Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 162
marzo 1989


Rivista Anarchica Online

Dossier mafia
a cura di Salvo Vaccaro

Un dossier sulla mafia non ha molte giustificazioni da dover fornire al lettore. Anche di una rivista anarchica. A patto di non voler trovare a tutti i costi una specifica lettura che si sottragga dal confronto con chi il fenomeno mafioso conosce per via diretta o per impegno totale. E ciò senza approfittarsi sul piano mitizzato di un conflitto che, spesso, nasconde le reali poste in palio per simularne effetti di dissuasione indirizzando l'attenzione e la tensione su simulacri talvolta indifendibili, talvolta alla ricerca di un nuovo make-up, talvolta per rilegittimare surrogati in volti e nominativi non chiacchierati.
L'intervista in generale, metodologicamente lascia più spazio all'interlocutore di quanto la domanda, anche la più puntuale e specifica, intenda restringere il campo di risposta. Inoltre, il rischio di dare spazio su colonne di stampa anarchica a chi, di spazio, ne ha già abbastanza da far ascoltare la propria voce su colonne tradizionali per posizione privilegiata o potere istituzionale detenuti, è quasi inevitabile. L'intelligenza del lettore può comunque compensare tale rischio prestando attenzione alla dimensione implicita, allo scarto indicibile tra obbiettivo dell'interrogativo e risposta elusiva, al non detto che emerge, nettamente qualche volta, tra gli interstizi delle parole. In altri termini, una penetrazione su un piano differente del semplice ping-pong tra intervistatore e intervistato, senza pregiudicare intelligenza e correttezza dell'uno e dell'altro.
In tale ottica va letta la scelta di diversificare i temi delle interviste in rapporto a impegni differenziati su livelli paralleli, ma talvolta contrastanti, più che in rapporto a pretese competenze, che su temi di rilevanza sociale sono di pertinenza innanzitutto individuale quanto a sensibilità etica ed engagement socio-politico, al di qua di una scelta meritoria di approfondimento culturale.

Mafia e dintorni

Bisogna sfuggire ad una troppo affrettata equazione mafia = stato. I conflitti fra lo stato e cosa nostra non inficiano però la comune appartenenza al mondo del dominio. Le alternative alla logica paralizzante degli schieramenti.

La mafia, o maffia, come era corrente pronuncia non molti decenni or sono, ha in Sicilia origini antiche sedimentate in una particolare disciplina mentale ed etica interiorizzata in una cultura diffusa: lo spirito di clan familiare, la solidarietà chiusa ed omogenea al gruppo, il rigido senso gerarchico e gregario, l'appartenenza ed il radicamento ad un territorio, la diffidenza verso l'ordine costituito che arriva a soglie e forme di assoluta autonomia dallo stato (senza ricorrervi nemmeno in caso di opportunistico bisogno), la violenza acuminata e feroce, la ricerca d'alleanza come sicurezza interna ed esterna di fronte alla concorrenza da espellere totalmente, il culto della forza vincente, dell'onore coerente e vincolante (il "non potere dire di no" a qualcuno).
Tutti questi elementi immanenti alla cultura mafiosa disegnano un'etica solida che fuoriesce dagli specifici ambiti dell'organizzazione Cosa Nostra, il cui nome è già, come suol dirsi, "tutto un programma".
E in effetti le evoluzioni che Cosa Nostra ha subito nei decenni, adeguandosi alle realtà ambientali in cui si trova ad operare, dalle varie zone della Sicilia alle due coste opposte degli USA, hanno modificato assetti, forme, obiettivi e finalità cercando nel contempo di mantenere ben saldo un patrimonio di "principi", sui quali articolarne la continuità, che è poi il segno di una stabilità e di una sua peculiarità.
È questa la specificità siciliana, che la differenzia da altre mafie altrettanto potenti come la Yakuza giapponese, o altre mafie statunitensi (thailandese, colombiana, portoricana, ecc.); mentre la configurazione organizzativa va omogeneizzandosi essendo condizionata sempre di più dalle ingiunzioni di un business e di un mercato mondiali che conformano tendenzialmente un modello centrale e più idoneo e funzionale alle sue esigenze di predominio.
Infatti, il livello di mafia più alto e strategicamente più temibile è ormai una modalità di accumulazione illecita di denaro, effettuata con metodologie violente e, se si vuole, arcaiche rispetto alla raffinatezza di altre modalità, che rendono Cosa Nostra sempre più affine al modello di holding capitalista, con la quale condivide, fra l'altro, la necessità di organizzarsi funzionalmente ed efficientemente, di dosare la disponibilità di denaro in conto corrente e in conto capitale, di individuare settori strategici di reinvestimento, di sostenere spese interne organizzative per l'acquisizione ed il mantenimento di risorse tecnologiche e umane, di sottrarsi alle ingiunzioni fiscali degli stati cercando "paradisi" dove poter riciclare denaro "sporco" in denaro "pulito".
Va sottolineato che dal punto di vista della moneta capitalistica, la distinzione "sporco/pulito" è di ordine esclusivamente morale e non economico; del resto l'attività illecita è tale per ragioni di stato e delle sue normative, non per la trasgressione di (inesistenti) leggi (di mercato) del capitale finanziario. La violenza della pressione mafiosa per accumulare denaro e stroncare la concorrenza, infine, appare, avendo meno strumenti a disposizione, arcaica come quella delle prime organizzazioni capitalistiche - penso alla violenza dei gruppi di potere statunitensi del secolo scorso, o ai gruppi capitalistici europei che riuscirono a determinare conflitti internazionali.
Cosa Nostra, ovviamente, non è solo una holding finanziaria, sebbene questo sia il suo risvolto più veritiero e meno indagato dai settori superficiali dell'antimafia, sia di stato che della società civile, più interessati a operazioni spettacolari di immagine.

Forma-stato forma-mafia
Uno dei luoghi comuni, anche in campo libertario, consiste nell'affermazione che la mafia è "uno stato nello stato", per via di un consimile controllo politico-militare del territorio. Ritengo che per meglio decifrare il carattere di struttura di dominio della mafia occorra operare sulle differenze con l'analoga struttura di dominio che è lo stato, il che mi porta a distinguere una logica statuale e militare di controllo del territorio e della popolazione (come tendenza reale più che come verità perfettamente conchiusa: le smagliature esistono in entrambi i potentati) che la mafia mutua dallo stato, la quale logica come effetto di ritorno dà un'introiezione di cultura e arroganza mafiosa in certe manifestazioni di protervia statuale. Al di là di questo, però, vedo solo differenze tra la forma-stato, che è mondiale e pertiene a certe esigenze di dominio, e la forma-mafia, che non ha diffusione planetaria (né se la sogna lontanamente) e pertiene a esigenze di dominio leggermente diverse.
Se lo stato invera l'organizzazione che regolamenta e disciplina la società nelle sue espressioni ordinate, la mafia se ne differenzia perché non è né vuole essere onnicomprensiva; perché intende assumersi gli oneri esclusivi del dominio in vista dei propri interessi e tornaconti economici, senza impiantare apparati ideologici di simulazione e dissimulazione di pretesi interessi generali della società; perché lo stesso controllo militare e politico sul territorio di propria competenza è limitato a manifestazioni e situazioni materiali, non certo al condizionamento ideologico-educativo e inconscio, del tipo di strategie di pianificazione delle nascite, di ordinamento familiare e via con altri esempi di questa sorta che pertengono, invece, al ruolo del dominio statuale; perché in astratto lo stato non può permettersi un'indifferenza verso nessuna manifestazione individuale e collettiva che ci istruisca nei processi di socialità in vista della propria riproduzione, mentre la mafia ha meccanismi di autoperpetuazione più semplici e rozzi; perché, infine, la mafia non disdegna ma anzi necessita di scendere a patti, di stringere alleanze più o meno organiche, di legarsi a connivenze con settori delle istituzioni statali per radicarsi e accrescere la propria potenza, mentre l'aspetto inverso non è sempre vero, perché nel mondo la forma-stato può non appoggiarsi a nessuna mafia.

Simulacri di retroguardia
Tutte queste considerazioni mi conducono alla conclusione che, pur non essendo uno stato nello stato essendo sostanzialmente di due tipologie qualitative differenti, la mafia è un'organizzazione di dominio che definire criminale è certamente riduttivo, giacché si insinua fisiologicamente nelle pieghe dell'organizzazione istituzionale della società. Risulta pertanto irrilevante la patetica disputa sulla corretta identificazione dei rapporti tra mafia e politica, se ciò concerne una contiguità individualizzata e individualizzabile solo in capo ad alcuni esponenti politici, oppure se la connivenza è organica, oppure ancora se la perseguibilità deve essere solo giudiziaria-penale o anche morale, oppure se è sufficiente moralizzare individui e non regole del gioco. Ed è irrilevante giacché è proprio la forma stato a consentire una struttura di dominio come la mafia, la quale può nascere e stabilizzarsi solo dentro una cornice statuale, e non certo al di fuori. È altresì vero che può esistere uno stato senza mafia, ma indubbiamente non il contrario.
Ecco perché, a mio avviso , battaglie personali o antipartito sono simulacri di retroguardia sui quali ingenuamente si scagliano movimenti sociali e civici in buona fede - diverso discorso per i paladini di differenti cordate di potere dentro gli apparati istituzionali che mirano a sostituzioni e non certo a trasformazioni di regole del gioco e sue logiche, mantenendo inalterata la statualità della vita sociale depurata, a loro dire, dalla deviazione patologica del cancro mafioso (da qui la metafora da telenovela della piovra in una società che spettacolarizza senza ritegno digerendo ogni cosa).
Una distinzione più minuziosa fra stato e mafia conduce non solo a evitare abbagli indotti dalla superficialità giornalistica e dagli interessi di quei settori dello stato che lottano Cosa Nostra per operare sostituzioni di personaggi e non per operare distruzioni di copioni, ormai peraltro logori, ma anche a leggere le poste in palio nello sviluppo delle strategie statuali da un lato, e di quelle mafiose dall'altro.
Tale distinzione , fra l'altro, non inficia la comunanza logica al medesimo ordine di dominio, giacché non è la prima volta che la storia registra conflitti violenti tra diversi potentati in cerca di supremazia - conflitto non illuministico perché a fronteggiarsi non sono le ragioni della libertà e dell'emancipazione da un lato, contro le ragioni dell'arbitrio e del privilegio dall'altro, ma caso mai solo le ragioni di una democrazia auspicata quanto più trasparente ed equa possibile, nell'ambito delle possibilità offerte dalla ragione di stato e dai suoi effetti di simulazione ben noti, contro le ragioni (si fa per dire) dell'arroganza e dell'opacità di un potere occulto (come lo può essere anche una P2).
Ad essere corretti, il conflitto tra Stato e Cosa Nostra riguarda, da un lato, solo alcune fasce di apparati centrali e periferici e di alcuni poteri dello stato, e dall'altro quelle cosche che incontrano lo stato o la società come resistenze alla loro espansione o come interferenza ai loro conflitti e traffici interni per la supremazia tra bande rivali.
Le guerre di mafia sono prima di tutto conflitti di potere strategico ed economico dentro l'organizzazione per il controllo di risorse, capitali, conoscenze, territori su cui esercitare consenso, dominio, traffico illecito. Il conflitto con gli apparati statali e/o sociali (imprenditoria, informazione, ecc ,) è funzione del primo.
Sul versante statale, al di là delle motivazioni individuali che animano chi si impegna a morte (fuor di metafora) contro la mafia - che non è il caso di investigare, se in buona o cattiva fede, se spassionatamente o mossi da interessi contrastanti, ecc. - la motivazione della rettifica di tendenza da un decennio in qua viene data, a mio avviso, dalla considerazione che a lungo andare una zona franca dentro il dominio statuale crea più contraccolpi di quanti benefici poteva assicurare la surroga mafiosa di controllo socio-economico e politico-clientelare. In altri termini, Cosa Nostra, sempre più ingorda, arrogante e potente, delegittima lo stato di fronte a capitalisti e imprenditori, pubblici e privati, italiani e stranieri, a flussi economici concreti (si pensi al turismo di massa), ad equilibri politici instabili in rapporto a tendenze elettorali impreviste, tanto per fare alcuni esempi.

E, in ultimo, Mauro Rostagno
Tutto ciò fa alzare il prezzo rendendo insostenibile per lo stato la surroga mafiosa di consenso e ordine sociale - la mafia è sempre antirivoluzionaria, anche quella legata ad affari con le leghe rosse -: il controllo di genti (occupati e disoccupati, in diretta concorrenza con il sindacato), di flussi quotidiani economici (attività di racket, estorsioni, furti, rapine, ecc.), di grossi capitali (droga, armi), di pacchetti elettorali, di servizi della pubblica amministrazione (si pensi che la maggior parte degli alti funzionari al Comune di Palermo nei suoi vari uffici è entrata in epoca cianciminiana, ed è tuttora fedele al loro "benefattore", oltre a conservarne habitus e disciplina mentale) rende la mafia più potente di quanto lo stato non possa tollerare.
Di qui la politica innovata, la magistratura all'attacco, le forze dell'ordine in prima linea, e da qui anche la contro-risposta mafiosa: i delitti politici di Reina (segretario provinciale DC), di Piersanti Mattarella (Presidente DC della Regione, fratello dell'attuale ministro per i rapporti con il Parlamento, Sergio, nonché figlio del fu ministro Bernardo Mattarella, chiacchierato negli anni '50-60 per i suoi legami con Cosa Nostra), di La Torre (segretario regionale PCI), di Terranova e Chinnici (consiglieri istruttori), di Dalla Chiesa (prefetto di Palermo), e di altri giudici, poliziotti, imprenditori, intellettuali e giornalisti quali De Mauro, Francese, lo scrittore Pippo Fava e, in ultimo, Mauro Rostagno.
Nonostante ciò, la questione mafiosa è ben lungi dall'essere questione nazionale proprio per via dell'incapacità, per non dire dell'impossibilità, dello stato di concepire una mafia come corpo estraneo al proprio modello di dominio, pur con conflittualità tanto accesa come ogni giorno che passa dimostra.
E in effetti, in questa ottica, è illusorio ritenere che la mafia possa essere sconfitta dallo stato, se non sul piano meramente militare; ma, a questo livello, lo scontro equivale ad un qualunque altro conflitto tra stato e capitale, e la soluzione militare si è storicamente rivelata una scorciatoia pericolosa e fittizia, perché anche il capitale ha le sue armi a disposizione, e figuriamoci Cosa Nostra che, fra l'altro, fa del commercio di armi una sua branca di esercizio economico (esattamente come lo stato, che le produce e se le piazza sui mercati...). Senza considerare che accettare la sfida solo sul piano militare equivale ad un suicidio politico per uno stato che si vuole di diritto.
Voglio con ciò sostenere che paradossalmente una lotta anti-statale e anti-capitalistica, seria e progettata attentamente, ha più probabilità di successo che non l'impegno lodevole ma strutturalmente insufficiente dei mille Falcone, Sica, Orlando &Co. e ciò perché la destatalizzazione delle attività sociali, comprese quelle economiche e politico-amministrative, decisionali ed operative, vanificherebbe l'attività mafiosa togliendo quell'atmosfera dentro la quale si esercita la sua arroganza. Destatalizzando la società, e cioè progettando forme partecipative autogestionarie in politica, in economia, nell'organizzazione urbana, nella gestione collettiva delle risorse, ecc., verrebbero meno gli agganci della mafia con la sfera della politica, le clientele consolidate ad essa inerenti, le possibilità di grandi affari e guadagni centralizzati in capo a decisionalità accentrate, la penalizzazione emarginante di varie azioni oggi ritenute illegali (micro-criminalità diffusa, per esempio), e via di questo passo.
Senza contare che il rimescolio di carte favorirebbe una caduta di consenso, quantomeno temporanea, che potrebbe provocare contraccolpi seri dentro il tessuto sociale, morale e organizzativo in cui cresce e alligna la mafia. Per non parlare del blocco preventivo a che si rinnovino clientele, sacche di illegalità, formazioni repressive che alimentano maggiore e ulteriore illiceità per effetto controintuitivo, allorquando scompaiono centri di potere e questo si disloca capillarmente decentralizzandosi in mano a diversi organismi periferici, accentrati, a grande partecipazione.

Ma quale "laboratorio politico"?
Tale ipotesi paradossale, che qui si abbozza soltanto per ovvi motivi di spazio, trova ulteriore appoggio nel riscontro con i movimenti antimafia dell'opinione pubblica e dei settori istituzionali coinvolti, quale emerge dalle interviste effettuate per questo dossier, che segnano il livello della controffensiva sociale e statale in atto. Non c'è, sinceramente, da essere entusiasti.
Non ho mai creduto a Palermo come un reale "laboratorio politico" di mutamento, giacché le anticipazioni politiche sul piano locale di "novità" poi nazionali (centrosinistra negli anni '60 , coinvolgimento del PCI verso la metà degli anni '70, ed oggi la giunta "anomala" con le figure esponenziali dei movimenti) si sono rivelate per quelle che erano: escamotage di sopravvivenza di una politica iperreale, lontana, rarefatta, in cerca di effetti di illusioni per attirare ulteriormente gente al proprio botteghino di vendita, ostile al cambiamento sociale qualitativo e profondo.
Se Palermo è un osservatorio privilegiato, nonostante i pericoli di deformazione ottica per via dell'estrema vicinanza dell'osservatore all'osservato, occorre andare sagacemente contro-corrente, stando attenti, per parafrasare Woody Allen, a non...prendere la scossa, finendo con il confondersi con l'opposizione socialista (sic!) o peggio con la posizione mafiosa e filo-mafiosa. Fondamentalmente, Palermo è una città spaccata (Mafia vs. Antimafia, Antimafia X vs. Antimafia Y), dall'etichettatura manichea facile (con una velocità degna della pistola più svelta del Far West...); inoltre, a sottrarsi a questo manicheismo si corre il rischio di essere seppelliti da entrambi i lati, senza nemmeno accorgersene. L'ingiunzione a schierarsi è tipica di ogni ingiunzione, dove si è più colpevoli e malvisti se si rifiuta o si obietta di preferire e praticare altre scelte che non per aver scelto una posizione antagonista all'interlocutore di turno, che almeno così sa con chi ha a che fare. Naturalmente, si parla di scelte da fare nel campo dell'antimafia, dando per scontato in questa sede che i mafiosi (con i filo-mafiosi a sostenerli accanto) praticano il saggio stile di primum agire, deinde parlare, (e non viceversa, come certa retorica di regime). L'antimafia istituzionale e l'antimafia sociale, quella dei movimenti d'opinione osteggiati dalle linee editoriali del Giornale di Sicilia, per esempio, vanno a braccetto, finendo con l'invadere l'uno il campo dell'altra. Ovviamente, i movimenti così si snaturano prestandosi a subordinarsi implicitamente alle direttive altrettanto implicite di chi tira le fila della strategia antimafia politico-istituzionale.
Prova ne sia la ritrovata centralità nel gioco politico della DC di Orlando e Mattarella, l'egemonia culturale dei gesuiti di padre Sorge e padre Pintacuda, la potente lobby democristiana della CISL (che elegge palesemente propri deputati in Parlamento, che condiziona cariche istituzionali e partitiche); e di contro, l'arroccamento socialista ad un'opposizione politica alla ricerca di nuove verginità (dato il potere del sotto-bosco governativo grazie agli anni di gestione politico-clientelare nello stesso Comune), lo sbandamento del PCI e della sinistra storica e meno storica (CGIL compresa), che oscilla tra anima fiera e affarismo consociativo (con tutti, DC limiana e andreottiana alla Provincia, DC orlandiana al Comune), l'evanescenza del movimento verde (al di sopra di ogni sospetto l'assessore comunale alla vivibilità: ma una grande fotografa non fa "istantaneamente" un forte movimento sociale di base), la subalternità dei movimenti cattolici di base, autocondannatisi a rientrare prima o poi, armi e bagagli, nel partito-madre democristiano (con l'imprimatur del Cardinale Pappalardo).

Rigettare l'ingiunzione
L'intelligenza di Leoluca Orlando ha portato la DC al centro inespugnabile, almeno al momento, vista la sua notorietà internazionale. Ma la sua sfida di aprire ai movimenti per giocarli come carta nello scambio politico a lungo termine con quella parte della DC ostile alla nuova cordata di potere - il che non diminuisce la tensione etica dell'impegno antimafia di Orlando, dei gesuiti e di altri quarantenni, però la inquadra in un processo di sostituzione di quadri di potere e di metodi di gestione statuale della cosa pubblica - la sfida del sindaco, si diceva, è abile per un terzo motivo, che dovrebbe interessare più da vicino noi anarchici, estranei da sempre agli squallidi giochi di parte: Orlando incarna nell'immaginario sociale il punto di slittamento interno al sistema ed alla logica statuale che mira ad un cambiamento (preteso) qualitativo a partire e restando dentro i confini del sistema stesso.
In questo senso, né un eventuale senno del poi, né una reiterata lezione storica che lo condannerebbe senza appello, salvandone la buona e ingenua volontà di trasformazione neoriformista, seppure di alto profilo, sono sufficienti per contrastare nei fatti una seducente progettualità cattolica (e gesuitica) che promuove solidarietà, movimenti, sensibilità verso i deboli, forti temi di impegno sociale e internazionale, salvo poi a ricondurre il tutto al proprio progetto di identità politica (e ciò vuol dire, in concreto, trasparenza municipale, spazio per tutti, illusione del decentramento e della partecipazione, dialogo con tutti, esercizio "illuminato" dei potere, primato del politico "intelligente", gestione amministrativa in linea con il sistema di potere nazionale). Rigettare l'ingiunzione a schierarsi per una delle cordate antimafia può avere un effetto solo se, nel contempo, si matura un progetto sociale su Palermo capace di collegare su piani non istituzionali i movimenti di base per strappare spazio sia alla gestione mafiosa del potere, sia alla gestione istituzionale (sindacati compresi) del potere, per arginare e ributtare sia la presenza militare della mafia sul territorio, con la conseguente militarizzazione diffusa di una società terrorizzata dalla violenza cieca e imprevedibile, sia la presenza militare dello stato - il che vuol dire anche gli F16 in Calabria - con la conseguente chiusura di possibilità estranee al sistema tramite il monopolio preventivo della forza fisica (per parafrasare Max Weber).
È stato difficile riuscire a conservare un margine di agibilità mentale e politica quando, negli anni di piombo, l'ingiunzione era di scegliere tra stato e brigate rosse, e alcuni di noi anarchici coniammo lo slogan "Contro lo stato, contro le BR" (diverso non poco dal simile "né con lo stato, né con le BR", anche se entrambi dichiarazioni verbali); è difficile oggi aprire un fronte di lotta sociale sui due versanti dello stato e della mafia. Se i movimenti di base sapranno incarnare la propria identità senza svendere il loro ruolo e la loro dignità alle seduzioni del potere, sarà possibile che esperienze attuali, ambigue e contraddittorie, quali il comitato dei cittadini per l'informazione e la partecipazione (Cocipa), possano decollare aprendosi un reale varco tra la morsa di un'invadenza mafiosa mortale e una presenza pervasiva statale oggi disponibile verso tutti (dall'alto del suo progetto in via di realizzazione).
Diversa è la funzione e l'obiettivo di una progettualità sociale che sappia trovare soluzioni inedite per vecchi problemi, metodologie antiautoritarie per formazione di decisionalità politica collettiva, forme autogestionarie per restituire primato e responsabilità d'agire individuale e collettivo al singolo individuo, e non a entità elettorali chiamate a delegare la qualità del proprio futuro e della propria vita ai nuovi stregoni delle regole di un gioco del dominio sempre vincente.


Al di fuori dei partiti

Carmine Mancuso è il presidente dell'Associazione coordinamento antimafia di Palermo. In quest'intervista riassume il senso della sua attività politica e risponde agli interrogativi sul rapporto con le istituzioni, sul mondo dell'informazione, sugli imbarazzati silenzi di fronte a certi comportamenti delle forze dell'ordine.

Siete stati accusati, e da più parti non tutte al di sopra di ogni sospetto, di essere "professionisti dell'antimafia" in cerca di facile carriera. Cosa significa "fare antimafia" per chi non è preposto istituzionalmente a ciò come magistratura, forze di investigazione, ecc...?

Come premessa, diciamo che la mafia è un fenomeno complesso perché racchiude in sé molte sfaccettature; ma oltre ad essere un fenomeno criminale, è anche politico, e quindi culturale, tant'è che noi riteniamo che ogni omicidio di mafia è si un'espressione criminale, ma anche e soprattutto un'espressione politica giacché sarebbe assurdo pensare che uccidendo Mattarella, La Torre, un poliziotto, un magistrato, Rostagno, quindi le varie espressioni dello stato e della società civile, non ci sia una volontà politica, e pertanto l'esistenza di un cervello politico della mafia, non solo qualcosa di organizzativo a livello di cosche, ma su tutte non un Grande Vecchio, ma un Comitato d'affari internazionale che regola gli interessi politico-mafiosi, che non possono essere quelli di Michele Greco, ma di persone molto più in alto, e non limitate alla Sicilia.
A pensare di poter combattere la mafia, non dico batterla che può essere in questo momento un'utopia, dovrebbe essere una coalizione di varie forze: la magistratura e le forze repressive, alle quali dovrebbe affiancarsi un'azione politico-amministrativa, supportata a sua volta da una culturale. Quindi noi, gruppo di semplici cittadini, ognuno inserito nella propria attività sociale, abbiamo pensato, nel nostro piccolo di minoranza morale quale siamo e a cui ci ispiriamo, di cominciare ad agire sotto l'aspetto culturale per essere espressione d'avanguardia di questo rinnovamento della cultura in Sicilia ed a Palermo soprattutto. Ecco perché rifiutiamo l'epiteto o l'attributo di "professionisti dell'antimafia", non essendo espressione di alcun gruppo di potere né volendo trarre vantaggi come comitato da questa lotta alla mafia.

Ma non c'è il pericolo di un'infiltrazione, nel movimento anti-mafia, di forze politiche o sociali, o addirittura di Cosa Nostra stessa, che tendono a sostituire una cordata di potere con un'altra?

Effettivamente il pericolo esiste, io personalmente sono diffidente verso le persone anche se ho un'apertura mentale da laico. Sta alla forza delle idee o alla volontà di lottare per i propri principi, alla fiducia in se stessi, respingere il pericolo, in un gruppo, eterogeneo come identità, ma coeso come volontà di operare, di 400-500 aderenti attuali, non dando possibilità di spazio all'infiltrato. Questa fiducia, questa onestà intellettuale che contraddistingue chi ha aderito a questa associazione o al movimento sono il migliore antidoto per scongiurare il pericolo.

Voi siete partigiani di una logica d'emergenza, per la quale non occorre andare per il sottile, perché "à la guerre comme à la guerre", con il conseguente manicheismo degli schieramenti e dei sospetti (o di qua o di là). Non c'è il rischio di alimentare confusione e commettere gravi errori? Dato il carattere secolare dell'arroganza mafiosa, come si può sostenere una logica d'emergenza di un fenomeno in crescita ma sicuramente non inedito?

La mafia non è affatto un'emergenza, anzi rischia di diventare un fenomeno fisiologico. Se riusciamo a distinguere la strategia che riporta la mafia ad un'emergenza incombente che può essere lottata e sconfitta con l'applicazione di leggi eccezionali, allora sarebbe come rivolgere l'arma non contro il nemico, ma contro se stessi; noi non accettiamo questa impostazione, né quella che considera la mafia come fenomeno fisiologico. La mafia, come fenomeno complesso, deve essere combattuta in maniera univoca sia dalle forze istituzionali (politica, magistratura, polizia), sia soprattutto dal cittadino, che si deve emendare da questa cultura così impropria, così aberrante. Noi siamo dei fautori della questione morale perché, se è vero che la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto, a maggiore ragione lo deve essere Cesare; oggi, nella vita quotidiana, abbiamo visto che Cesare non è al di sopra di ogni sospetto, anche nel campo delle forze istituzionali preposte alla lotta alla mafia: magistrati corrotti, a Trapani il giudice Costa, a Catania i magistrati Vitale e Pennacchio, per i quali la sentenza di primo grado ha accertato un rapporto organico con forze malavitose se non proprio mafiose.
Occorrono esatte cognizioni per lottare contro la mafia e le sue articolazioni, non emergenze o poteri eccezionali attribuiti, ad esempio, all'alto commissario Sica - contentino dato all'opinione pubblica; la mafia va combattuta con l'impegno quotidiano del cittadino consapevole dei propri diritti e doveri, e dello stato nelle sue espressioni.

Quali elementi vi inducono a confidare nelle istituzioni locali che solo in alcuni uomini, e non certo nelle regole né nelle pratiche collettive, assumono un impegno, peraltro generico, contro la mafia? La questione morale è una questione di individui onesti al posto di disonesti, o è piuttosto una questione di regole del gioco da cambiare?

Il nostro processo democratico è un po' logoro dopo 40 anni; qualche regola va cambiata, e in positivo, ma il rapporto conflittuale tra i partiti non dà chiarezza al dibattito in corso, specie dal punto di vista del cittadino che non riesce ad entrare appieno dentro la disputa politica tra, per esempio, Craxi e De Mita. La conseguenza usuale è che "la politica è sporca" e che i "politici fanno polvere proprio per mistificare e nascondere il fatto che essi fanno ciò che vogliono". Noi siamo favorevoli ad una Politica con la P maiuscola, restituita al cittadino, ad uno sviluppo democratico partecipativo oltre che rappresentativo; siamo contrari alla democrazia consociativa, agli unanimismi che fanno degenerare i processi democratici. Ognuno mantenga la propria autonomia, la propria caratteristica, e poi si trovino i momenti di sintesi al di là degli interessi settoriali, corporativi, singolari. L'associazionismo nasce da questa crisi della politica, da questo bisogno di restituire la politica ai cittadini, dal bisogno di buon governo delle città, di controllo cittadino di potere locale, spesso succube di modelli centrali distanti dalle esigenze appunto locali; il cambiamento deve andare verso l'interesse collettivo di un nuovo modo di vivere nelle città, di fare fronte alle condizioni di bisogno delle donne, dei bambini, degli anziani, di combattere l'alienazione, la droga, la vivibilità del traffico, degli agglomerati dei centri storici o delle periferie degradate.

Questi cambiamenti passano attraverso le istituzioni per come esse sono, o attraverso altri percorsi?

Parlando dei grandi temi, delle grandi strategie, i tre poteri per i quali si costituisce il nostro sistema non vacillano, non vanno messi in discussione. Il punto sta negli uomini che li rappresentano e li interpretano. Il processo di rinnovamento passa attraverso le istituzioni, così come la questione morale che deve toccare non i discorsi ma le persone.

Avete una fiducia cieca che la repressione giudiziaria e poliziesca giunga a qualche risultato definitivo. Ma essa ormai colpisce rami già bruciati di Cosa nostra, e da un punto di vista di rinnovamento qualitativo etico, il carcere non è mai stato una soluzione di problemi, ma solo una loro deviazione forzata e controproducente. Reprimere oggi diventa "bello" se è diretto contro la mafia? Non temete che se passa questo criterio, un domani l'imputato di turno non avrà alcuna chance di difesa dallo stato?

Il primo maxi-processo di Palermo non ha risolto il problema mafia; la capacità repressiva dello stato, anche quando concorre nella sua interezza per un certo periodo di tempo, non è sufficiente. L'azione morale nella società, nelle famiglie, nelle scuole, nei giovani, è importante per il bagaglio futuro di doti politiche e morali. Diamo al processo il ruolo che gli pertiene in quanto momento repressivo; se alla repressione non si affianca un'azione politico-amministrativa e culturale, essa non è affatto risolutiva.

All'interno delle forze dell'ordine serpeggiano malumori, rabbia, arroganza, intolleranza, confusione. Questo solitamente, qui poi tutto è ingigantito dalla posta in palio e dalla tensione quotidiana. Anche in questo campo, sembra che nessun dubbio aleggi, e alcuni esponenti sono al di sopra di ogni sospetto, sebbene la loro professione li porti ad operazioni non sempre pulite; il caso Marino è esemplare: non sono stati proprio i "vostri" zelanti tutori dell'ordine, che rischiano la vita, a strapazzare oltre il "lecito" Marino, cioè fino ad ucciderlo? E l'imbarazzante silenzio tutt'oggi perdurante non è un secondo "omicidio"?

È indubbio che l'uniforme non fa l'uomo onesto: il corpo di polizia non è il giardino dei principi. Dal suo ruolo non discende che ogni singolo sia una persona per bene; se uno devia, allora il giudizio deve essere drastico. Da alcuni anni in qua, le condizioni di vita entro i corpi di polizia sono migliori, precisamente dal '68 in poi, con la democratizzazione interna e la sindacalizzazione. Questo non salva l'intera polizia; il caso Marino mostra non un malessere, ma uno stato d'aberrazione mentale, di follia collettiva.
Questi corpi dello stato non sono alieni dalla contiguità, dall'inettitudine, dai rapporti organici con Cosa nostra. La critica riguarda però uomini, sottoposti al giudizio morale e legale. Manca anche l'esempio cui riferirsi: se un ministro come l'attuale on. Gava, che deve stimolare l'operato delle forze di polizia secondo il dettato costituzionale, è tacciato di un grande sospetto quale quello di essere molto vicino e congeniale alla camorra (vedi il caso Cirillo), non ci si può meravigliare dei suoi sottoposti. Il caso Marino non deve però portare a un discredito di tutto l'apparato istituzionale della polizia, non considerando il lavoro coscienzioso dei suoi operatori contro la mafia, che pure hanno pagato a caro prezzo.
Bisogna considerare con serenità l'operato del corpo di polizia, e di volta in volta denunciare con fermezza le anomalie che vi si creano.

Qual è l'impegno del mondo dell'informazione scritta e orale? Quali possibilità ha un'opinione pubblica disinformata e ormai abituata a delegare tutto, anche il controllo logico di fatti, dati ed eventi, e loro riscontri incrociati, alle istituzioni preposte, di poter incidere sul tessuto concreto della società?

Noi abbiamo denunciato l'esistenza di interessi economici, non immediatamente mafiosi, nel Giornale di Sicilia attraverso la ricostruzione del suo atteggiamento nei confronti di fatti di mafia e della lotta ad essa, anche sul versante giudiziario; Costanzo, l'imprenditore catanese citato da Calderone nelle sue deposizioni, ha lanciato un messaggio oscuro, affermando di avere delle partecipazioni azionarie in numerosi giornali, anche non locali, il che è possibile mediante incroci.
Dall'altro lato, esiste una stampa che ha permesso all'opinione pubblica di seguire i vari sviluppi dei fatti di mafia, o le varie sequenze della lotta alla mafia, e ciò grazie alla forza morale di alcuni giornalisti, e grazie al ruolo di direzioni oculate e attente.
Ma il pericolo più grosso è la possibilità di condizionamento da parte della politica o di poteri occulti sui gruppi editoriali al punto di deciderne non solo la rotazione dei direttori, ma anche la destinazione degli inviati, lo spazio da dedicare a problemi dati, il numero e il taglio degli editoriali. L'antagonismo editoriale degli interessi economici contrapposti, invece, produce effetti positivi nel senso di allargare gli spazi di libertà del giornalista.
Più che memoria della cronaca, l'opinione pubblica dovrebbe avere più memoria storica per evitare la riscrittura della storia ed il proprio imbavagliamento.
Per quanto riguarda Palermo, i due giornali (Giornale di Sicilia e L'ora) cercano in tutti i modi di non far arrivare alla gente dati certi e reali riguardanti alcune operazioni politiche quali gli appalti, la ricostruzione del centro storico , la modificazione della costa; per determinare i giochi su questi eventi emblematici bisogna far zittire le testate.
Sinché esisteranno associazioni e movimenti estranei ai partiti, il cittadino può associarsi e verificare come l'informazione propinata non è assolutamente informazione.


Se lo dice Orlando

Il "problema Palermo" di fronte alla crisi del centralismo. Il rischio del localismo e gli effetti dello sfascio urbanistico. La mafia nelle istituzioni. Il sindaco DC la pensa così.

Leoluca Orlando, DC, professore universitario, scuola cattolica alle spalle presso i gesuiti, sindaco di Palermo dal 1985. Lo abbiamo intervistato in tempi non sospetti, nel lontano novembre 1984, per un ciclo di trasmissioni radiofoniche nel circuito regionale della RAI intitolato "La questione dello stato ed i suoi riflessi nelle aree periferiche locali"; e nel maggio 1986 per un altro ciclo analogo intitolato "Muffe di mafia". Riportiamo uno stralcio di quelle conversazioni che forniscono alcuni elementi di comprensione della sua figura e della sua attuale strategia politica e culturale.

Per quale motivazione c'è tanto interesse per le realtà locali?

Il sistema centralizzato si è rotto, lo stato si è rotto, ed oggi il ruolo che prima ricopriva lo stato viene svolto dalla città, e la sfida al governo non è più una sfida statale, ma una sfida urbana; cioè la gente si accorge della qualità delle risposte della pubblica amministrazione valutando i comportamenti del sindaco, non del ministro, rivolgendosi al palazzo comunale e non più al ministero.
Il pericolo è che si crei una sorta di recinto, che prevalga una impostazione deteriore del localismo, che si ritenga autosufficiente in energie, consensi, intelligenze, risorse per programmare il proprio sviluppo. Palermo è una città dove si corre il grosso pericolo di chiudersi al resto del mondo, dove tutto rischia di diventare "civico", nell'accezione più riduttiva del termine, e noi sappiamo che in una città come Palermo il localismo si connota di sottosviluppo, si connota di mafia.

Come si attua questa rottura?

C'era la tesi che lo stato fosse un megantropo, cioè un grande uomo i cui criteri di giudizio sono gli stessi per valutare un uomo. Oggi lo stato non è più un centro coerente, esonerato dal principio di non contraddizione, tutt'altro, lo stato diventa il luogo di sintesi delle diverse società locali. Non esistono un luogo e un modello ottimali di formazione del consenso e del potere, ogni realtà ha i suoi luoghi ed i suoi modelli.

Noi subiamo o meno questo processo di sfaldamento del centro? Non è che il locale ha assunto le stessi vesti e le stesse logiche del centro?

L'economia e l'informazione culturale, alcuni temi come la pace, il diritto alla vita o alla qualità della vita sono sicuramente sovranazionali, e ciò ha prodotto la rottura del centro statuale, che recupera un proprio residuo di statualità proprio nella politica e nell'amministrazione, nate e disegnate con il riferimento al recinto-stato e rifugiatesi oggi nelle società locali, un tempo periferiche. Oggi abbiamo un sistema policentrico dove ogni società locale tende ad essere nello stesso tempo centro e periferia di tutto.

Come si supera questo residuo arcaico?

La politica e l'amministrazione, nella nostra realtà, devono dimostrare di non essere avversari della modernizzazione. In che cosa consiste la modernizzazione nella città di Palermo oggi? Io credo che la modernizzazione passi attraverso la ricostruzione di un'identità di popolo; Palermo negli anni precedenti, negli anni '50-'60-'70 è stata una città senza popolo, una sorta di recinto al cui interno convivevano alcuni popoli che provenivano dalla provincia. Così si spiega il decadimento del centro storico, che non ha avuto alcun significato per questi popoli che avevano come riferimento la piazza, la chiesa, le strade del proprio paese, e che nel modello urbano più consueto cercavano un palazzo in condominio con l'ascensore, il portiere, il citofono e un grande ingresso.
Su queste cose si è inserito il meccanismo della speculazione edilizia, del parassitismo mafioso, che hanno trovato terreno fertile nella mancanza di un popolo. I tanti popoli diversi che convivevano in questo recinto hanno raggiunto un contratto tra di loro su interessi forti: la casa e il lavoro; e in una realtà precaria e meridionale, la casa e il lavoro sono anche speculazione, parassitismo, clientelismo.
Da alcuni anni in qua, anche per il bisogno di difendere la propria immagine in una dimensione nazionale a fronte dell'escalation mafiosa che rende facile l'identificazione Sicilia=mafia, va crescendo il numero di gente che cerca di fondare la propria identità sul futuro: sta sorgendo un unico popolo palermitano; non è facile, è un processo lungo, ma è una condizione per l'affermazione di un modello urbano.

E il risanamento dei quattro mandamenti del centro storico?

In effetti, nei quattro mandamenti, nel 1951, vivevano 130.000 persone, nel 1981 38.000, non più 1 su 3, ma 1 su 20 è un cittadino del centro storico.
Cosa è accaduto? Proviamo a schematizzare. Nel centro storico abitava l'aristocrazia che dava senso alla struttura di consenso e di potere raffigurato dai vecchi palazzi aristocratici: al primo piano stava il nobile, sotto e sopra stavano i clientes, coloro che vivevano all'ombra e attorno al potente. Quando l'aristocrazia scommette su due scelte storicamente sbagliate, la monarchia e l'indipendentismo, viene tagliata dai circuiti di potere della città, scoprendo di non appartenere più alla categoria degli intoccabili, scoprendo che il figlio del proprio campiere, eletto deputato o consigliere comunale, non garantisce più l'aristocrazia. La borghesia aveva già iniziato agli inizi del secolo a lasciare il centro storico, scommettendo sul liberty e su un'urbanistica che la emancipasse dal ricordo del proprio asservimento all'aristocrazia. Vogliamo poi rimproverare il proletario che, vivendo nel centro storico di Palermo, dovendo scegliere tra un tugurio nei quale piove dentro e un anonimo appartamento in un anonimo quartiere dormitorio, sceglie il secondo? Magari poi manderà il figlio o la figlia dallo psicanalista per curarsi dall'alienazione del vivere in un ghetto, ma intanto si ripara dalla pioggia, anche perché non ha più senso vivere in un vecchio palazzo nel quale piove dentro quando al primo piano non abita più il potente.
Io non disconosco l'effetto trainante della speculazione edilizia connessa alla mafia; ma io mi chiedo per quale ragione la speculazione, che in tutti i paesi del mondo aggredisce per primo il centro storico, essendo i palazzinari la seconda generazione, a Palermo inverte il processo. Io rispondo perché mancava un popolo.

Cosa può fare il mondo della cultura, in particolare l'università, per contrastare un certo predominio mafioso?

Non c'è dubbio che il primo, specifico ruolo dell'università, nelle sue diverse discipline, sia quello di conoscere la mafia; come l'università a Palermo, in Sicilia ha il compito di conoscere lo scirocco, il terremoto, la talassemia, così ha il compito di conoscere la mafia. Ma questo è certamente un ruolo minimale. La mafia è anche un sistema di segni culturali, ed è anche un modo di organizzare il consenso culturale in un determinato momento storico, in una determinata regione. Estremizzando, il ruolo dell'università può prescindere dal fatto che siamo a Palermo con la mafia, ma non c'è dubbio che una università poco qualificata, che non promuove professionalità, cioè capacità di confronto con realtà altre in campo nazionale e internazionale, a Perugia, per fare un esempio, produce solo caduta di prestigio su quell'ateneo, su quel dato docente; a Palermo, invece, il difetto di professionalità non è complicità con la mafia, stiamo attenti, ma nei fatti fa perdere un'occasione di cultura alternativa, che possa avere futuro. Oggi più di ieri la mafia sembra essere una struttura, una mentalità, un modo di vivere che in sostanza si colloca, nella dimensione del tempo, come un eterno presente, nella dimensione dello spazio, come un eterno confinamento in una realtà chiusa. Riuscire a rompere la dimensione del tempo dandosi un futuro, e quella dello spazio uscendo fuori dall'isolamento, è probabilmente un modo per l'università di essere se stessa oltre che contro la mafia.

Un sapere e un sapere-fare, allora: ma non le sembra che tali caratteri debbano risultare da condizioni strutturali date da nuove regole del gioco, e non dalla maggiore onestà o capacità dei singoli?

Una caratteristica propria dell'impostazione mafiosa nei rapporti umani è che il sentimento prevale sul comportamento; ciò che è importante nei rapporti tra le persone è il rispetto, la devozione, l'amicizia, e non il comportamento: uno schiaffo ricevuto da un amico è tollerato, un gesto appena poco riguardoso da parte di uno che amico non è non è assolutamente tollerato.
Voglio con ciò dire che i comportamenti non hanno un loro autonomo rilievo. Pertanto non basta la conoscenza, ma è necessaria la fattualità, la proiezione della conoscenza in una integrazione di vita civile, che è quello che io chiamo professionalità, cioè il conoscere collegato al momento storico, ad un modo di vivere.

Più stato, meno mafia: questo è slogan ricorrente. E le costanti interferenze tra stato e mafia? Non è più logico restringere il campo di presenza statuale per sottrarre spazio alle occasioni di continuità o di cointeressenza con la mafia?

In un sistema nel quale il mondo della cultura sia scollegato dagli interessi quotidiani della vita della gente, in un sistema nel quale si ridimensionano i compiti pubblici, della pubblica amministrazione, però di contro non si organizzano gli interessi privati in maniera moderna, si ha un bel dire che si è contro la mafia, perché alla fine inevitabilmente si sarà fagocitati in un sistema nel quale domina l'interesse forte non pubblico, ma privato di un certo tipo. Io insisto sulla rottura dell'isolamento: se noi oggi riduciamo il ruolo delle pubbliche amministrazioni nella nostra realtà, rischia di prendere piede un privato non moderno. È vero che occorre ridimensionare il pubblico, ma contemporaneamente immettere il privato in un circuito nazionale e internazionale che ristabilisca quelle regole di una società che non è sempre quella palermitana.
In soldoni, l'alternativa sembrerebbe essere tra l'indebolimento del comune, della regione, ed il rafforzamento di che cosa? Di quale privato? E su quali valori? Allora, diminuiamo l'influenza della pubblica amministrazione, ma esaltiamo al massimo l'immissione della realtà culturale, teatrale, commerciale, economica, sociale.


La mafia finanziaria

Il complesso finanziario-industriale consente, grazie anche al segreto bancario e ai paradisi fiscali, una simbiosi tra capitali legali ed illegali. Il nodo mafia-affari inquadrato nella dinamica delle economie capitalistiche. La droga e il traffico di armi sono ormai decisivi per l'emergere di centri finanziari di importanza mondiale.

Umberto Santino è presidente del Centro di documentazione "G. Impastato". Ha pubblicato numerosi saggi sulla questione pacifista e sulla mafia. Insieme a Giorgio Chinnici ha scritto "L'omicidio a Palermo e provincia (1960/66-1978/84)", Università degli studi di Palermo, 1986. Ha in preparazione un lavoro sulla mafia finanziaria.

Oggi la mafia è sempre criminalità organizzata o ha assunto vesti finanziarie a dimensione mondiale, che utilizza arcaicamente ancora strumenti criminali?

È tutt'e due le cose, nel senso che le organizzazioni criminali (la mafia più che una monarchia è una repubblica federale, cioè ci sono parecchie organizzazioni che hanno un "sistema relazionale" basato sul coordinamento, ma tra cui esplodono ciclicamente fasi di conflittualità acuta) sono al centro di un sistema di accumulazione e di potere che lega insieme aspetti illegali e legali. Il ricorso all'omicidio, quella che ho chiamato la "strategia della violenza", è certamente un retaggio storico, il frutto di una cultura arcaica, ma è anche funzionale ai compiti economico-politici che sono andati sempre più sviluppandosi negli ultimi anni. Non che la mafia prima non avesse un ruolo economico-politico ma la "mafia finanziaria", denominazione che ho proposto per la mafia dagli anni '70 ad oggi, molto più appropriata di quella di "mafia imprenditrice" che si attaglia più alla mafia degli anni '60, ha incrementato moltissimo la sua accumulazione e conseguentemente mira a occupare spazi sociali e politici molto più estesi che in passato.
La delittuosità degli ultimi anni, in particolare a Palermo, dove insieme al lievitare della conflittualità interna, che ha avuto il suo picco nella guerra di mafia degli anni 1981-1983, si è avuta l'esplosione della conflittualità esterna, con l'uccisione di un segretario regionale del PCI, di Dalla Chiesa, di un sindaco, di magistrati e poliziotti, si spiega con la "gara egemonica" che i mafiosi hanno combattuto tra loro ma anche con singoli personaggi e settori istituzionali che "si sganciavano" dall'alleanza con la mafia o rappresentavano un ostacolo ad un processo di espansione del fenomeno mafioso mai prima registratosi. Per capire la mafia di oggi bisogna perciò collegare la dimensione locale con quella internazionale e l'aspetto criminoso con quello finanziario e politico.

Qual è il nodo affari-mafia? È solo opportunismo parassitario oppure arroganza ingorda di appalti?

Aspetti parassitari e imprenditoriali convivono ma da una ricerca vicina alla conclusione del Centro Impastato risulta che la dimensione imprenditoriale è limitata rispetto alla portata dell'accumulazione.
La mafia finanziaria è una grande corporation, l'impresa mafiosa quale risulta dagli accertamenti patrimoniali in attuazione della legge antimafia, se si tolgono due grandi gruppi, quello Virgilio-Monti a Milano e quello dei Salvo in Sicilia, è piccola, marginale, spesso con mere funzioni di riciclaggio del denaro sporco. Certo, il terreno degli appalti, e in particolare dei subappalti, è stato e continua ad essere, in forme camuffate, importante per capire il nodo mafia-politica-pubblica amministrazione.
Per quanto riguarda i grandi appalti, oggi bisogna guardare alle infiltrazioni mafiose nei "consorzi", cioè le nuove forme imprenditoriali, con l'holding finanziaria al centro e intorno il sistema di imprese articolate per settori, che dominano il mercato. I subappalti continuano ad essere gestiti da mafiosi camuffati con il ricorso a prestanomi o alla consociazione con imprenditori non sospetti. Bisogna abolire il subappalto, o limitarlo alle opere che richiedono un alto grado di specializzazione. Quanto ai "consorzi", che agiscono principalmente tramite il sistema della "concessione", che rappresenta una vera e propria spoliazione di sovranità degli enti locali, si pone il problema di dar vita a forme nuove di imprenditorialità, pubblico-private per esempio, che contrastino l'egemonia del grande capitale.

Qual è il rapporto tra l'organizzazione del capitale mafioso e le "neutrali" leggi capitalistiche del mercato? La mafia è una holding capitalistica come la FIAT di Agnelli, la cui unica differenza è la fonte (più sanguinaria ma meno socialmente violenta) di estrazione del plusvalore?

Sto studiando questo problema fondamentale all'interno di un progetto di ricerca abbozzato nel mio paper "La mafia finanziaria". L'ipotesi di "sfondo" è il complesso-finanziario-industriale come forma della mondializzazione del capitalismo, un sistema opaco, che si regge sul segreto bancario, con le eccezioni introdotte dall'OCCA (Organized Crime Control Act) negli Stati Uniti, nel 1970, e dalla Legge Rognoni-La Torre del 1982 in Italia. Questa opacità del sistema finanziario, insieme con i fenomeni dell'innovazione finanziaria e i cosiddetti "paradisi fiscali", permette la simbiosi tra capitali illegali e legali. Formalmente tanto le grandi multinazionali che la mafia usano la struttura holding. La differenza è nella provenienza illegale del capitale e nell'uso diretto della violenza da parte della mafia, mentre il capitale "pulito" si serve dell'istituzionalizzazione della violenza attraverso la forma stato.

Se la mafia è integrata nelle dinamiche di economie capitalistiche di mercato mondiale, perché ha bisogno di sopprimere i propri concorrenti?

Perché c'è una "economicità della violenza", come indicava Marx. Solo che mentre il grande capitale ha praticato la violenza diretta nella fase dell'"accumulazione originaria", la mafia e le altre organizzazioni criminali che si sono imposte sulla scena mondiale (Triadi cinesi, Yakuza giapponese, criminalità organizzate dell'America Latina, dell'Australia) sono i late comers che per affermare il loro ruolo economico intrecciano attività illegali e legali. Se agissero in modo "pacifico" sul mercato non conterebbero.

Quali sono le vie del riciclaggio del denaro sporco? In una logica di capitale come si fa a distinguere denaro sporco e denaro pulito, sfruttamento e accumulazione buona e sfruttamento e accumulazione cattiva?

Le vie del riciclaggio sono molteplici, e vanno dalle più primitive, come il trasporto del denaro liquido in valigia, alle forme più sofisticate, come le "compensazioni". Come dicevo prima denaro sporco e denaro pulito fanno ottimi matrimoni in un sistema finanziario dominato dall'"opacità". Credo che la tua domanda sottintenda un'idea del tipo: "capitalismo uguale mafia". Io non accetto né lo stereotipo "piovra universale", che vede mafia sempre ed ovunque, né quello "riduzionistico" che vede la mafia come un mero residuo arcaico che ha sostituito la lupara con il kalashnikov.
Nella ricerca sulle imprese formulo l'ipotesi di "mercato multidimensionale" in cui interagiscono l'economia legale, l'economia sommersa e l'economia illegale, con una tipologia di "rapporti" che si può sintetizzare così: compenetrazione, convivenza, conflitto. Soprattutto quando l'accumulazione illegale è in crescita, o la mafia ha qualche problema nell'investire i suoi capitali, come negli ultimi anni, si innesca il conflitto: i mafiosi uccidono (a Palermo sono stati uccisi molti imprenditori) e gli imprenditori sollecitano l'attività repressiva dello Stato. Il rapporto quindi tra capitale legale e illegale è complesso. Ovviamente lo sfruttamento è sempre tale, anche se nell'impresa mafiosa può essere maggiore, dato che quasi sempre è a lavoro nero. Ma il lavoro nero non è solo mafioso.

Qual è oggi, in via prioritaria, il baricentro spaziale delle zone di interessi mafiosi? È il mercato mondiale, e quale? E quale ruolo assume il mercato locale (siciliano, italiano)?

La "mafia finanziaria" non sarebbe possibile senza un mercato a dimensione mondiale, ciò non toglie la "centralità" della Sicilia, almeno per l'organizzazione mafiosa siculo-americana. Ripeto, stiamo parlando di un fenomeno in cui convivono aspetti che sembrerebbero in contrasto e non lo sono, anzi si avvitano in un nodo di reciproca funzionalizzazione. La "signoria territoriale" su un quartiere di Palermo serve per installarvi una raffineria d'eroina che può lavorare per parecchi anni senza essere scoperta. Palermo e New York sono vicinissime, com'è vicinissima la Svizzera per "ripulire" il denaro. La droga è un "sistema mondiale" e lo sono pure il sistema finanziano e il mercato degli investimenti. Dobbiamo evitare di costruire alternative troppo rigide: la mafia-mondo fa tutt'uno con il dominio a Brancaccio-Ciaculli. Ciò avviene a livello spaziale e anche temporale: l'arcaico "dominus loci" è un protagonista delle "relazioni internazionali" che formano il network criminale-legale.

Quale risulta essere il maggior business di Cosa Nostra? Come viene impiegata la montagna di profitti: investimenti finanziari, investimenti sociali? Non meraviglia il boom della Borsa italiana: e se la vera "droga" che ha fatto la fortuna di Gardini, De Benedetti o delle imprese elettroniche giapponesi che insidiano l'IBM sia frutto di ... droga mafiosa?

Senza la droga non ci sarebbe la mafia attuale. La droga consente profitti dell'ordine di molte migliaia di miliardi l'anno, anche se bisogna andare cauti con certe "stime" circolanti (si parla di 25.000-35.000 miliardi). Dopo vengono le armi. Questi capitali vengono impiegati in varie direzioni: continuazione ed estensione delle attività illegali, attività legali, finanziarie, imprenditoriali, etc... C'è molta "diversificazione" nell'investimento, né più né meno come per le multinazionali. Che il capitale sporco possa essere in borsa, ovviamente opportunamente "travestito", non si può escludere, tenendo conto che la nostra legge antimafia è arretrata di almeno vent'anni e se colpisce il patrimonio e le attività imprenditoriali finora ha sfiorato la dimensione finanziaria. Non risultano collegamenti diretti tra i big del capitalismo di cui parli e il denaro sporco, ma il problema non riguarda questo o quell'altro eroe di borsa. Oggi l'"opacità" del sistema finanziario, come ho già detto, può dar luogo a parecchi matrimoni. Negli Stati Uniti negli ultimi anni Miami è diventata la seconda piazza finanziaria dopo New York ed è provato che dietro questo boom c'è il denaro della cocaina sudamericana.

Se il quadro delineato è corretto e plausibile, non sarebbe il caso di rispolverare, aggiornato e sofisticato, il vecchio slogan che "l'unica via è la rivoluzione" e non certo un'impotente lotta delle e nelle istituzioni troppo piccole, fragili e ingessate per poter contrastare un simile fenomeno mondiale?

Mi aspettavo questa domanda e la risposta è: la rivoluzione mondiale è un sogno o è un progetto? Se è un sogno possiamo contentarci di sognarlo per un improbabile domani e per intanto non far nulla; se è un progetto bisogna costruirlo e camminare con le gambe che abbiamo. Che non sono le istituzioni locali e nazionali così come sono, ma le idee concrete che riusciamo a mettere in campo e i movimenti che riusciamo ad organizzare. Sul terreno economico bisogna agire sul terreno dell'accumulazione, del riciclaggio e dell'investimento. E sono centrali il problema del proibizionismo della droga, dell'eliminazione del "bisogno d'armi" e del segreto bancario. Poi c'è tutto il terreno della lotta politica e sociale, contro le collusioni e contro l'emarginazione che spesso porta alla mafia.
Anche sul terreno istituzionale si può fare molto, ma solo se si operano rotture e non si avvallano convivenze. Ci sono gruppi dirigenti e apparati burocratici che anche se spesso non hanno commesso reati risultano "collusi". Dobbiamo spazzarli via. Solo così cominciamo a mettere qualche pietra per qualcosa che somigli a un "progetto", che è tutto da definire, dato che i "modelli storici" sono un po' obsoleti.


"No, non è fuori dal mondo pensare che..."

Giuseppe Di Lello è stato fino a poco tempo fa giudice istruttore del pool antimafia del Tribunale di Palermo, di recente entrato a far parte del direttivo di Magistratura Democratica. Riportiamo alcuni stralci di una lunga conversazione intorno ai temi della giustizia avuta con lui in RAI nel lontano dicembre 1984, quando si stava occupando con i suoi colleghi del pool dell'istruzione del primo maxi-processo a Cosa Nostra. Le considerazioni esplicite di allora, insieme ai suoi impliciti silenzi, alla luce di oggi, segnano pienamente l'evoluzione della posta in palio sul ruolo della magistratura inquirente nei fatti di mafia, che i conflitti dell'estate scorsa a Palermo hanno registrato nella sua massima e non ancora sopita virulenza.

Come si fa a essere contrari ad un'emergenza giudiziaria per fatti di lottarmatismo politico, e favorevoli per fatti di mafia?

Siamo, in realtà, in una fase di emergenza che non è ancora finita, quanto meno per la criminalità organizzata, e ci serviamo di strumenti giuridici dei quali, per la verità, non ci siamo mai serviti prima. Per quanto riguarda la mafia, finalmente una nuova cultura, abbastanza aderente allo spirito del codice, certamente non fascista, ci impone di valutare i fatti nel loro contesto ambientale (socio-politico-economico). Per anni i delitti di mafia, si sono chiusi per insufficienza di prove perché non c'era chi potesse testimoniare; ad un certo tempo, esce a testimoniare chi, avendo vissuto dal di dentro questa realtà, dice ciò che sa: si tratta di un teste qualificato o di un coimputato...

Quello che si contesta è che la cosiddetta chiamata di correo da parte di un pentito assuma strategicamente una valenza probatoria autonoma assolutamente inedita. La testimonianza di un Buscetta o di un Contorno assume una dignità di prova che non ha avuto in altri casi, giacché occorrono riscontri oggettivi esterni alla personalità del testimone...

Io non posso parlare dato che personalmente mi occupo sia di Buscetta che di Contorno; posso però assicurare che le loro dichiarazioni non vengono prese per oro colato, ma hanno volumi e volumi di riscontri oggettivi esterni, altre testimonianze, altre acquisizioni probatorie. Ripeto, in questo momento non ne posso parlare per ovvi motivi.
Il punto sull'emergenza ci impone di valutare il fatto che siamo una nazione in cui si ammazzano magistrati, poliziotti, uomini politici, con questo tasso e qualità di crimini, come nessuna altra nazione al mondo.

Ma repressione, carcerizzazione e arresti in massa servono davvero?

Innanzitutto, arresti di massa, maxi-processi, ecc. hanno il loro pendant nell'illiceità di massa, nel senso che questi fenomeni di criminalità organizzata si fondano su un'adesione attiva di migliaia, a Palermo, di persone, per cui gli arresti sono consequenziali per numero, specie quando qualcuno comincia a collaborare spiegando il perché di tanti omicidi, gli organigrammi delle cosche, per cui è chiaro che poi gli arresti non possono essere di dieci persone.
Certo, la situazione carceraria non è bella perché c'è un'incapacità a pensare pene alternative efficaci che dovrebbero sfoltire le carceri da quei detenuti arrestati per la prima volta o dai ragazzi per evitare situazioni di incredibile promiscuità. Qui però lo sfascio va imputato alla pubblica amministrazione e non alla sfera della giustizia. Ho sempre detto, e con me altri colleghi, guai se ci fosse l'illusione di sconfiggere la mafia con la magistratura.
No, è fuori dal mondo pensare che noi si possa affrontare e risolvere questo problema che è di ordine sociale, economico e politico. Si pensi come è radicata nel tessuto sociale la camorra in Campania, la mafia in Sicilia per capire come l'intervento delle forze repressive della polizia e della magistratura è un intervento che può contenere certi guasti, ma che alla lunga non può essere assolutamente vincente.
È chiaro che il problema è anche quello di voler chiaramente, con volontà politica, debellare la mafia. In questo contesto io credo che la criminalità organizzata sia molto spesso funzionale a questo sistema, per cui è assolutamente impossibile credere che in questa situazione si riesca a battere la mafia. Se un domani le forze politiche ed economiche capiranno che la criminalità organizzata è un ostacolo al loro progresso ed alla loro affermazione, allora credo che sarà anche la fine, o almeno l'emarginazione quasi totale, della mafia; ma finché questo corpo invisibile ma molto palese sarà parte integrante della struttura economica e politica della nostra società, non ci sarà alcuna speranza di batterlo.


Il volto delle istituzioni

Il Cocipa si pone nella realtà palermitana come "un modello alternativo di informazione o talvolta di controinformazione, attraverso la partecipazione diretta di unità di base e di singoli cittadini". Il tentativo di alimentare un tessuto sociale estraneo alla logica mafiosa ed i rischi di essere troppo filo-istituzionali.

Nino Rocca è tra i promotori e coordinatori del Comitato cittadino per l'informazione e la partecipazione (Cocipa), che si riunisce ogni giovedì alle ore 21 presso il Palazzo delle Aquile, sede del municipio di Palermo.

Nel discorso corrente, anche a livelli sofisticati, si delinea un'immagine della realtà a tre punte: stato, società e mafia. I rapporti tra stato e società presi separatamente, ammesso e non concesso che ciò sia possibile (e noi non lo crediamo), sono già complessi e interdipendenti. Ma la mafia è un luogo autonomo a sé stante?

La mafia a sé stante? Proprio no. Non lo dice pure la DC che la mafia ha il volto delle istituzioni?

Nella mafia che cosa c'è che appartiene alla logica mafiosa ed alla logica statuale?

Dal punto di vista della "logica statuale", diamo ormai per scontate le connessioni tra mafia e apparati dello stato. Se poi sia lo stato ad utilizzare la mafia o viceversa, è questione dibattuta da mafiosi, politologi e sociologi. Dal punto di vista della "logica mafiosa", si potrebbe dire che la mafia, oltre ad appropriarsene, tende anche a scavalcare lo stato di diritto. È una specie di giocatore borghese che bara.

Come si alimenta un tessuto sociale estraneo alla logica mafiosa ed alla logica statuale?

La mafia si alimenta appropriandosi di spazi politici ed economici sempre più ampi: ciò comporta la riduzione di spazi di partecipazione democratica dei cittadini.
E allora, quanto più la società civile si riappropria, attraverso l'informazione e la partecipazione, del potere politico che ad essa spetta, tanto più si restringe il campo di influenza mafioso. Ciò è possibile, innanzitutto, attraverso tutte le forme istituzionali di informazione e partecipazione, come la richiesta di trasparenza amministrativa, attraverso forme di controllo e di incidenza, con campagne di opinione pubblica, referendum cittadini e nazionali, alimentando le strutture di decentramento politico e amministrativo attraverso la partecipazione di comunità di base sempre più politicizzate.
Politicizzazione che non deve corrispondere necessariamente con la partitizzazione. Anzi, mi pare che oggi si evidenzi sempre più la tendenza ad appropriarsi di spazi che si mantengano estranei alla logica partitica.

Lei è portavoce del Cocipa: vuol dire in due parole di quale esperimento si tratta?

Il Cocipa è il tentativo di una partecipazione dei cittadini alla vita politica, al di fuori dei Canali istituzionali dei partiti. Esso rivendica, innanzitutto, "informazione" relativa all'amministrazione pubblica.
Forse non tutti sanno che gli atti amministrativi sono di per sé pubblici e pertanto possono essere richiesti da qualsiasi cittadino. In pratica, però, l'ostruzionismo operato dagli amministratori e dai politici spesso rende quasi impossibile questo accesso. L'informazione, pertanto, che arriva ai singoli cittadini è filtrata dai mass-media e quindi parziale, deformata o per lo meno interpretata da ottiche politiche partitiche.
Il Cocipa vuole essere un modello alternativo di informazione o talvolta di controinformazione, attraverso la partecipazione diretta di comunità di base e di singoli cittadini. Strumenti di informazione e partecipazione sono stati gli incontri settimanali nella sala del Comune, nei quali si è dato forma alle richieste e ai bisogni della gente: bisogno di case, di vivibilità, di lavoro, di reinserimento, che hanno visto la partecipazione dei locandati, degli ex-carcerati, di handicappati, ecc...
Su questa base, il confronto con i politici e gli amministratori, le assemblee cittadine su temi discussi ed elaborati durante il corso dell'anno. A questi occorre aggiungere altre forme di informazione e partecipazione, come il referendum, l'appropriazione di spazi televisivi, ecc...

Il paradosso del Cocipa è che la sua promozione dall'alto, alla maniera della glasnost di Gorbaciov, lo rende più debole perché più invischiato nei tiri incrociati degli attori politici. Non è troppo smaccatamente filo-istituzionale, filo-orlando-for-sindaco, per acquisire una sua reale credibilità sociale e popolare?

Non bisogna confondere l'accidente con la sostanza. L'occasione, che ha dato luogo alla nascita del Cocipa è stata la minacciata crisi della giunta da parte dei socialdemocratici per motivi spartitori del tutto estranei ai problemi della città. Ma aldilà dell'occasione, il 20 gennaio 1988 (giorno dell'assemblea cittadina nella quale nasce il Cocipa) si è coagulata un'esigenza di informazione e di partecipazione che è il dato sostanziale del Cocipa.
La partecipazione dei cittadini alla vita politica non può essere ridotta al solo momento delle elezioni, ma esige una presenza ed un'incidenza molto più significativa, al di fuori del modello rappresentativo.
Il Cocipa vuole essere questa coscientizzazione dal basso per una reale partecipazione al governo della città. Esso, quindi, rivendica una propria autonomia, una propria logica partecipativa che va aldilà della logica dei partiti, che spesso hanno svilito gli spazi partecipativi a funzione meramente elettorale.
Il Cocipa lacchè di Orlando? No. Nella sua variegata composizione, al suo interno, conta gente favorevole alla giunta e sfavorevole "da sinistra". Seppure la nuova giunta ha rappresentato una nuova immagine della realtà politica della città, voglio ricordare che noi non abbiamo esitato ad occupare l'Assessorato alla casa quando l'assessore ha bidonato ripetutamente le richieste dei locandati, e siamo pronti a rifare l'esperienza con l'Assessorato alle attività sociali, se le richieste dei centri sociali verranno disattese.
Ricordo anche che al nostro interno si è avuto di recente un animato dibattito sul leit-motiv dell'autonomia da Orlando e da chicchessia.


Con passione nel ghetto

Gaetano e Antonella sono tra i promotori della cooperativa "La Ferula" che, nel quartiere palermitano dello "Sperone", gestisce un centro sociale del Comune. I problemi della perdurante mentalità mafiosa tra i giovani. Lo sfascio urbanistico e la deprivazione sensoriale dei bambini. Il ruolo delle donne.

Che cosa significa essere presenti come centro sociale in un quartiere di Palermo?

Gaetano - Innanzitutto, bisogna fare una precisazione sui centri sociali che in questi ultimi tempi sono venuti sorgendo nei quartieri. Il nostro, come per la verità anche gli altri, non sono in realtà veri e propri centri sociali, poiché ad esempio noi siamo riusciti a svolgere solo attività relative all'infanzia, animazione soprattutto, e quindi in termini abbastanza limitati, spesso assistenziali. Non esiste pertanto un centro sociale attivo e propositivo, rivolto a tutte le fasce di popolazione che abitano il quartiere. La nostra esperienza parziale dà quindi un bilancio misto, positivo e negativo.

Siete riusciti a farvi accettare dal quartiere?

Gaetano - Inizialmente c'è stato un netto rifiuto, sotto varie forme, per diffidenza: noi eravamo visti come i rappresentanti di una Palermo bene che "calavano" in un'altra Palermo. I ragazzini, per esempio, non capivano chi eravamo, che cosa ci andavamo a fare, cosa volevamo, si avvicinavano curiosi ma diffidenti, e con molta aggressività. Per sedarla, abbiamo dovuto dimostrare non di accettare il loro stesso piano di scontro fisico, ma di saperci muovere nelle loro coordinate senza scappare.

In altri termini, vi siete fatti "rispettare"... Non è una logica para-mafiosa?

Antonella - Non è questione di "rispettabilità" se loro sono a poco a poco cambiati nei nostri confronti, ma questione di linguaggio, perché questi ragazzini di quartiere non riescono a parlare con un altro attraverso un linguaggio verbale, non lo capiscono, ma solo attraverso un linguaggio più comportamentale, almeno inizialmente per instaurare un rapporto; provavano fino a che punto potevano comportarsi in un certo modo, provocandoci, aggredendoci, picchiando i più piccoli, e noi replicavamo accettando la prova.

Gaetano - Si creavano momenti in cui rifiutare la risposta fisica significava avere comportamenti snobistici, in quella particolare situazione...

Poteva trattarsi di un test per verificare la vostra idoneità ad un processo di iniziazione?...

Gaetano - Penso di sì; c'è questo meccanismo di prova per vedere fino a che punto stai al loro passo, ma c'è anche la verifica di quanto tu accetti loro, perché devi considerare che si tratta di ragazzi con gravi problemi di deprivazione sentimentale, affettiva, e nell'adulto tendono sempre ad identificare la figura paterna o fraterna, secondo quel che più loro manca. È una prova per vedere fino a che punto sei disposto a volergli bene e a seguirli. Ricordo un pomeriggio di grandi scontri e grandi liti, ma nonostante ciò il pomeriggio successivo li trovammo carini e affettuosi, segno che avevamo "superato l'esame" dimostrando che pur non accettando i loro comportamenti, non li mollavamo.

Che tipo di preparazione specifica avevate quando avete iniziato il lavoro nel quartiere?

Gaetano - Eravamo partiti con un progetto abbastanza preciso ed ambizioso, che veniva fuori dalle nostre esperienze precedenti, ma che è rimasto inapplicato al contatto con quella realtà specifica che ci ha condizionato. Noi avevamo lavorato insieme a ragazzi simili a questi dello Sperone, con problemi analoghi, però fuori dal loro guscio, nella Colonia Comunale; quando vai nel loro ambiente d'esistenza, cambia tutto, il codice mafioso del senso della territorialità impera nelle loro case, nelle loro famiglie.

Antonella - Questo senso del territorio è impressionante, loro stessi se ne accorgono da una strada all'altra, dove si è in campo nemico...

Gaetano - Il quartiere di Settecannoli è tra i più grandi di Palermo, ha circa 240mila abitanti, e si divide in varie zone, una un po' più vivibile al di qua dell'Oreto, una più popolare, sino a piazza Torrelunga, oltre la quale c'è il ghetto vero e proprio, vecchie case occupate, situazione degradante, che dire sottoproletaria è un eufemismo. In quest'ultima zona dove siamo noi, la divisione si fa per isolato, quasi per scala, per condominio, ed i ragazzi riprendono questi schemi tali e quali. L'indigenza culturale e sociale è molto forte, quella materiale un po' meno per via dell'economia mafiosa sommersa.

Avete avuto "interferenze" da parte degli adulti?

Gaetano - Gli adulti non interferiscono per un semplice motivo: al di sopra dei trent'anni, vi sono specie di relitti umani, figure patetiche con anni di galera già alle spalle, buttati nelle strade a giocare a carte o ad ubriacarsi. Le madri poi sono tutte a casa a badare ai dieci, dodici figli per nucleo familiare, lavorando pure per tirare avanti, distrutte a trent'anni dimostrandone il doppio, con assoluto predominio sulle figlie e assolutamente assoggettate ai figli maschi, specie se manca il padre, con un maschilismo ferreo, spaventoso.

Avete avuto problemi con la mafia del quartiere perché potevate essere di ostacolo ai loro traffici?

Antonella - I primi tempi sono venuti a controllarci, a vedere cosa facevamo con i ragazzi...

Gaetano - ...ci hanno distrutto completamente il centro, prima con atti di vandalismo da parte dei ragazzi stessi, poi anche i grandi che lo hanno svuotato portandosi via finestre, sanitari, ecc... Noi però abbiamo continuato a lavorare. Ovviamente l'omertà è stata totale, da parte dei ragazzi e degli adulti.

Ma nemmeno le madri dei bambini che stavano con voi...?

Antonella - Siamo riusciti a conoscerle solo quando siamo andati a trovarle a casa loro, dopo un certo periodo, anche su sollecitazione dei ragazzi stessi. Se non lavorano, non escono mai, per non lasciare la casa da sola.

Gaetano - Le ragazzine possono stare fuori fino a che hanno tredici anni, poi, dopo la prima mestruazione, chiuse in casa e basta, e non le vedi più, se non di nascosto, qualcheduna, la più coraggiosa...

Dopo un anno di lavoro nel sociale, riuscite a notare contraddizioni o piccoli cambiamenti in mentalità o pratiche e comportamenti che prefigurano nuove etiche collettive e individuali, terreno di sviluppo di una cultura sociale non-mafîosa?

Gaetano - Decisamente sì, e sperimentato sulla nostra pelle: all'inizio andavamo via con gran paura, prima del buio, ora invece siamo tranquilli, addirittura veniamo avvicinati ed invitati a fare altre iniziative, come il doposcuola, per esempio. Abbiamo avuto anche un incontro con la locale sezione del PCI, che ci sollecitava a fare qualcosa insieme, ma il tutto con un linguaggio ed un fare politichese, verticistico, da deputato alla Camera, e li abbiamo posati.
C'è un segnale positivo in riferimento ad un gruppo di persone che si sono aggregate su problemi specifici del quartiere, che vanno dalla viabilità alla sporcizia, alle strutture fatiscenti, hanno fatto una petizione con oltre 600 firme, ci hanno cercato e stiamo lavorando insieme su queste cose pratiche, andando anche a incontrare sindaco e assessori competenti.

In base a questa vostra esperienza, che programma vi dareste oggi?

Gaetano - Certo, abbiamo le idee un po' più chiare, stiamo preparando un programma di doposcuola per quei pochi che già vanno a scuola, come sostegno scolastico, mirato alle loro esigenze e condizioni di partenza, al fine di evitare l'abbandono. Per chi ha già lasciato la scuola, stiamo organizzando dei corsi di alfabetizzazione per permettere loro di leggere e scrivere almeno una lettera; per i più grandi ancora, abbiamo progettato dei laboratori di artigianato, dove contiamo di attirarli con la formazione tecnica e pedagogica, sperando che alla lunga si riesca a dare loro le condizioni per saper fare un lavoro, un mestiere.

Antonella - È incredibile l'assoluta mancanza di abilità manuale nei bambini e nei ragazzi così deprivati, si stupiscono se riusciamo a piantare un chiodo senza farci male.

Gaetano - Non hanno spazi fisici, ed i loro giochi sono basati sulla forza, sulla violenza, ed hanno notevoli difficoltà a coordinare i loro sforzi fisici, pure cercando a farli allenare per giocare a pallone. In questi ambienti così degradati, hanno altissimo il senso della distruttività, ma bassissimo quello della coordinazione, della costruttività. Si tratta di restituire loro una capacità di autocoordinazione tra corpo e mente, e questo è sicuramente un effetto sociale di una speculazione mafiosa nell'urbanistica dei quartieri, con grossi scompensi per la vivibilità di cui i bambini sono specchio fedele.

Il quartiere ha percepito l'esistenza di un "nuovo corso" nella giunta municipale? Come è presente lo stato? La gente richiede più stato o già basta quello che c'è?

Gaetano - No, non si è percepito nulla, perché le istituzioni locali e centrali sono totalmente assenti, a parte il nuovo commissariato di P.S. di Brancaccio. Anche rispetto ad altri quartieri di Palermo, il nostro è più degradato e più abbandonato degli altri, talvolta senza allacciamenti idrici ed elettrici.

È opportuno moltiplicare la presenza burocratica dello stato con strutture periferiche, o sarebbe meglio un'autoregolamentazione ed un'autogestione dei cittadini stessi? E come la vedreste?

Gaetano - Sicuramente sarebbe la strada migliore, ma non so se la più realistica, oggi come oggi. L'incuria degli amministratori non è mai casuale, ma voluta, e noi che siamo una cooperativa non cattolica abbiamo avuto problemi per andare avanti volontariamente. L'istituzione fa di tutto perché alcuni problemi non si affrontino, nonostante le dichiarazioni d'impegno; ritengo che questa disgregazione, questo disagio sociale sia molto funzionale al sistema; dubito che dopo quarant'anni di sistema di potere in questo modo si voglia veramente cambiare pagina. Le organizzazioni cattoliche, pur con impostazione pedagogica simile, hanno motivazione politica diversa e più congeniale al sistema, a mio avviso. Lavorando nel sociale da indipendenti come facciamo noi, non si sa dove può arrivare un processo di consapevolezza generalizzata; se lo fa la chiesa, la tutela ed il controllo sono pur sempre assicurati al sistema. C'è in atto una sorta di coordinamento tra i vari centri sociali, e mi sembra un tentativo importante, pur da minoranza critica in mezzo ai cattolici.

Dopo un primo bilancio di presenza sociale in un quartiere, cosa rimane di un centro sociale nel vostro vissuto, alla luce della vostra esperienza?

Gaetano – A me personalmente gli stimoli per rimanere a Palermo, cercando di realizzare qualcosa in mezzo alle contraddizioni senza mortificare sensibilità e tensioni.

Antonella - Ho cominciato per passione e mi piace lavorare con questi ragazzini, che riconosci, standogli vicino, che sono persone splendide, belle, ma che fanno vite incredibili anche perché nessuno ha mai fatto loro intuire che c'è un altro modo di vivere. L'abbrutimento nasce dal fatto che non hanno mai visto altre cose, altri esempi da mimare, specie per i più piccoli. Questo fa scattare rabbia, nervi, ma io continuerei.
In questi quartieri, l'unica fonte vitale, a mio avviso, sono le donne, che hanno un'energia incredibile e che potrebbero smuovere le cose, malgrado tutto quello che sopportano...

Gaetano - ...le donne sono quelle che subiscono la mentalità mafiosa, mentre i maschi ne sono i portatori...

Cogliete rassegnazione, angoscia...?

Antonella - Rassegnazione mai; quando una ragazzina di 14 anni scappa di casa , fa la "fuitina" con il ragazzo, resta incinta e segue la stessa strada di sua madre e di sua nonna, nonostante tutto mantiene una carica trasgressiva: pur non sfuggendo totalmente alla cultura mafiosa, tra accettazione e ribellione...

Gaetano - Io però ritengo che quando si prende coscienza del fatto che la mafia ha reso totalmente impossibile la vita, la capacità della donna di uscirne fuori è più forte, mentre il maschio rimane più invischiato... Qui l'emancipazione della donna è ancora una grossissima battaglia sociale da fare. I ragazzini poi non si scoprono mai, non danno soddisfazione per qualcosa, hanno imparato a prendere senza dover ringraziare o manifestare i loro sentimenti, pur non mostrarsi deboli o ricattabili la volta successiva.


Gli anarchici contro la mafia (e i suoi complici)

L'attenzione che gli anarchici hanno prestato nei confronti della questione mafiosa, sia nella sua specificità siciliana, sia in quanto struttura di dominio , non risale certo all'ultima ora. Senza voler andare a ritroso sino alla fine del secolo scorso, quando internazionalisti e massoni (allora rivoluzionari) denunciavano le prepotenze mafiose legate al latifondismo, nel nostro secondo dopoguerra, specie dopo i moti indipendentisti ed il banditismo di Giuliano legato alla strage del 1&grad; maggio 1947 a Portella della Ginestra, la stampa anarchica ha affrontato a più riprese una denunzia forte e decisa di Cosa Nostra e dei suoi traffici (spoliazione agricola prima, speculazione edilizia dopo nelle città) e dell'impotenza colpevole delle istituzioni spesso colluse sia nella sfera politico-amministrativa che in quella della magistratura.
Ricordiamo le colonne de L'agitazione del sud, il mensile anarchico siciliano degli anni '60, aperte alle denunzie circostanziate di un Danilo Dolci, così come ai libri bianchi di un Piero Riggio, per non citare che un solo nome, "offerti" alla Commissione Antimafia in pellegrinaggio ai santuari di Cosa Nostra.
Ricordiamo gli articoli sulle pagine del settimanale Umanità Nova, sin dagli anni '70 e poi, più vicino a noi, la guerra di mafia e i "cadaveri eccellenti" a cavallo degli anni '80 (rammentiamo che la redazione collegiale di Umanità Nova negli anni 1979-81 era a carico della FAI di Palermo), il maxi-processo del febbraio '86 e le analisi delle nuove strategie mafiose e dell'impegno antimafia di stato, istituzioni locali e movimenti di opinione pubblica.
Attualmente, su Umanità Nova sto curando una serie di articoli che hanno l'ambizione di fare il punto della situazione da un osservatorio libertario.
A titolo indicativo di memoria storica, riportiamo un solo articolo selezionato tra gli altri, tratto da L'agitazione del sud del gennaio 1967 a firma di Alfonso Failla (Siracusa 1906 - Carrara 1986). Failla, attivo fin da giovanissimo nella lotta antifascista, trascorse 13 anni al confino e in galera. Nel dopoguerra fu spesso in Sicilia per giri di comizi e conferenze, scontrandosi in varie occasioni con la mafia e i suoi emissari.


Con l'azione diretta

Solo la pratica dell'intervento diretto, di tutti, in ogni località, per risolvere insieme i problemi della comunità, diminuirà, fino alla totale estinzione, il potere della mafia. Lo sosteneva nel 1967 Alfonso Failla, in questo articolo apparso su "L'agitazione del Sud".

"... Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia...".
Sono parole che Leonardo Sciascia mette in bocca ad un personaggio del suo romanzo "A ciascuno il suo" che, a conferma della sua tesi, porta questo esempio: "... Una grande industria decide di costruire una diga, a monte di una zona popolata. Una decina di deputati, avvalendosi del parere dei tecnici, chiedono che la diga non si faccia: per il pericolo che verrebbe ad incombere sulla zona sottostante. Il governo lascia costruire la diga. Più tardi, quando è già costruita e in funzione, si leva qualche avvertimento di pericolo. Niente finché non succede quel disastro che alcuni avevano previsto. Risultato: duemila persone morte... Duemila persone: quante i Ragana (mafiosi, N.D.R.) che prosperano qui ne liquidano in dieci anni".
Le innumerevoli inchieste giornalistiche, parlamentari, le ricerche storiche, specie in questi ultimi vent'anni, hanno messo in evidenza le caratteristiche di "potere" della mafia per cui oggi, in Italia particolarmente, quando ci si vuole riferire al prepotere di un gruppo in qualsivoglia branca della vita sociale lo si indica col nome di "mafia". Mafia dei mercati, mafia degli appalti edilizi, mafia per il monopolio dell'insegnamento, ecc... Con ciò non vogliamo sottovalutare il danno che la mafia arreca, in modo specialmente diffuso, fino a paralizzarne la vita, in gran parte delle province occidentali della Sicilia. Il rilevare l'essenza di gruppo di potere della mafia, simile, nella pratica dell'imposizione della propria volontà, ai gruppi di potere politici, finanziari, commerciali, ecc... ci mette in condizione di comprendere il perché delle collusioni tra l'alta mafia e il governo fascista prima e, dopo, ai nostri giorni, con partiti politici che si appoggiano alla mafia per conservare il proprio potere. I quali partiti arrivati ai vertici del potere statale trovano comodo servirsi della mafia, nelle zone dove questa impera, per conservare il potere conquistato.
Perciò, anche quando non si ha fiducia nella bonifica sociale per mezzo delle leggi, com'è il caso di noi anarchici, oggi il cittadino medio è disincantato. Non crede più nella possibilità di venire liberato dalla nefasta morsa della mafia ad opera dell'azione dei governi. Ed in molti casi continua a vivere subendo il dominio delle mafia. In altri casi resiste, lotta. I lavoratori delle province occidentali dell'isola hanno lottato uniti ed hanno pagato duramente quando la mafia è intervenuta, al servizio dei padroni della terra, nelle lotte per la diminuzione della giornata lavorativa e il miglioramento dei salari, dei contratti d'affitto, ecc...Da Lorenzo Panepinto ad Accursio Miraglia, a Salvatore Carnevale, decine di esponenti del movimento proletario, di lavoratori, come a Portella della Ginestra, sono stati assassinati da mafiosi al servizio padronale. Però la lotta continua e dove i lavoratori lottano uniti hanno migliorato le loro condizioni. In Sicilia vi sono delle zone dove le condizioni di vita della classe lavoratrice non sono inferiori a quelle delle zone più progredite d'Italia.
Nel servizio sui cavatori di marmo di Custonaci, pubblicato nel nostro numero di dicembre, l'amico Nino Giaramidaro metteva in rilievo la soggezione di quei lavoratori al dominio padronale. È certo che fino a quando i cavatori di Custonaci non acquisteranno fiducia in sé stessi, non impareranno a lottare insieme, uniti, i padroni imporranno la loro legge sfruttatrice.
Il sindacato non può sostituirsi alla volontà dei singoli; quando questa si manifesta, e rende possibile l'associazione, ha inizio la resistenza, si ottengono i primi miglioramenti e si stabilisce la fiducia nel lottare uniti, nonostante le alterne vicende della lotta emancipatrice. Quando condizioni di particolare arretratezza, come a Custonaci, impediscono il sorgere dello spirito associativo nei lavoratori è necessario l'intervento dell'organizzazione operaia della zona, della provincia, a sostenere il sorgere e lo svilupparsi dell'organizzazione locale.
L'essenza del principio anarchico dell'autodeterminazione della volontà individuale, che si rafforza nell'azione collettiva, indica la via da seguire per migliorare le condizioni di vita fino alla totale emancipazione da ogni forma di sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Mentre la pratica dell'intervento diretto, di tutti, in ogni località, per risolvere insieme i problemi della comunità, diminuirà, fino alla totale estinzione, il potere della mafia. Che è della stessa natura di ogni altro "potere", politico, finanziario, militare, ecc...

Alfonso Failla
(da L'agitazione del sud, gennaio 1967)