Rivista Anarchica Online
Il gioco
della libertà
di Maria Teresa Romiti
Un
viaggio attraverso il sogno utopico dell'umanità, sempre
presente nelle società letterate come nei popoli senza
scrittura. Oggi
l'utopia letteraria sembra non interessare più nessuno, segno
forse di un'incapacità ad immaginare un mondo diverso.
"Un
atlante che non includa Utopia non merita neppure uno sguardo poiché
lascia fuori l'unico paese che l'umanità ha
sempre avuto quale suo approdo, e quando l'umanità
vi approda, spinge oltre lo sguardo e scorgendo un paese ancora
migliore, alza la vela. La vecchia landa, la vecchia isola
abbandonata ha perduto il suo nome di utopia". Oscar Wilde
Il sogno ad
occhi aperti, il paese felice, il paese dove tutto è perfetto,
dove non c'è posto per gli errori degli uomini, dove non
esiste il dolore: ecco l'utopia. Presente in tutte le culture umane
conosciute, nelle culture della scrittura, soprattutto la nostra che
l'ha lasciata davanti ai nostri occhi a testimonianza per il domani,
ma presente anche nelle culture della parola, le culture orali che
hanno narrato per secoli, forse per millenni del mitico paese posto
oltre i confini del mondo oppure oltre i confini del tempo. È
l'utopia l'Isola Bianca dei Greci, ad Occidente, dove vanno gli eroi
alla fine della loro vita tra i mortali; è il mitico paese
degli Iperborei, a nord, dove la terra è verde e feconda, caro
ad Apollo per le qualità morali dei suoi abitanti, dove non
esiste malattia, miseria, desolazione. È Avallon, l'isola
misteriosa, nascosta dalle brume, dove vivono le maghe, le signore
della conoscenza che custodiscono il sapere oltre il tempo, forse
dove è finito anche il sacro Graal, certamente dove riposa
Arthur, signore dei Britanni. È
la terra promessa dei profeti Tupi-Guarany, ad oriente, oltre la
grande distesa azzurra dell'oceano, dove le frecce raggiungono da
sole i bersagli, la terra dà frutti abbondanti e le donne sono
sempre disponibili per tutti; è la Verde Prateria degli
Indiani delle Pianure, dove non è mai inverno, l'erba è
sempre verde e rigogliosa, i bisonti non mancano mai. E potrei
continuare, ogni cultura ha il suo Eden, ogni popolo il suo mitico mondo
dove non c'è posto per ingiustizia, dolore, miseria, malattia
e morte. Perché l'utopia è sempre presente nelle
culture umane? Cos'è veramente? Perché è così
importante? È forse legata a qualche esigenza umana? E cos'è
l'utopia in letteratura, genere specifico, presente solo in una
cultura, la nostra, con una storia precisa?
Se tra i
Greci non mancano le utopie mitiche, i paesi fantastici, più
vicini alle culture orali, a loro dobbiamo anche il nascere
dell'utopia come genere letterario. La creazione di un mondo
parallelo, immaginato, che sia anche il mondo perfetto. Platone con
"La Repubblica" ne è certamente l'esponente più
famoso, ma non l'unico. Falea di Calcedonia sostiene l'uguaglianza
assoluta della proprietà e Ippodamo di Mileto progetta uno
Stato diviso in tre classi: agricoltori, artigiani e difensori .
Zenone di Cizio immagina un paese senza moneta , né commercio,
senza templi, tribunali o ginnasi, dove tutti vestano allo stesso
modo e le donne siano comuni tra gli uomini. L'utopia greca è
quindi teoria filosofica, esempio didattico, programma politico vero
e proprio.
Durante il
Medioevo l'utopia torna ad essere vicina al modello orale: il paese
di Bengodi, il mondo fantastico della felicità eterna sulla
terra stessa, il Viaggio di San Brandano, l'Isola del Santo Graal
sono solo esempi di questo modello utopico.
È
con il Rinascimento che l'utopia letteraria rinasce per conoscere il
suo periodo più fulgido e per strutturarsi canonicamente.
Tommaso Moro con "Utopia" ne segna i limiti: descrizione
precisa, fin nei minimi particolari di una società diversa da
quella vissuta dall'autore e nello stesso tempo critica feroce alla
società reale. Gli utopisti diventano ben presto una massa in
continuo aumento: da Rabelais a Joseph Hall, da Jean de Moucy a James
Harrington, da Gabriel De Foigny a Joseph Glanvil, a Francesco
Bacone, a Tommaso Campanella per passare da Jonathan Swift fino a
Charlotte Perkins Gilman, da William Morris a George Orwell , da
Aldous Huxley a Zamiatin per citare solo i più famosi.
Due
filoni
Oggi
l'utopia sembra morta o moribonda. Dopo le ultime grandi utopie della
prima metà del novecento, che appartengono più al
filone delle distopie, le utopie negative, l'utopia, assimilata alla
fantascienza, sembra perduta. Ma le utopie hanno qualche
caratteristica in comune? E allora quali sono?
Prima di
tutto si può dividere l'utopia in due filoni: uno, il filone
statico, in cui la società, descritta nei minimi particolari,
è vista ordinata, in cui la libertà è una parola
quasi senza senso, dove tutti sembrano essere completamente
d'accordo, ma le pene per i trasgressori delle norme sono
severissime; è l'utopia platonica, ma anche quella di Tommaso
Moro o di Campanella. In queste utopie non c'è spazio per la
dissidenza, tutto è già stato deciso e il mondo ci
viene presentato come congelato. Tutto è bello anzi perfetto e
quindi, per definizione, non cambiabile. È
l'utopia totalitaria. L'altro è il filone più dinamico
in cui la descrizione, per quanto dettagliata, lascia spazio a dubbi,
cambiamenti, opposizioni, libertà. È
il filone dell'abbazia di Thélème o del graffiante
Jonathan Swift. A questo filone paradossalmente appartengono le
distopie, le utopie negative che presentano una società
totalitaria esplicitamente, ma attraverso gli occhi dei ribelli,
degli oppositori, di chi non ci sta, o magari di chi percorre il
cammino dall'accettazione all'opposizione .
In "Viaggio
attraverso le utopie", Maria Luisa Berneri nota: "Tutte le
utopie sono, naturalmente, espressione di preferenze personali, ma i
loro autori di solito ritengono di presumere che i loro gusti
personali dovrebbero essere tradotti in legge; se sono mattinieri,
tutta la loro comunità immaginaria dovrà svegliarsi
alle quattro del mattino; se a loro non va che le donne si trucchino,
l'uso dei cosmetici dovrà essere considerato un crimine; se
sono mariti gelosi, l'infedeltà sarà punita con la
morte".
E in
effetti se noi consideriamo le utopie classiche spesso vediamo questo
schema ripetuto: in Utopia non esiste l'opposizione e anzi, nelle
rare volte in cui esiste, l'ordine viene ristabilito prontamente con
la morte degli oppositori.
L'utopia ha
un'altra caratteristica: oltre ad essere un non-luogo, è anche
un non-tempo. L'utopia è il tempo mitico, il tempo che è
presente perché è passato o viceversa, il tempo che
vale per sempre, fuori dalla storia e lo dimostra la sua dislocazione
temporale o spaziale. L'utopia è sempre all'orizzonte e non
può essere mai raggiunta poiché l'utopia raggiunta non
è più utopia.
Altra
caratteristica importante dell'utopia è il viaggio. È
raggiunta dal viaggiatore solitario, dal naufrago, dall'esiliato, dal
perduto, dal sognatore.
Le notizie
arrivano per sbaglio attraverso antichi manoscritti, ritorni
improbabili. L'utopia deve essere descritta sempre dall'estraneo, da
qualcuno che non appartiene a quella società. Nel filone
dinamico troviamo un'ulteriore caratteristica dell'utopia:
l'esperimento mentale, si potrebbe forse dire, lo studio sociologico
della società immaginata. E l'aspetto dinamico è dato
proprio dal fatto che si parte da un: "Che cosa succederebbe se.
. . ". Forse è questo il motivo per il quale le utopie
dinamiche spesso sono tra le distopie. In "1984" di George
Orwell il "cosa succederebbe se. . . " è il mondo,
formalmente diviso in tre stati , ma retto dal medesimo incredibile
totalitarismo. In "Il mondo nuovo" di Huxley è un
totalitarismo all'apparenza più dolce che in realtà è
ancora più disumano poiché gli uomini, divisi in
classi, vengono manipolati già allo stadio fetale. In "Il
racconto dell'ancella" di Margaret Atwood il "Cosa
succederebbe se..." è il colpo di stato, negli USA, delle
sette fondamentaliste cristiane, Galaad, lo stato puro.
E il "cosa
succederebbe se. . ." può far scatenare il gioco fino
alle sue estreme conseguenze, fino a descrivere veri e propri incubi,
forse perché è più stimolante, più facile
immaginare il dolore, la violenza piuttosto che la felicità,
dopotutto Milton riuscì a descrivere molto meglio il diavolo
del paradiso e Dante l'inferno. La beatitudine è noiosa.
Oggi
comunque, distopie od utopie, la produzione utopica è molto
sotto tono. Si può citare "Fahrenheit 451" di Ray
Bradbury, magnifica distopia, "Ecotopia" di Callenbach,
un'utopia ecologica, "Venere più X" di Sturgeon,
utopia sull'ermafroditismo, "Il racconto dell'Ancella" di
Margaret Atwood. Gli autori utopici sono veramente pochi. In compenso
abbiamo il fenomeno di una scrittrice che scrive quasi solamente
utopie: Ursula Kroeber Le Guin. Mentre nella storia dell'utopia gli
scrittori tendono a scrivere una sola utopia nella loro vita, al
massimo un paio come Huxley, Ursula K. Le Guin non scrive
praticamente altro, perfino la sua produzione di racconti, a volte,
prende la forma dell'utopia. E se si considera l'utopia classica come
descrizione del paese ideale, come riuscire a scrivere più di
un'utopia? Quanti mondi perfetti incarnano i desideri, gli ideali, le
profonde convinzioni di uno scrittore? Non molti certo. Come spiegare
allora il fenomeno Ursula Le Guin?
Da
Omelas ad Anarres
Ursula Le
Guin ha portato l'utopia al limite della definizione. I suoi romanzi
non sono la descrizione di una società, positiva o negativa
che sia, più o meno dinamica, ma il rapporto tra due o tre
gruppi sociali. In effetti la stessa Le Guin sembra affermare
l'impossibilità stessa dell'utopia in un suo racconto: "Quelli
che si allontanano da Omelas". Omelas è l'utopia
perfetta, la felicità indicibile, la giustizia sociale. I
cittadini di Omelas, società con pochissime regole, sono gente
complessa quanto noi e vivono felici, nel migliore dei mondi
possibili. Ma, c'è sempre un ma nei buoni racconti, Omelas
basa istituzioni e società sull'infelicità di un
bambino. E allora, ogni tanto, qualcuno, senza clamore, lascia la
città della gioia per andare verso un nuovo orizzonte.
Lasciano l'utopia per un'altra utopia. Ursula Le Guin sembra dire che
c'è qualcosa di oscuro nell'utopia classica, statica, nella
felicità perfetta, nella società senza errori, forse
che una società del genere non può esistere od
addirittura che potrebbe essere pericolosa.
I suoi
romanzi sono le analisi di diverse utopie o di variazioni di una
stessa, sono "cosa succederebbe se. . . " ripetuti ed
orchestrati tra loro; la componente viaggio diventa molto importante
poiché solo il viaggiatore, lo straniero, può vedere le
diversità, osservare gli esperimenti sociologici , analizzare
le società.
In "I
reietti dell'altro pianeta" l'esperimento è giocato su
più piani: da una parte Anarres, l'utopia per definizione, il
pianeta anarchico, ma vista da parte di un diverso, di un emarginato,
quasi fosse una distopia e il gioco del "cosa succederebbe
se..." è come si può mantenere una società
anarchica, come evitare i coaguli di potere, come può essere
utopica una società che, per definizione, deve essere un
continuo esperimento. La libertà si gioca nel cambiamento, ma
una società perfetta non è migliorabile. Dall'altra
Urras, una fotografia del pianeta terra, ma una fotografia già
utopica: Urras ha risolto i suoi problemi ecologici ed energetici,
Urras vive divari sociologici ed economici da terzo mondo, le sue
differenze sono portate all'estremo; ancora l'oltre cortina che
arriva come un mondo mitico e totalitario dalle parole di un
viaggiatore. E Shevek, il protagonista, è il viaggiatore per
eccellenza: emarginato in Anarres, viaggiatore e stranito testimone
in Urras. Urras è un utopia di fronte ad un'altra utopia, anzi
ad un'ambigua utopia poiché Anarres è ambigua. Il suo
gioco è la libertà, ma la libertà è
esperimento, cambiamento; ma Anarres è utopia e quindi è
perfetta, non può cambiare, ma allora il sogno di libertà
diventa un sogno totalitario. Per non diventare un sogno totalitario
deve rimanere una società in cambiamento, deve essere una
rivoluzione continua, ma allora non può essere un'utopia
poiché l'utopia è una fotografia al di fuori del tempo.
Ed è su queste domande, su questo gioco di se e di ma
che Ursula Kroeber Le Guin ha fatto uno dei più bei romanzi
utopici odierni.
È
il gioco fondamentale che vale per Inverno, il pianeta del romanzo
"La mano sinistra delle tenebre", dove il gioco è
basato sulla diversità psicologica, filosofica, mentale di un
mondo di ermafroditi dove non esistono due sessi, non esiste
dualismo, ma una serie infinita di individualità. Come sarebbe
se domani ognuno di noi, uomini e donne, potesse avere il problema o
la felicità di procreare? E anche qui Ursula Le Guin gioca su
due ipotesi: una società più individualista, basata su
discendenze, quasi clanica ed una molto più moderna,
efficiente, totalitaria.
È
lo stesso gioco di "Il mondo della foresta" in cui la
domanda è come può una società pacifica al punto
da non conoscere l'omicidio difendersi da una società
violenta, gerarchica e predatrice. E se la società pacifica
impara l'omicidio può poi evitarlo al proprio interno?
È
lo stesso gioco di "Sempre la valle", l'ultimo romanzo di
Ursula Kroeber le Guin, dove, forse, il limite è stato passato
perché la società Kesh non è un'utopia, in fondo
è l'analisi antropologica di una società immaginaria,
la ricerca di una società che sarà invece che essere
stata. È un gioco difficile, in cui la scrittrice diventa
anche la viaggiatrice, l'antropologa che chiede, raccoglie storie,
miti , canzoni e mostra il materiale al lettore perché lo
decodifichi con lei. Certamente solo la conoscenza tecnica
dell'antropologia ha permesso un gioco molto bello, ma così
complesso come questo. E anche se la domanda fondamentale rimane la
possibilità di una società pacifica di difendersi da
una aggressiva senza diventarlo a propria volta, un tema molto caro
alla scrittrice, il gioco è molto più sottile poiché
i Kesh hanno ben poco di utopico ed ancora meno di idilliaco, sono
solo strutturati in modo diverso come potrebbe esserlo una qualsiasi
popolazione rispetto ad un'altra.
Le utopie
di Ursula Le Guin non sono più definibili nel limite delle
utopie, non sono società descritte nella loro staticità
o dinamicità, sono schemi di gioco. La parola gioco è
molto importante perché in realtà i suoi romanzi si
avvicinano molto, secondo me, ad un gioco molto interessante uscito
negli ultimi anni: Dungeons & Dragons. Si prende uno schema, dei
personaggi, alcuni giocatori, ognuno dei quali recita un personaggio,
e si prova a giocare a "cosa succederebbe se...". È
in fondo un gioco con cui si potrebbe scrivere un libro, è un
gioco di simulazione e giocando bene giochi del genere si possono
rendere evidenti idee che nessun saggio può mostrare in tutte
le sfumature. E in fondo la bellezza dell'utopia è proprio
rendere visibile quello che molte volte non è visibile,
rendere comprensibile idee, ipotesi, analisi sociologiche e
politiche. Giocando bene il gioco si fanno veri e propri esperimenti
mentali, più utili, a volte, di mille pagine di libri. Si
possono fare analisi dotte ed importanti, avere ottime basi
ideologiche, ma il gioco utopico, il gioco di simulazione è la
prova del nove. Ci mettiamo qui, intorno ad un tavolo e come
giochiamo la libertà se io voglio una cosa e tu esattamente
l'opposto? Possiamo giocare questo gioco? Quali sono le regole?
Una
sottile paura
È
forse per questo che l'utopia è così importante nelle
culture umane, perché, forse, non è soltanto
l'orizzonte, può essere anche il gioco sociologico, la prova,
l'idea che diventa più concreta, che si fa più
comprensibile. Analizzare qualcosa vuol dire spezzarlo nelle sue
componenti, dividerlo e quindi non riuscire a vederlo nel suo
insieme. Invece l'utopia può essere il modello, un modello da
giocare continuamente e, ad essere molto bravi, a saperlo giocare
bene, si può anche comprendere i meccanismi che normalmente
non vengono alla luce.
Non so se
tutti gli autori che hanno giocato all'utopia si sono resi conto
delle potenzialità di questo gioco e se poi è questo
veramente il fondamento dell'utopia. Però certamente, se non
fosse stata realmente un gioco importante, fondamentale per tutte le
culture, non credo che avrebbe avuto uno sviluppo così ampio.
Allora oggi
perché è così rara? Forse perché abbiamo
imparato tutti a giocare questo gioco? E in questo caso sarebbe molto
bello, avremmo imparato a giocare l'utopia, non a leggerla.
Ma io ho
una sottile paura. Forse l'utopia letteraria è diminuita solo
perché l'utopia non interessa più a nessuno, forse
perché oggi non riusciamo più ad immaginarci un mondo
diverso.
|