabelais a Joseph Hall, da Jean de Moucy a James Harrington, da Gabriel De Foigny a Joseph Glanvil, a Francesco Bacone, a Tommaso Campanella per passare da Jonathan Swift fino a Charlotte Perkins Gilman, da William Morris a George Orwell , da Aldous Huxley a Zamiatin per citare solo i più famosi.

Due filoni
Oggi l'utopia sembra morta o moribonda. Dopo le ultime grandi utopie della prima metà del novecento, che appartengono più al filone delle distopie, le utopie negative, l'utopia, assimilata alla fantascienza, sembra perduta. Ma le utopie hanno qualche caratteristica in comune? E allora quali sono?
Prima di tutto si può dividere l'utopia in due filoni: uno, il filone statico, in cui la società, descritta nei minimi particolari, è vista ordinata, in cui la libertà è una parola quasi senza senso, dove tutti sembrano essere completamente d'accordo, ma le pene per i trasgressori delle norme sono severissime; è l'utopia platonica, ma anche quella di Tommaso Moro o di Campanella. In queste utopie non c'è spazio per la dissidenza, tutto è già stato deciso e il mondo ci viene presentato come congelato. Tutto è bello anzi perfetto e quindi, per definizione, non cambiabile. È l'utopia totalitaria. L'altro è il filone più dinamico in cui la descrizione, per quanto dettagliata, lascia spazio a dubbi, cambiamenti, opposizioni, libertà. È il filone dell'abbazia di Thélème o del graffiante Jonathan Swift. A questo filone paradossalmente appartengono le distopie, le utopie negative che presentano una società totalitaria esplicitamente, ma attraverso gli occhi dei ribelli, degli oppositori, di chi non ci sta, o magari di chi percorre il cammino dall'accettazione all'opposizione .
In "Viaggio attraverso le utopie", Maria Luisa Berneri nota: "Tutte le utopie sono, naturalmente, espressione di preferenze personali, ma i loro autori di solito ritengono di presumere che i loro gusti personali dovrebbero essere tradotti in legge; se sono mattinieri, tutta la loro comunità immaginaria dovrà svegliarsi alle quattro del mattino; se a loro non va che le donne si trucchino, l'uso dei cosmetici dovrà essere considerato un crimine; se sono mariti gelosi, l'infedeltà sarà punita con la morte".
E in effetti se noi consideriamo le utopie classiche spesso vediamo questo schema ripetuto: in Utopia non esiste l'opposizione e anzi, nelle rare volte in cui esiste, l'ordine viene ristabilito prontamente con la morte degli oppositori.
L'utopia ha un'altra caratteristica: oltre ad essere un non-luogo, è anche un non-tempo. L'utopia è il tempo mitico, il tempo che è presente perché è passato o viceversa, il tempo che vale per sempre, fuori dalla storia e lo dimostra la sua dislocazione temporale o spaziale. L'utopia è sempre all'orizzonte e non può essere mai raggiunta poiché l'utopia raggiunta non è più utopia.
Altra caratteristica importante dell'utopia è il viaggio. È raggiunta dal viaggiatore solitario, dal naufrago, dall'esiliato, dal perduto, dal sognatore.
Le notizie arrivano per sbaglio attraverso antichi manoscritti, ritorni improbabili. L'utopia deve essere descritta sempre dall'estraneo, da qualcuno che non appartiene a quella società. Nel filone dinamico troviamo un'ulteriore caratteristica dell'utopia: l'esperimento mentale, si potrebbe forse dire, lo studio sociologico della società immaginata. E l'aspetto dinamico è dato proprio dal fatto che si parte da un: "Che cosa succederebbe se. . . ". Forse è questo il motivo per il quale le utopie dinamiche spesso sono tra le distopie. In "1984" di George Orwell il "cosa succederebbe se. . . " è il mondo, formalmente diviso in tre stati , ma retto dal medesimo incredibile totalitarismo. In "Il mondo nuovo" di Huxley è un totalitarismo all'apparenza più dolce che in realtà è ancora più disumano poiché gli uomini, divisi in classi, vengono manipolati già allo stadio fetale. In "Il racconto dell'ancella" di Margaret Atwood il "Cosa succederebbe se..." è il colpo di stato, negli USA, delle sette fondamentaliste cristiane, Galaad, lo stato puro.
E il "cosa succederebbe se. . ." può far scatenare il gioco fino alle sue estreme conseguenze, fino a descrivere veri e propri incubi, forse perché è più stimolante, più facile immaginare il dolore, la violenza piuttosto che la felicità, dopotutto Milton riuscì a descrivere molto meglio il diavolo del paradiso e Dante l'inferno. La beatitudine è noiosa.
Oggi comunque, distopie od utopie, la produzione utopica è molto sotto tono. Si può citare "Fahrenheit 451" di Ray Bradbury, magnifica distopia, "Ecotopia" di Callenbach, un'utopia ecologica, "Venere più X" di Sturgeon, utopia sull'ermafroditismo, "Il racconto dell'Ancella" di Margaret Atwood. Gli autori utopici sono veramente pochi. In compenso abbiamo il fenomeno di una scrittrice che scrive quasi solamente utopie: Ursula Kroeber Le Guin. Mentre nella storia dell'utopia gli scrittori tendono a scrivere una sola utopia nella loro vita, al massimo un paio come Huxley, Ursula K. Le Guin non scrive praticamente altro, perfino la sua produzione di racconti, a volte, prende la forma dell'utopia. E se si considera l'utopia classica come descrizione del paese ideale, come riuscire a scrivere più di un'utopia? Quanti mondi perfetti incarnano i desideri, gli ideali, le profonde convinzioni di uno scrittore? Non molti certo. Come spiegare allora il fenomeno Ursula Le Guin?

Da Omelas ad Anarres
Ursula Le Guin ha portato l'utopia al limite della definizione. I suoi romanzi non sono la descrizione di una società, positiva o negativa che sia, più o meno dinamica, ma il rapporto tra due o tre gruppi sociali. In effetti la stessa Le Guin sembra affermare l'impossibilità stessa dell'utopia in un suo racconto: "Quelli che si allontanano da Omelas". Omelas è l'utopia perfetta, la felicità indicibile, la giustizia sociale. I cittadini di Omelas, società con pochissime regole, sono gente complessa quanto noi e vivono felici, nel migliore dei mondi possibili. Ma, c'è sempre un ma nei buoni racconti, Omelas basa istituzioni e società sull'infelicità di un bambino. E allora, ogni tanto, qualcuno, senza clamore, lascia la città della gioia per andare verso un nuovo orizzonte. Lasciano l'utopia per un'altra utopia. Ursula Le Guin sembra dire che c'è qualcosa di oscuro nell'utopia classica, statica, nella felicità perfetta, nella società senza errori, forse che una società del genere non può esistere od addirittura che potrebbe essere pericolosa.
I suoi romanzi sono le analisi di diverse utopie o di variazioni di una stessa, sono "cosa succederebbe se. . . " ripetuti ed orchestrati tra loro; la componente viaggio diventa molto importante poiché solo il viaggiatore, lo straniero, può vedere le diversità, osservare gli esperimenti sociologici , analizzare le società.
In "I reietti dell'altro pianeta" l'esperimento è giocato su più piani: da una parte Anarres, l'utopia per definizione, il pianeta anarchico, ma vista da parte di un diverso, di un emarginato, quasi fosse una distopia e il gioco del "cosa succederebbe se..." è come si può mantenere una società anarchica, come evitare i coaguli di potere, come può essere utopica una società che, per definizione, deve essere un continuo esperimento. La libertà si gioca nel cambiamento, ma una società perfetta non è migliorabile. Dall'altra Urras, una fotografia del pianeta terra, ma una fotografia già utopica: Urras ha risolto i suoi problemi ecologici ed energetici, Urras vive divari sociologici ed economici da terzo mondo, le sue differenze sono portate all'estremo; ancora l'oltre cortina che arriva come un mondo mitico e totalitario dalle parole di un viaggiatore. E Shevek, il protagonista, è il viaggiatore per eccellenza: emarginato in Anarres, viaggiatore e stranito testimone in Urras. Urras è un utopia di fronte ad un'altra utopia, anzi ad un'ambigua utopia poiché Anarres è ambigua. Il suo gioco è la libertà, ma la libertà è esperimento, cambiamento; ma Anarres è utopia e quindi è perfetta, non può cambiare, ma allora il sogno di libertà diventa un sogno totalitario. Per non diventare un sogno totalitario deve rimanere una società in cambiamento, deve essere una rivoluzione continua, ma allora non può essere un'utopia poiché l'utopia è una fotografia al di fuori del tempo. Ed è su queste domande, su questo gioco di se e di ma che Ursula Kroeber Le Guin ha fatto uno dei più bei romanzi utopici odierni.
È il gioco fondamentale che vale per Inverno, il pianeta del romanzo "La mano sinistra delle tenebre", dove il gioco è basato sulla diversità psicologica, filosofica, mentale di un mondo di ermafroditi dove non esistono due sessi, non esiste dualismo, ma una serie infinita di individualità. Come sarebbe se domani ognuno di noi, uomini e donne, potesse avere il problema o la felicità di procreare? E anche qui Ursula Le Guin gioca su due ipotesi: una società più individualista, basata su discendenze, quasi clanica ed una molto più moderna, efficiente, totalitaria.
È lo stesso gioco di "Il mondo della foresta" in cui la domanda è come può una società pacifica al punto da non conoscere l'omicidio difendersi da una società violenta, gerarchica e predatrice. E se la società pacifica impara l'omicidio può poi evitarlo al proprio interno?
È lo stesso gioco di "Sempre la valle", l'ultimo romanzo di Ursula Kroeber le Guin, dove, forse, il limite è stato passato perché la società Kesh non è un'utopia, in fondo è l'analisi antropologica di una società immaginaria, la ricerca di una società che sarà invece che essere stata. È un gioco difficile, in cui la scrittrice diventa anche la viaggiatrice, l'antropologa che chiede, raccoglie storie, miti , canzoni e mostra il materiale al lettore perché lo decodifichi con lei. Certamente solo la conoscenza tecnica dell'antropologia ha permesso un gioco molto bello, ma così complesso come questo. E anche se la domanda fondamentale rimane la possibilità di una società pacifica di difendersi da una aggressiva senza diventarlo a propria volta, un tema molto caro alla scrittrice, il gioco è molto più sottile poiché i Kesh hanno ben poco di utopico ed ancora meno di idilliaco, sono solo strutturati in modo diverso come potrebbe esserlo una qualsiasi popolazione rispetto ad un'altra.
Le utopie di Ursula Le Guin non sono più definibili nel limite delle utopie, non sono società descritte nella loro staticità o dinamicità, sono schemi di gioco. La parola gioco è molto importante perché in realtà i suoi romanzi si avvicinano molto, secondo me, ad un gioco molto interessante uscito negli ultimi anni: Dungeons & Dragons. Si prende uno schema, dei personaggi, alcuni giocatori, ognuno dei quali recita un personaggio, e si prova a giocare a "cosa succederebbe se...". È in fondo un gioco con cui si potrebbe scrivere un libro, è un gioco di simulazione e giocando bene giochi del genere si possono rendere evidenti idee che nessun saggio può mostrare in tutte le sfumature. E in fondo la bellezza dell'utopia è proprio rendere visibile quello che molte volte non è visibile, rendere comprensibile idee, ipotesi, analisi sociologiche e politiche. Giocando bene il gioco si fanno veri e propri esperimenti mentali, più utili, a volte, di mille pagine di libri. Si possono fare analisi dotte ed importanti, avere ottime basi ideologiche, ma il gioco utopico, il gioco di simulazione è la prova del nove. Ci mettiamo qui, intorno ad un tavolo e come giochiamo la libertà se io voglio una cosa e tu esattamente l'opposto? Possiamo giocare questo gioco? Quali sono le regole?

Una sottile paura
È forse per questo che l'utopia è così importante nelle culture umane, perché, forse, non è soltanto l'orizzonte, può essere anche il gioco sociologico, la prova, l'idea che diventa più concreta, che si fa più comprensibile. Analizzare qualcosa vuol dire spezzarlo nelle sue componenti, dividerlo e quindi non riuscire a vederlo nel suo insieme. Invece l'utopia può essere il modello, un modello da giocare continuamente e, ad essere molto bravi, a saperlo giocare bene, si può anche comprendere i meccanismi che normalmente non vengono alla luce.
Non so se tutti gli autori che hanno giocato all'utopia si sono resi conto delle potenzialità di questo gioco e se poi è questo veramente il fondamento dell'utopia. Però certamente, se non fosse stata realmente un gioco importante, fondamentale per tutte le culture, non credo che avrebbe avuto uno sviluppo così ampio.
Allora oggi perché è così rara? Forse perché abbiamo imparato tutti a giocare questo gioco? E in questo caso sarebbe molto bello, avremmo imparato a giocare l'utopia, non a leggerla.
Ma io ho una sottile paura. Forse l'utopia letteraria è diminuita solo perché l'utopia non interessa più a nessuno, forse perché oggi non riusciamo più ad immaginarci un mondo diverso.