Rivista Anarchica Online
Dossier mafia
a cura di Salvo Vaccaro
Un dossier sulla mafia non ha molte
giustificazioni da dover fornire al lettore. Anche di una rivista
anarchica. A patto di non voler trovare a tutti i costi una specifica
lettura che si sottragga dal confronto con chi il fenomeno mafioso
conosce per via diretta o per impegno totale. E ciò senza
approfittarsi sul piano mitizzato di un conflitto che, spesso,
nasconde le reali poste in palio per simularne effetti di dissuasione
indirizzando l'attenzione e la tensione su simulacri talvolta
indifendibili, talvolta alla ricerca di un nuovo make-up, talvolta
per rilegittimare surrogati in volti e nominativi non chiacchierati. L'intervista in generale,
metodologicamente lascia più spazio all'interlocutore di
quanto la domanda, anche la più puntuale e specifica, intenda
restringere il campo di risposta. Inoltre, il rischio di dare spazio
su colonne di stampa anarchica a chi, di spazio, ne ha già
abbastanza da far ascoltare la propria voce su colonne tradizionali
per posizione privilegiata o potere istituzionale detenuti, è
quasi inevitabile. L'intelligenza del lettore può comunque
compensare tale rischio prestando attenzione alla dimensione
implicita, allo scarto indicibile tra obbiettivo dell'interrogativo e
risposta elusiva, al non detto che emerge, nettamente qualche volta,
tra gli interstizi delle parole. In altri termini, una penetrazione
su un piano differente del semplice ping-pong tra intervistatore e
intervistato, senza pregiudicare intelligenza e correttezza dell'uno
e dell'altro. In tale ottica va letta la scelta di
diversificare i temi delle interviste in rapporto a impegni
differenziati su livelli paralleli, ma talvolta contrastanti, più
che in rapporto a pretese competenze, che su temi di rilevanza
sociale sono di pertinenza innanzitutto individuale quanto a
sensibilità etica ed engagement socio-politico, al di
qua di una scelta meritoria di approfondimento culturale.
Mafia e
dintorni
Bisogna sfuggire ad una troppo
affrettata equazione mafia = stato. I conflitti fra lo stato e cosa
nostra non inficiano però la comune appartenenza al mondo del
dominio. Le alternative alla logica
paralizzante degli schieramenti.
La mafia, o maffia,
come era corrente pronuncia non molti decenni or sono, ha in Sicilia
origini antiche sedimentate in una particolare disciplina mentale ed
etica interiorizzata in una cultura diffusa: lo spirito di clan
familiare, la solidarietà chiusa ed omogenea al gruppo, il
rigido senso gerarchico e gregario, l'appartenenza ed il radicamento
ad un territorio, la diffidenza verso l'ordine costituito che arriva
a soglie e forme di assoluta autonomia dallo stato (senza ricorrervi
nemmeno in caso di opportunistico bisogno), la violenza acuminata e
feroce, la ricerca d'alleanza come sicurezza interna ed esterna di
fronte alla concorrenza da espellere totalmente, il culto della forza
vincente, dell'onore coerente e vincolante (il "non potere dire
di no" a qualcuno).
Tutti questi elementi immanenti alla
cultura mafiosa disegnano un'etica solida che fuoriesce dagli
specifici ambiti dell'organizzazione Cosa Nostra, il cui nome è
già, come suol dirsi, "tutto un programma".
E in effetti le evoluzioni che Cosa
Nostra ha subito nei decenni, adeguandosi alle realtà
ambientali in cui si trova ad operare, dalle varie zone della Sicilia
alle due coste opposte degli USA, hanno modificato assetti, forme,
obiettivi e finalità cercando nel contempo di mantenere ben
saldo un patrimonio di "principi", sui quali articolarne la
continuità, che è poi il segno di una stabilità
e di una sua peculiarità.
È
questa la specificità siciliana, che la differenzia da altre
mafie altrettanto potenti come la Yakuza giapponese, o
altre mafie statunitensi (thailandese, colombiana, portoricana,
ecc.); mentre la configurazione organizzativa va omogeneizzandosi
essendo condizionata sempre di più dalle ingiunzioni di un
business e di un mercato mondiali che conformano
tendenzialmente un modello centrale e più idoneo e funzionale
alle sue esigenze di predominio. Infatti, il livello di mafia più
alto e strategicamente più temibile è ormai una
modalità di accumulazione illecita di denaro,
effettuata con metodologie violente e, se si vuole, arcaiche rispetto
alla raffinatezza di altre modalità, che rendono Cosa Nostra
sempre più affine al modello di holding capitalista, con la
quale condivide, fra l'altro, la necessità di organizzarsi
funzionalmente ed efficientemente, di dosare la disponibilità
di denaro in conto corrente e in conto capitale, di individuare
settori strategici di reinvestimento, di sostenere spese interne
organizzative per l'acquisizione ed il mantenimento di risorse
tecnologiche e umane, di sottrarsi alle ingiunzioni fiscali degli
stati cercando "paradisi" dove poter riciclare denaro
"sporco" in denaro "pulito".
Va sottolineato che dal punto di vista
della moneta capitalistica, la distinzione "sporco/pulito"
è di ordine esclusivamente morale e non economico; del resto
l'attività illecita è tale per ragioni di stato e delle
sue normative, non per la trasgressione di (inesistenti) leggi (di
mercato) del capitale finanziario. La violenza della pressione
mafiosa per accumulare denaro e stroncare la concorrenza, infine,
appare, avendo meno strumenti a disposizione, arcaica come quella
delle prime organizzazioni capitalistiche - penso alla violenza dei
gruppi di potere statunitensi del secolo scorso, o ai gruppi
capitalistici europei che riuscirono a determinare conflitti
internazionali.
Cosa Nostra, ovviamente, non è
solo una holding finanziaria, sebbene questo sia il suo risvolto più
veritiero e meno indagato dai settori superficiali dell'antimafia,
sia di stato che della società civile, più interessati
a operazioni spettacolari di immagine.
Forma-stato forma-mafia
Uno dei luoghi comuni, anche in campo
libertario, consiste nell'affermazione che la mafia è "uno
stato nello stato", per via di un consimile controllo
politico-militare del territorio. Ritengo che per meglio decifrare il
carattere di struttura di dominio della mafia occorra operare sulle
differenze con l'analoga struttura di dominio che è lo
stato, il che mi porta a distinguere una logica statuale e militare
di controllo del territorio e della popolazione (come tendenza reale
più che come verità perfettamente conchiusa: le
smagliature esistono in entrambi i potentati) che la mafia mutua
dallo stato, la quale logica come effetto di ritorno dà
un'introiezione di cultura e arroganza mafiosa in certe
manifestazioni di protervia statuale. Al di là di questo,
però, vedo solo differenze tra la forma-stato, che è
mondiale e pertiene a certe esigenze di dominio, e la forma-mafia,
che non ha diffusione planetaria (né se la sogna lontanamente)
e pertiene a esigenze di dominio leggermente diverse.
Se lo stato invera l'organizzazione che
regolamenta e disciplina la società nelle sue espressioni
ordinate, la mafia se ne differenzia perché non è né
vuole essere onnicomprensiva; perché intende assumersi gli
oneri esclusivi del dominio in vista dei propri interessi e
tornaconti economici, senza impiantare apparati ideologici di
simulazione e dissimulazione di pretesi interessi generali della
società; perché lo stesso controllo militare e politico
sul territorio di propria competenza è limitato a
manifestazioni e situazioni materiali, non certo al condizionamento
ideologico-educativo e inconscio, del tipo di strategie di
pianificazione delle nascite, di ordinamento familiare e via con
altri esempi di questa sorta che pertengono, invece, al ruolo del
dominio statuale; perché in astratto lo stato non può
permettersi un'indifferenza verso nessuna manifestazione individuale
e collettiva che ci istruisca nei processi di socialità in
vista della propria riproduzione, mentre la mafia ha meccanismi di
autoperpetuazione più semplici e rozzi; perché, infine,
la mafia non disdegna ma anzi necessita di scendere a patti, di
stringere alleanze più o meno organiche, di legarsi a
connivenze con settori delle istituzioni statali per radicarsi e
accrescere la propria potenza, mentre l'aspetto inverso non è
sempre vero, perché nel mondo la forma-stato può non
appoggiarsi a nessuna mafia.
Simulacri di retroguardia
Tutte queste considerazioni mi
conducono alla conclusione che, pur non essendo uno stato nello stato
essendo sostanzialmente di due tipologie qualitative differenti, la
mafia è un'organizzazione di dominio che definire criminale è
certamente riduttivo, giacché si insinua fisiologicamente
nelle pieghe dell'organizzazione istituzionale della società.
Risulta pertanto irrilevante la patetica disputa sulla corretta
identificazione dei rapporti tra mafia e politica, se ciò
concerne una contiguità individualizzata e individualizzabile
solo in capo ad alcuni esponenti politici, oppure se la connivenza è
organica, oppure ancora se la perseguibilità deve essere solo
giudiziaria-penale o anche morale, oppure se è sufficiente
moralizzare individui e non regole del gioco. Ed è irrilevante
giacché è proprio la forma stato a consentire una
struttura di dominio come la mafia, la quale può nascere e
stabilizzarsi solo dentro una cornice statuale, e non certo al
di fuori. È altresì vero che può esistere uno
stato senza mafia, ma indubbiamente non il contrario.
Ecco perché, a mio avviso ,
battaglie personali o antipartito sono simulacri di retroguardia sui
quali ingenuamente si scagliano movimenti sociali e civici in buona
fede - diverso discorso per i paladini di differenti cordate di
potere dentro gli apparati istituzionali che mirano a
sostituzioni e non certo a trasformazioni di regole del
gioco e sue logiche, mantenendo inalterata la statualità
della vita sociale depurata, a loro dire, dalla deviazione patologica
del cancro mafioso (da qui la metafora da telenovela della piovra in
una società che spettacolarizza senza ritegno digerendo ogni
cosa).
Una distinzione più minuziosa
fra stato e mafia conduce non solo a evitare abbagli
indotti dalla superficialità giornalistica e dagli interessi
di quei settori dello stato che lottano Cosa Nostra per operare
sostituzioni di personaggi e non per operare distruzioni di copioni,
ormai peraltro logori, ma anche a leggere le poste in palio nello
sviluppo delle strategie statuali da un lato, e di quelle mafiose
dall'altro.
Tale distinzione , fra l'altro, non
inficia la comunanza logica al medesimo ordine di dominio,
giacché non è la prima volta che la storia registra
conflitti violenti tra diversi potentati in cerca di supremazia -
conflitto non illuministico perché a fronteggiarsi non sono le
ragioni della libertà e dell'emancipazione da un lato, contro
le ragioni dell'arbitrio e del privilegio dall'altro, ma caso mai
solo le ragioni di una democrazia auspicata quanto più
trasparente ed equa possibile, nell'ambito delle possibilità
offerte dalla ragione di stato e dai suoi effetti di simulazione ben
noti, contro le ragioni (si fa per dire) dell'arroganza e
dell'opacità di un potere occulto (come lo può essere
anche una P2). Ad essere corretti, il conflitto tra
Stato e Cosa Nostra riguarda, da un lato, solo alcune fasce di
apparati centrali e periferici e di alcuni poteri dello stato, e
dall'altro quelle cosche che incontrano lo stato o la società
come resistenze alla loro espansione o come interferenza
ai loro conflitti e traffici interni per la supremazia tra bande
rivali.
Le guerre di mafia sono prima di tutto
conflitti di potere strategico ed economico dentro l'organizzazione
per il controllo di risorse, capitali, conoscenze, territori su cui
esercitare consenso, dominio, traffico illecito. Il conflitto con gli
apparati statali e/o sociali (imprenditoria, informazione, ecc ,) è
funzione del primo.
Sul versante statale, al di là
delle motivazioni individuali che animano chi si impegna a morte
(fuor di metafora) contro la mafia - che non è il caso di
investigare, se in buona o cattiva fede, se spassionatamente o mossi
da interessi contrastanti, ecc. - la motivazione della rettifica di
tendenza da un decennio in qua viene data, a mio avviso, dalla
considerazione che a lungo andare una zona franca dentro il dominio
statuale crea più contraccolpi di quanti benefici poteva
assicurare la surroga mafiosa di controllo socio-economico e
politico-clientelare. In altri termini, Cosa Nostra, sempre più
ingorda, arrogante e potente, delegittima lo stato di fronte a
capitalisti e imprenditori, pubblici e privati, italiani e stranieri,
a flussi economici concreti (si pensi al turismo di massa), ad
equilibri politici instabili in rapporto a tendenze elettorali
impreviste, tanto per fare alcuni esempi.
E, in ultimo, Mauro Rostagno
Tutto ciò fa alzare il prezzo
rendendo insostenibile per lo stato la surroga mafiosa di consenso e
ordine sociale - la mafia è sempre antirivoluzionaria, anche
quella legata ad affari con le leghe rosse -: il controllo di genti
(occupati e disoccupati, in diretta concorrenza con il sindacato), di
flussi quotidiani economici (attività di racket, estorsioni,
furti, rapine, ecc.), di grossi capitali (droga, armi), di pacchetti
elettorali, di servizi della pubblica amministrazione (si pensi che
la maggior parte degli alti funzionari al Comune di Palermo nei suoi
vari uffici è entrata in epoca cianciminiana, ed è
tuttora fedele al loro "benefattore", oltre a conservarne
habitus e disciplina mentale) rende la mafia più potente di
quanto lo stato non possa tollerare.
Di qui la politica innovata, la
magistratura all'attacco, le forze dell'ordine in prima linea, e da
qui anche la contro-risposta mafiosa: i delitti politici di Reina
(segretario provinciale DC), di Piersanti Mattarella (Presidente DC
della Regione, fratello dell'attuale ministro per i rapporti con il
Parlamento, Sergio, nonché figlio del fu ministro Bernardo
Mattarella, chiacchierato negli anni '50-60 per i suoi legami con
Cosa Nostra), di La Torre (segretario regionale PCI), di Terranova e
Chinnici (consiglieri istruttori), di Dalla Chiesa (prefetto di
Palermo), e di altri giudici, poliziotti, imprenditori, intellettuali
e giornalisti quali De Mauro, Francese, lo scrittore Pippo Fava e, in
ultimo, Mauro Rostagno.
Nonostante ciò, la questione
mafiosa è ben lungi dall'essere questione nazionale proprio
per via dell'incapacità, per non dire dell'impossibilità,
dello stato di concepire una mafia come corpo estraneo al proprio
modello di dominio, pur con conflittualità tanto accesa come
ogni giorno che passa dimostra.
E in effetti, in questa ottica, è
illusorio ritenere che la mafia possa essere sconfitta dallo stato,
se non sul piano meramente militare; ma, a questo livello, lo scontro
equivale ad un qualunque altro conflitto tra stato e capitale, e la
soluzione militare si è storicamente rivelata una scorciatoia
pericolosa e fittizia, perché anche il capitale ha le sue armi
a disposizione, e figuriamoci Cosa Nostra che, fra l'altro, fa del
commercio di armi una sua branca di esercizio economico (esattamente
come lo stato, che le produce e se le piazza sui mercati...). Senza
considerare che accettare la sfida solo sul piano militare equivale
ad un suicidio politico per uno stato che si vuole di diritto.
Voglio con ciò sostenere che
paradossalmente una lotta anti-statale e anti-capitalistica, seria e
progettata attentamente, ha più probabilità di successo
che non l'impegno lodevole ma strutturalmente insufficiente dei mille
Falcone, Sica, Orlando &Co. e ciò perché la
destatalizzazione delle attività sociali, comprese quelle
economiche e politico-amministrative, decisionali ed operative,
vanificherebbe l'attività mafiosa togliendo quell'atmosfera
dentro la quale si esercita la sua arroganza. Destatalizzando la
società, e cioè progettando forme partecipative
autogestionarie in politica, in economia, nell'organizzazione urbana,
nella gestione collettiva delle risorse, ecc., verrebbero meno gli
agganci della mafia con la sfera della politica, le clientele
consolidate ad essa inerenti, le possibilità di grandi affari
e guadagni centralizzati in capo a decisionalità accentrate,
la penalizzazione emarginante di varie azioni oggi ritenute illegali
(micro-criminalità diffusa, per esempio), e via di questo
passo.
Senza contare che il rimescolio di
carte favorirebbe una caduta di consenso, quantomeno temporanea, che
potrebbe provocare contraccolpi seri dentro il tessuto sociale,
morale e organizzativo in cui cresce e alligna la mafia. Per non
parlare del blocco preventivo a che si rinnovino clientele, sacche di
illegalità, formazioni repressive che alimentano maggiore e
ulteriore illiceità per effetto controintuitivo, allorquando
scompaiono centri di potere e questo si disloca capillarmente
decentralizzandosi in mano a diversi organismi periferici,
accentrati, a grande partecipazione.
Ma quale "laboratorio
politico"?
Tale ipotesi paradossale, che qui si
abbozza soltanto per ovvi motivi di spazio, trova ulteriore appoggio
nel riscontro con i movimenti antimafia dell'opinione pubblica e dei
settori istituzionali coinvolti, quale emerge dalle interviste
effettuate per questo dossier, che segnano il livello della
controffensiva sociale e statale in atto. Non c'è,
sinceramente, da essere entusiasti.
Non ho mai creduto a Palermo come un
reale "laboratorio politico" di mutamento, giacché
le anticipazioni politiche sul piano locale di "novità"
poi nazionali (centrosinistra negli anni '60 , coinvolgimento del PCI
verso la metà degli anni '70, ed oggi la giunta "anomala"
con le figure esponenziali dei movimenti) si sono rivelate per quelle
che erano: escamotage di sopravvivenza di una politica iperreale,
lontana, rarefatta, in cerca di effetti di illusioni per attirare
ulteriormente gente al proprio botteghino di vendita, ostile al
cambiamento sociale qualitativo e profondo. Se Palermo è un osservatorio
privilegiato, nonostante i pericoli di deformazione ottica per via
dell'estrema vicinanza dell'osservatore all'osservato, occorre andare
sagacemente contro-corrente, stando attenti, per parafrasare Woody
Allen, a non...prendere la scossa, finendo con il confondersi con
l'opposizione socialista (sic!) o peggio con la posizione mafiosa e
filo-mafiosa. Fondamentalmente, Palermo è una città
spaccata (Mafia vs. Antimafia, Antimafia X vs. Antimafia Y),
dall'etichettatura manichea facile (con una velocità degna
della pistola più svelta del Far West...); inoltre, a
sottrarsi a questo manicheismo si corre il rischio di essere
seppelliti da entrambi i lati, senza nemmeno accorgersene.
L'ingiunzione a schierarsi è tipica di ogni ingiunzione, dove
si è più colpevoli e malvisti se si rifiuta o si
obietta di preferire e praticare altre scelte che non per aver scelto
una posizione antagonista all'interlocutore di turno, che almeno così
sa con chi ha a che fare. Naturalmente, si parla di scelte da fare
nel campo dell'antimafia, dando per scontato in questa sede
che i mafiosi (con i filo-mafiosi a sostenerli accanto) praticano il
saggio stile di primum agire, deinde parlare, (e non
viceversa, come certa retorica di regime). L'antimafia istituzionale
e l'antimafia sociale, quella dei movimenti d'opinione osteggiati
dalle linee editoriali del Giornale di Sicilia, per
esempio, vanno a braccetto, finendo con l'invadere l'uno il campo
dell'altra. Ovviamente, i movimenti così si snaturano
prestandosi a subordinarsi implicitamente alle direttive altrettanto
implicite di chi tira le fila della strategia antimafia
politico-istituzionale.
Prova ne sia la ritrovata centralità
nel gioco politico della DC di Orlando e Mattarella, l'egemonia
culturale dei gesuiti di padre Sorge e padre Pintacuda, la potente
lobby democristiana della CISL (che elegge palesemente propri
deputati in Parlamento, che condiziona cariche istituzionali e
partitiche); e di contro, l'arroccamento socialista ad un'opposizione
politica alla ricerca di nuove verginità (dato il potere del
sotto-bosco governativo grazie agli anni di gestione
politico-clientelare nello stesso Comune), lo sbandamento del PCI e
della sinistra storica e meno storica (CGIL compresa), che oscilla
tra anima fiera e affarismo consociativo (con tutti, DC limiana e
andreottiana alla Provincia, DC orlandiana al Comune), l'evanescenza
del movimento verde (al di sopra di ogni sospetto l'assessore
comunale alla vivibilità: ma una grande fotografa non fa
"istantaneamente" un forte movimento sociale di base), la
subalternità dei movimenti cattolici di base, autocondannatisi
a rientrare prima o poi, armi e bagagli, nel partito-madre
democristiano (con l'imprimatur del Cardinale Pappalardo).
Rigettare l'ingiunzione
L'intelligenza di Leoluca Orlando ha
portato la DC al centro inespugnabile, almeno al momento, vista la
sua notorietà internazionale. Ma la sua sfida di aprire ai
movimenti per giocarli come carta nello scambio politico a
lungo termine con quella parte della DC ostile alla nuova cordata di
potere - il che non diminuisce la tensione etica dell'impegno
antimafia di Orlando, dei gesuiti e di altri quarantenni, però
la inquadra in un processo di sostituzione di quadri di potere e di
metodi di gestione statuale della cosa pubblica - la sfida del
sindaco, si diceva, è abile per un terzo motivo, che dovrebbe
interessare più da vicino noi anarchici, estranei da sempre
agli squallidi giochi di parte: Orlando incarna
nell'immaginario sociale il punto di slittamento
interno al sistema ed alla logica statuale che mira ad un
cambiamento (preteso) qualitativo a partire e restando
dentro i confini del sistema stesso.
In questo senso, né un eventuale
senno del poi, né una reiterata lezione storica che lo
condannerebbe senza appello, salvandone la buona e ingenua volontà
di trasformazione neoriformista, seppure di alto profilo, sono
sufficienti per contrastare nei fatti una seducente progettualità
cattolica (e gesuitica) che promuove solidarietà, movimenti,
sensibilità verso i deboli, forti temi di impegno sociale e
internazionale, salvo poi a ricondurre il tutto al proprio progetto
di identità politica (e ciò vuol dire, in concreto,
trasparenza municipale, spazio per tutti, illusione del decentramento
e della partecipazione, dialogo con tutti, esercizio "illuminato"
dei potere, primato del politico "intelligente", gestione
amministrativa in linea con il sistema di potere nazionale).
Rigettare l'ingiunzione a schierarsi per una delle cordate antimafia
può avere un effetto solo se, nel contempo, si matura un
progetto sociale su Palermo capace di collegare su piani non
istituzionali i movimenti di base per strappare spazio sia alla
gestione mafiosa del potere, sia alla gestione istituzionale
(sindacati compresi) del potere, per arginare e ributtare sia la
presenza militare della mafia sul territorio, con la conseguente
militarizzazione diffusa di una società terrorizzata dalla
violenza cieca e imprevedibile, sia la presenza militare dello stato
- il che vuol dire anche gli F16 in Calabria - con la conseguente
chiusura di possibilità estranee al sistema tramite il
monopolio preventivo della forza fisica (per parafrasare Max Weber).
È
stato difficile riuscire a conservare un margine di agibilità
mentale e politica quando, negli anni di piombo, l'ingiunzione era di
scegliere tra stato e brigate rosse, e alcuni di noi anarchici
coniammo lo slogan "Contro lo stato, contro le BR" (diverso
non poco dal simile "né con lo stato, né con le
BR", anche se entrambi dichiarazioni verbali); è
difficile oggi aprire un fronte di lotta sociale sui due versanti
dello stato e della mafia. Se i movimenti di base sapranno incarnare
la propria identità senza svendere il loro ruolo e la loro
dignità alle seduzioni del potere, sarà possibile che
esperienze attuali, ambigue e contraddittorie, quali il comitato dei
cittadini per l'informazione e la partecipazione (Cocipa), possano
decollare aprendosi un reale varco tra la morsa di un'invadenza
mafiosa mortale e una presenza pervasiva statale oggi disponibile
verso tutti (dall'alto del suo progetto in via di realizzazione). Diversa è la funzione e
l'obiettivo di una progettualità sociale che sappia trovare
soluzioni inedite per vecchi problemi, metodologie antiautoritarie
per formazione di decisionalità politica collettiva, forme
autogestionarie per restituire primato e responsabilità
d'agire individuale e collettivo al singolo individuo, e non a entità
elettorali chiamate a delegare la qualità del proprio futuro e
della propria vita ai nuovi stregoni delle regole di un gioco del
dominio sempre vincente.
Al di fuori dei partiti
Carmine Mancuso è il
presidente dell'Associazione coordinamento antimafia di Palermo. In quest'intervista riassume il
senso della sua attività politica e risponde agli
interrogativi sul rapporto con le istituzioni, sul mondo
dell'informazione, sugli imbarazzati silenzi di fronte a certi
comportamenti delle forze dell'ordine.
Siete stati accusati, e da più
parti non tutte al di sopra di ogni sospetto, di essere
"professionisti dell'antimafia" in cerca di
facile carriera. Cosa significa "fare antimafia"
per chi non è preposto istituzionalmente a ciò come
magistratura, forze di investigazione, ecc...?
Come premessa, diciamo che la mafia è
un fenomeno complesso perché racchiude in sé molte
sfaccettature; ma oltre ad essere un fenomeno criminale, è
anche politico, e quindi culturale, tant'è che noi riteniamo
che ogni omicidio di mafia è si un'espressione criminale, ma
anche e soprattutto un'espressione politica giacché sarebbe
assurdo pensare che uccidendo Mattarella, La Torre, un poliziotto, un
magistrato, Rostagno, quindi le varie espressioni dello stato e della
società civile, non ci sia una volontà politica, e
pertanto l'esistenza di un cervello politico della mafia, non solo
qualcosa di organizzativo a livello di cosche, ma su tutte non un
Grande Vecchio, ma un Comitato d'affari internazionale che regola gli
interessi politico-mafiosi, che non possono essere quelli di Michele
Greco, ma di persone molto più in alto, e non limitate alla
Sicilia.
A pensare di poter combattere la mafia,
non dico batterla che può essere in questo momento un'utopia,
dovrebbe essere una coalizione di varie forze: la magistratura e le
forze repressive, alle quali dovrebbe affiancarsi un'azione
politico-amministrativa, supportata a sua volta da una culturale.
Quindi noi, gruppo di semplici cittadini, ognuno inserito nella
propria attività sociale, abbiamo pensato, nel nostro piccolo
di minoranza morale quale siamo e a cui ci ispiriamo, di cominciare
ad agire sotto l'aspetto culturale per essere espressione
d'avanguardia di questo rinnovamento della cultura in Sicilia ed a
Palermo soprattutto. Ecco perché rifiutiamo l'epiteto o
l'attributo di "professionisti dell'antimafia", non essendo
espressione di alcun gruppo di potere né volendo trarre
vantaggi come comitato da questa lotta alla mafia.
Ma non c'è il pericolo di
un'infiltrazione, nel movimento anti-mafia, di forze politiche o
sociali, o addirittura di Cosa Nostra stessa, che tendono a
sostituire una cordata di potere con un'altra?
Effettivamente il pericolo esiste, io
personalmente sono diffidente verso le persone anche se ho
un'apertura mentale da laico. Sta alla forza delle idee o alla
volontà di lottare per i propri principi, alla fiducia in se
stessi, respingere il pericolo, in un gruppo, eterogeneo come
identità, ma coeso come volontà di operare, di 400-500
aderenti attuali, non dando possibilità di spazio
all'infiltrato. Questa fiducia, questa onestà intellettuale
che contraddistingue chi ha aderito a questa associazione o al
movimento sono il migliore antidoto per scongiurare il pericolo.
Voi siete partigiani di una logica
d'emergenza, per la quale non occorre andare per il sottile, perché
"à la guerre comme à la guerre", con il
conseguente manicheismo degli schieramenti e dei sospetti (o di qua o
di là). Non c'è il rischio di alimentare confusione e
commettere gravi errori? Dato il carattere secolare dell'arroganza
mafiosa, come si può sostenere una logica d'emergenza di un
fenomeno in crescita ma sicuramente non inedito?
La mafia non è affatto
un'emergenza, anzi rischia di diventare un fenomeno fisiologico. Se
riusciamo a distinguere la strategia che riporta la mafia ad
un'emergenza incombente che può essere lottata e sconfitta con
l'applicazione di leggi eccezionali, allora sarebbe come rivolgere
l'arma non contro il nemico, ma contro se stessi; noi non accettiamo
questa impostazione, né quella che considera la mafia come
fenomeno fisiologico. La mafia, come fenomeno complesso, deve essere
combattuta in maniera univoca sia dalle forze istituzionali
(politica, magistratura, polizia), sia soprattutto dal cittadino, che
si deve emendare da questa cultura così impropria, così
aberrante. Noi siamo dei fautori della questione morale perché,
se è vero che la moglie di Cesare deve essere al di sopra di
ogni sospetto, a maggiore ragione lo deve essere Cesare; oggi, nella
vita quotidiana, abbiamo visto che Cesare non è al di sopra di
ogni sospetto, anche nel campo delle forze istituzionali preposte
alla lotta alla mafia: magistrati corrotti, a Trapani il giudice
Costa, a Catania i magistrati Vitale e Pennacchio, per i quali la
sentenza di primo grado ha accertato un rapporto organico con forze
malavitose se non proprio mafiose.
Occorrono esatte cognizioni per lottare
contro la mafia e le sue articolazioni, non emergenze o poteri
eccezionali attribuiti, ad esempio, all'alto commissario Sica -
contentino dato all'opinione pubblica; la mafia va combattuta con
l'impegno quotidiano del cittadino consapevole dei propri diritti e
doveri, e dello stato nelle sue espressioni.
Quali elementi vi inducono a
confidare nelle istituzioni locali che solo in alcuni uomini, e non
certo nelle regole né nelle pratiche collettive, assumono un
impegno, peraltro generico, contro la mafia? La questione morale è
una questione di individui onesti al posto di disonesti, o è
piuttosto una questione di regole del gioco da cambiare?
Il nostro processo democratico è
un po' logoro dopo 40 anni; qualche regola va cambiata, e in
positivo, ma il rapporto conflittuale tra i partiti non dà
chiarezza al dibattito in corso, specie dal punto di vista del
cittadino che non riesce ad entrare appieno dentro la disputa
politica tra, per esempio, Craxi e De Mita. La conseguenza usuale è
che "la politica è sporca" e che i "politici
fanno polvere proprio per mistificare e nascondere il fatto che essi
fanno ciò che vogliono". Noi siamo favorevoli ad una
Politica con la P maiuscola, restituita al cittadino, ad uno sviluppo
democratico partecipativo oltre che rappresentativo; siamo contrari
alla democrazia consociativa, agli unanimismi che fanno degenerare i
processi democratici. Ognuno mantenga la propria autonomia, la
propria caratteristica, e poi si trovino i momenti di sintesi al di
là degli interessi settoriali, corporativi, singolari.
L'associazionismo nasce da questa crisi della politica, da questo
bisogno di restituire la politica ai cittadini, dal bisogno di buon
governo delle città, di controllo cittadino di potere locale,
spesso succube di modelli centrali distanti dalle esigenze appunto
locali; il cambiamento deve andare verso l'interesse collettivo di un
nuovo modo di vivere nelle città, di fare fronte alle
condizioni di bisogno delle donne, dei bambini, degli anziani, di
combattere l'alienazione, la droga, la vivibilità del
traffico, degli agglomerati dei centri storici o delle periferie
degradate.
Questi cambiamenti passano
attraverso le istituzioni per come esse sono, o attraverso altri
percorsi?
Parlando dei grandi temi, delle grandi
strategie, i tre poteri per i quali si costituisce il nostro sistema
non vacillano, non vanno messi in discussione. Il punto sta negli
uomini che li rappresentano e li interpretano. Il processo di
rinnovamento passa attraverso le istituzioni, così come la
questione morale che deve toccare non i discorsi ma le persone.
Avete una fiducia cieca che la
repressione giudiziaria e poliziesca giunga a qualche risultato
definitivo. Ma essa ormai colpisce rami già bruciati di Cosa
nostra, e da un punto di vista di rinnovamento qualitativo etico, il
carcere non è mai stato una soluzione di problemi, ma solo una
loro deviazione forzata e controproducente. Reprimere oggi diventa
"bello" se è diretto contro la mafia? Non temete che
se passa questo criterio, un domani l'imputato di turno non avrà
alcuna chance di difesa dallo stato?
Il primo maxi-processo di Palermo non
ha risolto il problema mafia; la capacità repressiva dello
stato, anche quando concorre nella sua interezza per un certo periodo
di tempo, non è sufficiente. L'azione morale nella società,
nelle famiglie, nelle scuole, nei giovani, è importante per il
bagaglio futuro di doti politiche e morali. Diamo al processo il
ruolo che gli pertiene in quanto momento repressivo; se alla
repressione non si affianca un'azione politico-amministrativa e
culturale, essa non è affatto risolutiva.
All'interno delle forze dell'ordine
serpeggiano malumori, rabbia, arroganza, intolleranza, confusione.
Questo solitamente, qui poi tutto è ingigantito dalla posta in
palio e dalla tensione quotidiana. Anche in questo campo, sembra che
nessun dubbio aleggi, e alcuni esponenti sono al di sopra di ogni
sospetto, sebbene la loro professione li porti ad operazioni non
sempre pulite; il caso Marino è esemplare: non sono stati
proprio i "vostri" zelanti tutori dell'ordine, che
rischiano la vita, a strapazzare oltre il "lecito" Marino,
cioè fino ad ucciderlo? E l'imbarazzante silenzio tutt'oggi
perdurante non è un secondo "omicidio"?
È indubbio che l'uniforme non fa
l'uomo onesto: il corpo di polizia non è il giardino dei
principi. Dal suo ruolo non discende che ogni singolo sia una persona
per bene; se uno devia, allora il giudizio deve essere drastico. Da
alcuni anni in qua, le condizioni di vita entro i corpi di polizia
sono migliori, precisamente dal '68 in poi, con la democratizzazione
interna e la sindacalizzazione. Questo non salva l'intera polizia; il
caso Marino mostra non un malessere, ma uno stato d'aberrazione
mentale, di follia collettiva.
Questi corpi dello stato non sono
alieni dalla contiguità, dall'inettitudine, dai rapporti
organici con Cosa nostra. La critica riguarda però uomini,
sottoposti al giudizio morale e legale. Manca anche l'esempio cui
riferirsi: se un ministro come l'attuale on. Gava, che deve stimolare
l'operato delle forze di polizia secondo il dettato costituzionale, è
tacciato di un grande sospetto quale quello di essere molto vicino e
congeniale alla camorra (vedi il caso Cirillo), non ci si può
meravigliare dei suoi sottoposti. Il caso Marino non deve però
portare a un discredito di tutto l'apparato istituzionale della
polizia, non considerando il lavoro coscienzioso dei suoi operatori
contro la mafia, che pure hanno pagato a caro prezzo. Bisogna considerare con serenità
l'operato del corpo di polizia, e di volta in volta denunciare con
fermezza le anomalie che vi si creano.
Qual è l'impegno del mondo
dell'informazione scritta e orale? Quali possibilità ha
un'opinione pubblica disinformata e ormai abituata a delegare tutto,
anche il controllo logico di fatti, dati ed eventi, e loro riscontri
incrociati, alle istituzioni preposte, di poter incidere sul tessuto
concreto della società?
Noi abbiamo denunciato l'esistenza di
interessi economici, non immediatamente mafiosi, nel Giornale di
Sicilia attraverso la ricostruzione del suo atteggiamento nei
confronti di fatti di mafia e della lotta ad essa, anche sul versante
giudiziario; Costanzo, l'imprenditore catanese citato da Calderone
nelle sue deposizioni, ha lanciato un messaggio oscuro, affermando di
avere delle partecipazioni azionarie in numerosi giornali, anche non
locali, il che è possibile mediante incroci.
Dall'altro lato, esiste una stampa che
ha permesso all'opinione pubblica di seguire i vari sviluppi dei
fatti di mafia, o le varie sequenze della lotta alla mafia, e ciò
grazie alla forza morale di alcuni giornalisti, e grazie al ruolo di
direzioni oculate e attente.
Ma il pericolo più grosso è
la possibilità di condizionamento da parte della politica o di
poteri occulti sui gruppi editoriali al punto di deciderne non solo
la rotazione dei direttori, ma anche la destinazione degli inviati,
lo spazio da dedicare a problemi dati, il numero e il taglio degli
editoriali. L'antagonismo editoriale degli interessi economici
contrapposti, invece, produce effetti positivi nel senso di allargare
gli spazi di libertà del giornalista. Più che memoria della cronaca,
l'opinione pubblica dovrebbe avere più memoria storica per
evitare la riscrittura della storia ed il proprio imbavagliamento.
Per quanto riguarda Palermo, i due
giornali (Giornale di Sicilia e L'ora) cercano in tutti i modi di non
far arrivare alla gente dati certi e reali riguardanti alcune
operazioni politiche quali gli appalti, la ricostruzione del centro
storico , la modificazione della costa; per determinare i giochi su
questi eventi emblematici bisogna far zittire le testate. Sinché esisteranno associazioni
e movimenti estranei ai partiti, il cittadino può associarsi e
verificare come l'informazione propinata non è assolutamente
informazione.
Se lo
dice Orlando
Il "problema Palermo" di
fronte alla crisi del centralismo. Il rischio del localismo e gli
effetti dello sfascio urbanistico. La mafia nelle istituzioni. Il sindaco DC la pensa così.
Leoluca Orlando, DC, professore
universitario, scuola cattolica alle spalle presso i gesuiti, sindaco
di Palermo dal 1985. Lo abbiamo intervistato in tempi non sospetti,
nel lontano novembre 1984, per un ciclo di trasmissioni radiofoniche
nel circuito regionale della RAI intitolato "La questione dello
stato ed i suoi riflessi nelle aree periferiche locali"; e nel
maggio 1986 per un altro ciclo analogo intitolato "Muffe di
mafia". Riportiamo uno stralcio di quelle conversazioni che
forniscono alcuni elementi di comprensione della sua figura e della
sua attuale strategia politica e culturale.
Per quale motivazione c'è
tanto interesse per le realtà locali?
Il sistema centralizzato si è
rotto, lo stato si è rotto, ed oggi il ruolo che prima
ricopriva lo stato viene svolto dalla città, e la sfida al
governo non è più una sfida statale, ma una sfida
urbana; cioè la gente si accorge della qualità delle
risposte della pubblica amministrazione valutando i comportamenti del
sindaco, non del ministro, rivolgendosi al palazzo comunale e non più
al ministero.
Il pericolo è che si crei una
sorta di recinto, che prevalga una impostazione deteriore del
localismo, che si ritenga autosufficiente in energie, consensi,
intelligenze, risorse per programmare il proprio sviluppo. Palermo è
una città dove si corre il grosso pericolo di chiudersi al
resto del mondo, dove tutto rischia di diventare "civico",
nell'accezione più riduttiva del termine, e noi sappiamo che
in una città come Palermo il localismo si connota di
sottosviluppo, si connota di mafia.
Come si attua questa rottura?
C'era la tesi che lo stato fosse un
megantropo, cioè un grande uomo i cui criteri di giudizio sono
gli stessi per valutare un uomo. Oggi lo stato non è più
un centro coerente, esonerato dal principio di non contraddizione,
tutt'altro, lo stato diventa il luogo di sintesi delle diverse
società locali. Non esistono un luogo e un modello ottimali di
formazione del consenso e del potere, ogni realtà ha i suoi
luoghi ed i suoi modelli.
Noi subiamo o meno questo processo
di sfaldamento del centro? Non è che il locale ha assunto le
stessi vesti e le stesse logiche del centro?
L'economia e l'informazione culturale,
alcuni temi come la pace, il diritto alla vita o alla qualità
della vita sono sicuramente sovranazionali, e ciò ha prodotto
la rottura del centro statuale, che recupera un proprio residuo di
statualità proprio nella politica e nell'amministrazione, nate
e disegnate con il riferimento al recinto-stato e rifugiatesi oggi
nelle società locali, un tempo periferiche. Oggi abbiamo un
sistema policentrico dove ogni società locale tende ad essere
nello stesso tempo centro e periferia di tutto.
Come si supera questo residuo
arcaico?
La politica e l'amministrazione, nella
nostra realtà, devono dimostrare di non essere avversari della
modernizzazione. In che cosa consiste la modernizzazione nella città
di Palermo oggi? Io credo che la modernizzazione passi attraverso la
ricostruzione di un'identità di popolo; Palermo negli anni
precedenti, negli anni '50-'60-'70 è stata una città
senza popolo, una sorta di recinto al cui interno convivevano alcuni
popoli che provenivano dalla provincia. Così si spiega il
decadimento del centro storico, che non ha avuto alcun significato
per questi popoli che avevano come riferimento la piazza, la chiesa,
le strade del proprio paese, e che nel modello urbano più
consueto cercavano un palazzo in condominio con l'ascensore, il
portiere, il citofono e un grande ingresso.
Su queste cose si è inserito il
meccanismo della speculazione edilizia, del parassitismo mafioso, che
hanno trovato terreno fertile nella mancanza di un popolo. I tanti
popoli diversi che convivevano in questo recinto hanno raggiunto un
contratto tra di loro su interessi forti: la casa e il lavoro; e in
una realtà precaria e meridionale, la casa e il lavoro sono
anche speculazione, parassitismo, clientelismo.
Da alcuni anni in qua, anche per il
bisogno di difendere la propria immagine in una dimensione nazionale
a fronte dell'escalation mafiosa che rende facile l'identificazione
Sicilia=mafia, va crescendo il numero di gente che cerca di fondare
la propria identità sul futuro: sta sorgendo un unico popolo
palermitano; non è facile, è un processo lungo, ma è
una condizione per l'affermazione di un modello urbano.
E il risanamento dei
quattro mandamenti del centro storico?
In effetti, nei quattro mandamenti, nel
1951, vivevano 130.000 persone, nel 1981 38.000, non più 1 su
3, ma 1 su 20 è un cittadino del centro storico.
Cosa è accaduto? Proviamo a
schematizzare. Nel centro storico abitava l'aristocrazia che dava
senso alla struttura di consenso e di potere raffigurato dai vecchi
palazzi aristocratici: al primo piano stava il nobile, sotto e sopra
stavano i clientes, coloro che vivevano all'ombra e attorno al
potente. Quando l'aristocrazia scommette su due scelte storicamente
sbagliate, la monarchia e l'indipendentismo, viene tagliata dai
circuiti di potere della città, scoprendo di non appartenere
più alla categoria degli intoccabili, scoprendo che il figlio
del proprio campiere, eletto deputato o consigliere comunale, non
garantisce più l'aristocrazia. La borghesia aveva già
iniziato agli inizi del secolo a lasciare il centro storico,
scommettendo sul liberty e su un'urbanistica che la emancipasse dal
ricordo del proprio asservimento all'aristocrazia. Vogliamo poi
rimproverare il proletario che, vivendo nel centro storico di
Palermo, dovendo scegliere tra un tugurio nei quale piove dentro e un
anonimo appartamento in un anonimo quartiere dormitorio, sceglie il
secondo? Magari poi manderà il figlio o la figlia dallo
psicanalista per curarsi dall'alienazione del vivere in un ghetto, ma
intanto si ripara dalla pioggia, anche perché non ha più
senso vivere in un vecchio palazzo nel quale piove dentro quando al
primo piano non abita più il potente.
Io non disconosco l'effetto trainante
della speculazione edilizia connessa alla mafia; ma io mi chiedo per
quale ragione la speculazione, che in tutti i paesi del mondo
aggredisce per primo il centro storico, essendo i palazzinari la
seconda generazione, a Palermo inverte il processo. Io rispondo
perché mancava un popolo.
Cosa può fare il mondo della
cultura, in particolare l'università, per contrastare un certo
predominio mafioso?
Non c'è dubbio che il primo,
specifico ruolo dell'università, nelle sue diverse discipline,
sia quello di conoscere la mafia; come l'università a Palermo,
in Sicilia ha il compito di conoscere lo scirocco, il terremoto, la
talassemia, così ha il compito di conoscere la mafia. Ma
questo è certamente un ruolo minimale. La mafia è anche
un sistema di segni culturali, ed è anche un modo di
organizzare il consenso culturale in un determinato momento storico,
in una determinata regione. Estremizzando, il ruolo dell'università
può prescindere dal fatto che siamo a Palermo con la mafia, ma
non c'è dubbio che una università poco qualificata, che
non promuove professionalità, cioè capacità di
confronto con realtà altre in campo nazionale e
internazionale, a Perugia, per fare un esempio, produce solo caduta
di prestigio su quell'ateneo, su quel dato docente; a Palermo,
invece, il difetto di professionalità non è complicità
con la mafia, stiamo attenti, ma nei fatti fa perdere un'occasione di
cultura alternativa, che possa avere futuro. Oggi più di ieri
la mafia sembra essere una struttura, una mentalità, un modo
di vivere che in sostanza si colloca, nella dimensione del tempo,
come un eterno presente, nella dimensione dello spazio, come un
eterno confinamento in una realtà chiusa. Riuscire a rompere
la dimensione del tempo dandosi un futuro, e quella dello spazio
uscendo fuori dall'isolamento, è probabilmente un modo per
l'università di essere se stessa oltre che contro la mafia.
Un sapere e un sapere-fare, allora:
ma non le sembra che tali caratteri debbano risultare da condizioni
strutturali date da nuove regole del gioco, e non dalla maggiore
onestà o capacità dei singoli?
Una caratteristica propria
dell'impostazione mafiosa nei rapporti umani è che il
sentimento prevale sul comportamento; ciò che è
importante nei rapporti tra le persone è il rispetto, la
devozione, l'amicizia, e non il comportamento: uno schiaffo ricevuto
da un amico è tollerato, un gesto appena poco riguardoso da
parte di uno che amico non è non è assolutamente
tollerato.
Voglio con ciò dire che i
comportamenti non hanno un loro autonomo rilievo. Pertanto non basta
la conoscenza, ma è necessaria la fattualità, la
proiezione della conoscenza in una integrazione di vita civile, che è
quello che io chiamo professionalità, cioè il conoscere
collegato al momento storico, ad un modo di vivere.
Più stato, meno mafia: questo
è slogan ricorrente. E le costanti interferenze tra stato e
mafia? Non è più logico restringere il campo di
presenza statuale per sottrarre spazio alle occasioni di continuità
o di cointeressenza con la mafia?
In un sistema nel quale il mondo della
cultura sia scollegato dagli interessi quotidiani della vita della
gente, in un sistema nel quale si ridimensionano i compiti pubblici,
della pubblica amministrazione, però di contro non si
organizzano gli interessi privati in maniera moderna, si ha un bel
dire che si è contro la mafia, perché alla fine
inevitabilmente si sarà fagocitati in un sistema nel quale
domina l'interesse forte non pubblico, ma privato di un certo tipo.
Io insisto sulla rottura dell'isolamento: se noi oggi riduciamo il
ruolo delle pubbliche amministrazioni nella nostra realtà,
rischia di prendere piede un privato non moderno. È
vero che occorre ridimensionare il pubblico, ma contemporaneamente
immettere il privato in un circuito nazionale e internazionale che
ristabilisca quelle regole di una società che non è
sempre quella palermitana. In soldoni, l'alternativa sembrerebbe
essere tra l'indebolimento del comune, della regione, ed il
rafforzamento di che cosa? Di quale privato? E su quali valori?
Allora, diminuiamo l'influenza della pubblica amministrazione, ma
esaltiamo al massimo l'immissione della realtà culturale,
teatrale, commerciale, economica, sociale.
La mafia
finanziaria
Il complesso
finanziario-industriale consente, grazie anche al segreto bancario e
ai paradisi fiscali, una simbiosi tra capitali legali ed illegali. Il nodo mafia-affari inquadrato
nella dinamica delle economie capitalistiche. La droga e il traffico di armi sono
ormai decisivi per l'emergere di centri finanziari di importanza
mondiale.
Umberto Santino è presidente
del Centro di documentazione "G. Impastato".
Ha pubblicato numerosi saggi sulla questione pacifista
e sulla mafia. Insieme a Giorgio Chinnici ha scritto "L'omicidio
a Palermo e provincia (1960/66-1978/84)",
Università degli studi di Palermo, 1986. Ha in preparazione un lavoro sulla
mafia finanziaria.
Oggi la mafia è sempre
criminalità organizzata o ha assunto vesti finanziarie a
dimensione mondiale, che utilizza arcaicamente ancora strumenti
criminali?
È tutt'e due le cose, nel senso
che le organizzazioni criminali (la mafia più che una
monarchia è una repubblica federale, cioè ci sono
parecchie organizzazioni che hanno un "sistema relazionale"
basato sul coordinamento, ma tra cui esplodono ciclicamente fasi di
conflittualità acuta) sono al centro di un sistema di
accumulazione e di potere che lega insieme aspetti illegali e legali.
Il ricorso all'omicidio, quella che ho chiamato la "strategia
della violenza", è certamente un retaggio storico, il
frutto di una cultura arcaica, ma è anche funzionale ai
compiti economico-politici che sono andati sempre più
sviluppandosi negli ultimi anni. Non che la mafia prima non avesse un
ruolo economico-politico ma la "mafia finanziaria",
denominazione che ho proposto per la mafia dagli anni '70 ad oggi,
molto più appropriata di quella di "mafia imprenditrice"
che si attaglia più alla mafia degli anni '60, ha incrementato
moltissimo la sua accumulazione e conseguentemente mira a occupare
spazi sociali e politici molto più estesi che in passato.
La delittuosità degli ultimi
anni, in particolare a Palermo, dove insieme al lievitare della
conflittualità interna, che ha avuto il suo picco nella guerra
di mafia degli anni 1981-1983, si è avuta l'esplosione della
conflittualità esterna, con l'uccisione di un segretario
regionale del PCI, di Dalla Chiesa, di un sindaco, di magistrati e
poliziotti, si spiega con la "gara egemonica" che i mafiosi
hanno combattuto tra loro ma anche con singoli personaggi e settori
istituzionali che "si sganciavano" dall'alleanza con la
mafia o rappresentavano un ostacolo ad un processo di espansione del
fenomeno mafioso mai prima registratosi. Per capire la mafia di oggi
bisogna perciò collegare la dimensione locale con quella
internazionale e l'aspetto criminoso con quello finanziario e
politico.
Qual è il nodo affari-mafia?
È solo opportunismo parassitario oppure arroganza ingorda di
appalti?
Aspetti parassitari e imprenditoriali
convivono ma da una ricerca vicina alla conclusione del Centro
Impastato risulta che la dimensione imprenditoriale è limitata
rispetto alla portata dell'accumulazione.
La mafia finanziaria è una
grande corporation, l'impresa mafiosa quale risulta dagli
accertamenti patrimoniali in attuazione della legge antimafia, se si
tolgono due grandi gruppi, quello Virgilio-Monti a Milano e quello
dei Salvo in Sicilia, è piccola, marginale, spesso con mere
funzioni di riciclaggio del denaro sporco. Certo, il terreno degli
appalti, e in particolare dei subappalti, è stato e continua
ad essere, in forme camuffate, importante per capire il nodo
mafia-politica-pubblica amministrazione.
Per quanto riguarda i grandi appalti,
oggi bisogna guardare alle infiltrazioni mafiose nei "consorzi",
cioè le nuove forme imprenditoriali, con l'holding finanziaria
al centro e intorno il sistema di imprese articolate per settori, che
dominano il mercato. I subappalti continuano ad essere gestiti da
mafiosi camuffati con il ricorso a prestanomi o alla consociazione
con imprenditori non sospetti. Bisogna abolire il subappalto, o
limitarlo alle opere che richiedono un alto grado di
specializzazione. Quanto ai "consorzi", che agiscono
principalmente tramite il sistema della "concessione", che
rappresenta una vera e propria spoliazione di sovranità degli
enti locali, si pone il problema di dar vita a forme nuove di
imprenditorialità, pubblico-private per esempio, che
contrastino l'egemonia del grande capitale.
Qual è il rapporto tra
l'organizzazione del capitale mafioso e le "neutrali" leggi
capitalistiche del mercato? La mafia è una holding
capitalistica come la FIAT di Agnelli, la cui unica differenza è
la fonte (più sanguinaria ma meno socialmente violenta) di
estrazione del plusvalore?
Sto studiando questo problema
fondamentale all'interno di un progetto di ricerca abbozzato nel mio
paper "La mafia finanziaria". L'ipotesi di "sfondo"
è il complesso-finanziario-industriale come forma della
mondializzazione del capitalismo, un sistema opaco, che si regge sul
segreto bancario, con le eccezioni introdotte dall'OCCA (Organized
Crime Control Act) negli Stati Uniti, nel 1970, e dalla Legge
Rognoni-La Torre del 1982 in Italia. Questa opacità del
sistema finanziario, insieme con i fenomeni dell'innovazione
finanziaria e i cosiddetti "paradisi fiscali", permette la
simbiosi tra capitali illegali e legali. Formalmente tanto le grandi
multinazionali che la mafia usano la struttura holding. La differenza
è nella provenienza illegale del capitale e nell'uso diretto
della violenza da parte della mafia, mentre il capitale "pulito"
si serve dell'istituzionalizzazione della violenza attraverso la
forma stato.
Se la mafia è integrata nelle
dinamiche di economie capitalistiche di mercato mondiale, perché
ha bisogno di sopprimere i propri concorrenti?
Perché c'è una
"economicità della violenza", come indicava Marx.
Solo che mentre il grande capitale ha praticato la violenza diretta
nella fase dell'"accumulazione originaria", la mafia e le
altre organizzazioni criminali che si sono imposte sulla scena
mondiale (Triadi cinesi, Yakuza giapponese, criminalità
organizzate dell'America Latina, dell'Australia) sono i late
comers che per affermare il loro ruolo economico intrecciano
attività illegali e legali. Se agissero in modo "pacifico"
sul mercato non conterebbero.
Quali sono le vie del riciclaggio
del denaro sporco? In una logica di capitale come si fa a distinguere
denaro sporco e denaro pulito, sfruttamento e accumulazione buona e
sfruttamento e accumulazione cattiva?
Le vie del riciclaggio sono molteplici,
e vanno dalle più primitive, come il trasporto del denaro
liquido in valigia, alle forme più sofisticate, come le
"compensazioni". Come dicevo prima denaro sporco e denaro
pulito fanno ottimi matrimoni in un sistema finanziario dominato
dall'"opacità". Credo che la tua domanda sottintenda
un'idea del tipo: "capitalismo uguale mafia". Io non
accetto né lo stereotipo "piovra universale", che
vede mafia sempre ed ovunque, né quello "riduzionistico"
che vede la mafia come un mero residuo arcaico che ha sostituito la
lupara con il kalashnikov.
Nella ricerca sulle imprese formulo
l'ipotesi di "mercato multidimensionale" in cui
interagiscono l'economia legale, l'economia sommersa e l'economia
illegale, con una tipologia di "rapporti" che si può
sintetizzare così: compenetrazione, convivenza, conflitto.
Soprattutto quando l'accumulazione illegale è in crescita, o
la mafia ha qualche problema nell'investire i suoi capitali, come
negli ultimi anni, si innesca il conflitto: i mafiosi uccidono (a
Palermo sono stati uccisi molti imprenditori) e gli imprenditori
sollecitano l'attività repressiva dello Stato. Il rapporto
quindi tra capitale legale e illegale è complesso. Ovviamente
lo sfruttamento è sempre tale, anche se nell'impresa mafiosa
può essere maggiore, dato che quasi sempre è a lavoro
nero. Ma il lavoro nero non è solo mafioso.
Qual è oggi, in via
prioritaria, il baricentro spaziale delle zone di interessi mafiosi?
È il mercato mondiale,
e quale? E quale ruolo assume il mercato locale (siciliano,
italiano)?
La "mafia finanziaria" non
sarebbe possibile senza un mercato a dimensione mondiale, ciò
non toglie la "centralità" della Sicilia, almeno per
l'organizzazione mafiosa siculo-americana. Ripeto, stiamo parlando di
un fenomeno in cui convivono aspetti che sembrerebbero in contrasto e
non lo sono, anzi si avvitano in un nodo di reciproca
funzionalizzazione. La "signoria territoriale" su un
quartiere di Palermo serve per installarvi una raffineria d'eroina
che può lavorare per parecchi anni senza essere scoperta.
Palermo e New York sono vicinissime, com'è vicinissima la
Svizzera per "ripulire" il denaro. La droga è un
"sistema mondiale" e lo sono pure il sistema finanziano e
il mercato degli investimenti. Dobbiamo evitare di costruire
alternative troppo rigide: la mafia-mondo fa tutt'uno con il dominio
a Brancaccio-Ciaculli. Ciò avviene a livello spaziale e anche
temporale: l'arcaico "dominus loci" è un
protagonista delle "relazioni internazionali" che formano
il network criminale-legale.
Quale risulta essere il maggior
business di Cosa Nostra? Come viene impiegata la montagna di
profitti: investimenti finanziari, investimenti sociali? Non
meraviglia il boom della Borsa italiana: e se la vera "droga"
che ha fatto la fortuna di Gardini, De Benedetti o delle imprese
elettroniche giapponesi che insidiano l'IBM sia frutto di ... droga
mafiosa?
Senza la droga non ci sarebbe la mafia
attuale. La droga consente profitti dell'ordine di molte migliaia di
miliardi l'anno, anche se bisogna andare cauti con certe "stime"
circolanti (si parla di 25.000-35.000 miliardi). Dopo vengono le
armi. Questi capitali vengono impiegati in varie direzioni:
continuazione ed estensione delle attività illegali, attività
legali, finanziarie, imprenditoriali, etc... C'è molta
"diversificazione" nell'investimento, né più
né meno come per le multinazionali. Che il capitale sporco
possa essere in borsa, ovviamente opportunamente "travestito",
non si può escludere, tenendo conto che la nostra legge
antimafia è arretrata di almeno vent'anni e se colpisce il
patrimonio e le attività imprenditoriali finora ha sfiorato la
dimensione finanziaria. Non risultano collegamenti diretti tra i big
del capitalismo di cui parli e il denaro sporco, ma il problema non
riguarda questo o quell'altro eroe di borsa. Oggi l'"opacità"
del sistema finanziario, come ho già detto, può dar
luogo a parecchi matrimoni. Negli Stati Uniti negli ultimi anni Miami
è diventata la seconda piazza finanziaria dopo New York ed è
provato che dietro questo boom c'è il denaro della cocaina
sudamericana.
Se il quadro delineato è
corretto e plausibile, non sarebbe il caso di rispolverare,
aggiornato e sofisticato, il vecchio slogan che "l'unica via è
la rivoluzione" e non certo un'impotente lotta delle e nelle
istituzioni troppo piccole, fragili e ingessate per poter contrastare
un simile fenomeno mondiale?
Mi aspettavo questa domanda e la
risposta è: la rivoluzione mondiale è un sogno o è
un progetto? Se è un sogno possiamo contentarci di sognarlo
per un improbabile domani e per intanto non far nulla; se è un
progetto bisogna costruirlo e camminare con le gambe che abbiamo. Che
non sono le istituzioni locali e nazionali così come sono, ma
le idee concrete che riusciamo a mettere in campo e i movimenti che
riusciamo ad organizzare. Sul terreno economico bisogna agire sul
terreno dell'accumulazione, del riciclaggio e dell'investimento. E
sono centrali il problema del proibizionismo della droga,
dell'eliminazione del "bisogno d'armi" e del segreto
bancario. Poi c'è tutto il terreno della lotta politica e
sociale, contro le collusioni e contro l'emarginazione che spesso
porta alla mafia.
Anche sul terreno istituzionale si può
fare molto, ma solo se si operano rotture e non si avvallano
convivenze. Ci sono gruppi dirigenti e apparati burocratici che anche
se spesso non hanno commesso reati risultano "collusi".
Dobbiamo spazzarli via. Solo così cominciamo a mettere
qualche pietra per qualcosa che somigli a un "progetto",
che è tutto da definire, dato che i "modelli storici"
sono un po' obsoleti.
"No, non è fuori dal mondo pensare che..."
Giuseppe Di Lello è stato
fino a poco tempo fa giudice istruttore del pool antimafia del
Tribunale di Palermo, di recente entrato a far parte del direttivo di
Magistratura Democratica. Riportiamo alcuni stralci di una lunga
conversazione intorno ai temi della giustizia avuta con lui in RAI nel lontano dicembre 1984, quando si stava occupando con i suoi colleghi
del pool dell'istruzione del primo maxi-processo a Cosa Nostra. Le
considerazioni esplicite di allora, insieme ai suoi impliciti
silenzi, alla luce di oggi, segnano pienamente l'evoluzione della
posta in palio sul ruolo della magistratura inquirente nei fatti di
mafia, che i conflitti dell'estate scorsa a Palermo hanno registrato
nella sua massima e non ancora sopita virulenza.
Come si fa a essere contrari ad
un'emergenza giudiziaria per fatti di lottarmatismo politico, e
favorevoli per fatti di mafia?
Siamo, in realtà, in una fase di
emergenza che non è ancora finita, quanto meno per la
criminalità organizzata, e ci serviamo di strumenti giuridici
dei quali, per la verità, non ci siamo mai serviti prima. Per
quanto riguarda la mafia, finalmente una nuova cultura, abbastanza
aderente allo spirito del codice, certamente non fascista, ci impone
di valutare i fatti nel loro contesto ambientale
(socio-politico-economico). Per anni i delitti di mafia, si sono
chiusi per insufficienza di prove perché non c'era chi potesse
testimoniare; ad un certo tempo, esce a testimoniare chi, avendo
vissuto dal di dentro questa realtà, dice ciò che sa:
si tratta di un teste qualificato o di un coimputato...
Quello che si contesta è che
la cosiddetta chiamata di correo da parte di un pentito assuma
strategicamente una valenza probatoria autonoma assolutamente
inedita. La testimonianza di un Buscetta o di un Contorno assume una
dignità di prova che non ha avuto in altri casi, giacché
occorrono riscontri oggettivi esterni alla personalità del
testimone...
Io non posso parlare dato che
personalmente mi occupo sia di Buscetta che di Contorno; posso però
assicurare che le loro dichiarazioni non vengono prese per oro
colato, ma hanno volumi e volumi di riscontri oggettivi esterni,
altre testimonianze, altre acquisizioni probatorie. Ripeto, in questo
momento non ne posso parlare per ovvi motivi. Il punto sull'emergenza ci impone di
valutare il fatto che siamo una nazione in cui si ammazzano
magistrati, poliziotti, uomini politici, con questo tasso e qualità
di crimini, come nessuna altra nazione al mondo.
Ma repressione, carcerizzazione e
arresti in massa servono davvero?
Innanzitutto, arresti di massa,
maxi-processi, ecc. hanno il loro pendant nell'illiceità di
massa, nel senso che questi fenomeni di criminalità
organizzata si fondano su un'adesione attiva di migliaia, a Palermo,
di persone, per cui gli arresti sono consequenziali per numero,
specie quando qualcuno comincia a collaborare spiegando il perché
di tanti omicidi, gli organigrammi delle cosche, per cui è
chiaro che poi gli arresti non possono essere di dieci persone. Certo, la situazione carceraria non è
bella perché c'è un'incapacità a pensare pene
alternative efficaci che dovrebbero sfoltire le carceri da quei
detenuti arrestati per la prima volta o dai ragazzi per evitare
situazioni di incredibile promiscuità. Qui però lo
sfascio va imputato alla pubblica amministrazione e non alla sfera
della giustizia. Ho sempre detto, e con me altri colleghi, guai se ci
fosse l'illusione di sconfiggere la mafia con la magistratura. No, è fuori dal mondo pensare
che noi si possa affrontare e risolvere questo problema che è
di ordine sociale, economico e politico. Si pensi come è
radicata nel tessuto sociale la camorra in Campania, la mafia in
Sicilia per capire come l'intervento delle forze repressive della
polizia e della magistratura è un intervento che può
contenere certi guasti, ma che alla lunga non può essere
assolutamente vincente. È
chiaro che il problema è anche quello di voler chiaramente,
con volontà politica, debellare la mafia. In questo contesto
io credo che la criminalità organizzata sia molto spesso
funzionale a questo sistema, per cui è assolutamente impossibile
credere che in questa situazione si riesca a battere la mafia. Se un
domani le forze politiche ed economiche capiranno che la criminalità
organizzata è un ostacolo al loro progresso ed alla loro
affermazione, allora credo che sarà anche la fine, o almeno
l'emarginazione quasi totale, della mafia; ma finché questo
corpo invisibile ma molto palese sarà parte integrante della
struttura economica e politica della nostra società, non ci
sarà alcuna speranza di batterlo.
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Il volto
delle istituzioni
Il Cocipa si pone nella realtà
palermitana come "un modello alternativo di informazione o
talvolta di controinformazione, attraverso la partecipazione diretta
di unità di base e di singoli cittadini". Il tentativo di alimentare un
tessuto sociale estraneo alla logica mafiosa ed i rischi di essere
troppo filo-istituzionali.
Nino Rocca è tra i promotori
e coordinatori del Comitato cittadino per l'informazione e la
partecipazione (Cocipa), che si riunisce ogni giovedì alle
ore 21 presso il Palazzo delle Aquile, sede del
municipio di Palermo.
Nel discorso corrente, anche a
livelli sofisticati, si delinea un'immagine della realtà a tre
punte: stato, società e mafia. I rapporti tra stato e società
presi separatamente, ammesso e non concesso che ciò sia
possibile (e noi non lo crediamo), sono già complessi e
interdipendenti. Ma la mafia è un luogo autonomo a sé
stante?
La mafia a sé stante? Proprio
no. Non lo dice pure la DC che la mafia ha il volto delle
istituzioni?
Nella mafia che cosa c'è che
appartiene alla logica mafiosa ed alla logica statuale?
Dal punto di vista della "logica
statuale", diamo ormai per scontate le connessioni tra mafia e
apparati dello stato. Se poi sia lo stato ad utilizzare la mafia o
viceversa, è questione dibattuta da mafiosi, politologi e
sociologi. Dal punto di vista della "logica mafiosa", si
potrebbe dire che la mafia, oltre ad appropriarsene, tende anche a
scavalcare lo stato di diritto. È
una specie di giocatore borghese che bara.
Come si alimenta un tessuto sociale
estraneo alla logica mafiosa ed alla logica statuale?
La mafia si alimenta appropriandosi di
spazi politici ed economici sempre più ampi: ciò
comporta la riduzione di spazi di partecipazione democratica dei
cittadini.
E allora, quanto più la società
civile si riappropria, attraverso l'informazione e la partecipazione,
del potere politico che ad essa spetta, tanto più si restringe
il campo di influenza mafioso. Ciò è possibile,
innanzitutto, attraverso tutte le forme istituzionali di informazione
e partecipazione, come la richiesta di trasparenza amministrativa,
attraverso forme di controllo e di incidenza, con campagne di
opinione pubblica, referendum cittadini e nazionali, alimentando le
strutture di decentramento politico e amministrativo attraverso la
partecipazione di comunità di base sempre più
politicizzate. Politicizzazione che non deve
corrispondere necessariamente con la partitizzazione. Anzi, mi pare
che oggi si evidenzi sempre più la tendenza ad appropriarsi di
spazi che si mantengano estranei alla logica partitica.
Lei è portavoce del Cocipa:
vuol dire in due parole di quale esperimento si tratta?
Il Cocipa è il tentativo di una
partecipazione dei cittadini alla vita politica, al di fuori dei
Canali istituzionali dei partiti. Esso rivendica, innanzitutto,
"informazione" relativa all'amministrazione pubblica.
Forse non tutti sanno che gli atti
amministrativi sono di per sé pubblici e pertanto possono
essere richiesti da qualsiasi cittadino. In pratica, però,
l'ostruzionismo operato dagli amministratori e dai politici spesso
rende quasi impossibile questo accesso. L'informazione, pertanto, che
arriva ai singoli cittadini è filtrata dai mass-media e quindi
parziale, deformata o per lo meno interpretata da ottiche politiche
partitiche.
Il Cocipa vuole essere un modello
alternativo di informazione o talvolta di controinformazione,
attraverso la partecipazione diretta di comunità di base e di
singoli cittadini. Strumenti di informazione e partecipazione sono
stati gli incontri settimanali nella sala del Comune, nei quali si è
dato forma alle richieste e ai bisogni della gente: bisogno di case,
di vivibilità, di lavoro, di reinserimento, che hanno visto la
partecipazione dei locandati, degli ex-carcerati, di handicappati,
ecc...
Su questa base, il confronto con i
politici e gli amministratori, le assemblee cittadine su temi
discussi ed elaborati durante il corso dell'anno. A questi occorre
aggiungere altre forme di informazione e partecipazione, come il
referendum, l'appropriazione di spazi televisivi, ecc...
Il paradosso del Cocipa è che
la sua promozione dall'alto, alla maniera della glasnost di
Gorbaciov, lo rende più debole perché più
invischiato nei tiri incrociati degli attori politici. Non è
troppo smaccatamente filo-istituzionale, filo-orlando-for-sindaco,
per acquisire una sua reale credibilità sociale e popolare?
Non bisogna confondere l'accidente con
la sostanza. L'occasione, che ha dato luogo alla nascita del Cocipa
è stata la minacciata crisi della giunta da parte dei
socialdemocratici per motivi spartitori del tutto estranei ai
problemi della città. Ma aldilà dell'occasione, il 20
gennaio 1988 (giorno dell'assemblea cittadina nella quale nasce il
Cocipa) si è coagulata un'esigenza di informazione e di
partecipazione che è il dato sostanziale del Cocipa.
La partecipazione dei cittadini alla
vita politica non può essere ridotta al solo momento delle
elezioni, ma esige una presenza ed un'incidenza molto più
significativa, al di fuori del modello rappresentativo.
Il Cocipa vuole essere questa
coscientizzazione dal basso per una reale partecipazione al governo
della città. Esso, quindi, rivendica una propria autonomia,
una propria logica partecipativa che va aldilà della logica
dei partiti, che spesso hanno svilito gli spazi partecipativi a
funzione meramente elettorale.
Il Cocipa lacchè di Orlando? No.
Nella sua variegata composizione, al suo interno, conta gente
favorevole alla giunta e sfavorevole "da sinistra". Seppure
la nuova giunta ha rappresentato una nuova immagine della realtà
politica della città, voglio ricordare che noi non abbiamo
esitato ad occupare l'Assessorato alla casa quando l'assessore ha
bidonato ripetutamente le richieste dei locandati, e siamo pronti a
rifare l'esperienza con l'Assessorato alle attività sociali,
se le richieste dei centri sociali verranno disattese.
Ricordo anche che al nostro interno si
è avuto di recente un animato dibattito sul leit-motiv
dell'autonomia da Orlando e da chicchessia.
Con
passione nel ghetto
Gaetano e Antonella sono tra i
promotori della cooperativa "La Ferula" che, nel quartiere
palermitano dello "Sperone", gestisce un centro sociale del
Comune. I problemi della perdurante
mentalità mafiosa tra i giovani. Lo sfascio urbanistico e la
deprivazione sensoriale dei bambini. Il ruolo delle donne.
Che cosa significa
essere presenti come centro sociale in un quartiere di Palermo?
Gaetano - Innanzitutto, bisogna
fare una precisazione sui centri sociali che in questi ultimi tempi
sono venuti sorgendo nei quartieri. Il nostro, come per la verità
anche gli altri, non sono in realtà veri e propri centri
sociali, poiché ad esempio noi siamo riusciti a svolgere solo
attività relative all'infanzia, animazione soprattutto, e
quindi in termini abbastanza limitati, spesso assistenziali. Non
esiste pertanto un centro sociale attivo e propositivo, rivolto a
tutte le fasce di popolazione che abitano il quartiere. La nostra
esperienza parziale dà quindi un bilancio misto, positivo e
negativo.
Siete riusciti a farvi accettare dal
quartiere?
Gaetano - Inizialmente c'è
stato un netto rifiuto, sotto varie forme, per diffidenza: noi
eravamo visti come i rappresentanti di una Palermo bene che
"calavano" in un'altra Palermo. I ragazzini, per esempio,
non capivano chi eravamo, che cosa ci andavamo a fare, cosa volevamo,
si avvicinavano curiosi ma diffidenti, e con molta aggressività.
Per sedarla, abbiamo dovuto dimostrare non di accettare il loro
stesso piano di scontro fisico, ma di saperci muovere nelle loro
coordinate senza scappare.
In altri termini, vi siete fatti
"rispettare"... Non è una logica para-mafiosa?
Antonella - Non è
questione di "rispettabilità" se loro sono a poco a
poco cambiati nei nostri confronti, ma questione di linguaggio,
perché questi ragazzini di quartiere non riescono a parlare
con un altro attraverso un linguaggio verbale, non lo capiscono, ma
solo attraverso un linguaggio più comportamentale, almeno
inizialmente per instaurare un rapporto; provavano fino a che punto
potevano comportarsi in un certo modo, provocandoci, aggredendoci,
picchiando i più piccoli, e noi replicavamo accettando la
prova.
Gaetano - Si creavano momenti in
cui rifiutare la risposta fisica significava avere comportamenti
snobistici, in quella particolare situazione...
Poteva trattarsi di un test per
verificare la vostra idoneità ad un processo di
iniziazione?...
Gaetano - Penso di sì;
c'è questo meccanismo di prova per vedere fino a che punto
stai al loro passo, ma c'è anche la verifica di quanto tu
accetti loro, perché devi considerare che si tratta di ragazzi
con gravi problemi di deprivazione sentimentale, affettiva, e
nell'adulto tendono sempre ad identificare la figura paterna o
fraterna, secondo quel che più loro manca. È
una prova per vedere fino a che punto sei disposto a volergli bene e
a seguirli. Ricordo un pomeriggio di grandi scontri e grandi liti, ma
nonostante ciò il pomeriggio successivo li trovammo carini e
affettuosi, segno che avevamo "superato l'esame"
dimostrando che pur non accettando i loro comportamenti, non li
mollavamo.
Che tipo di preparazione specifica
avevate quando avete iniziato il lavoro nel quartiere?
Gaetano - Eravamo partiti con
un progetto abbastanza preciso ed ambizioso, che veniva fuori dalle
nostre esperienze precedenti, ma che è rimasto inapplicato al
contatto con quella realtà specifica che ci ha condizionato.
Noi avevamo lavorato insieme a ragazzi simili a questi dello Sperone,
con problemi analoghi, però fuori dal loro guscio, nella
Colonia Comunale; quando vai nel loro ambiente d'esistenza, cambia
tutto, il codice mafioso del senso della territorialità impera
nelle loro case, nelle loro famiglie.
Antonella - Questo
senso del territorio è impressionante, loro stessi se ne
accorgono da una strada all'altra, dove si è in campo
nemico...
Gaetano - Il quartiere di
Settecannoli è tra i più grandi di Palermo, ha circa
240mila abitanti, e si divide in varie zone, una un po' più
vivibile al di qua dell'Oreto, una più popolare, sino a piazza
Torrelunga, oltre la quale c'è il ghetto vero e proprio,
vecchie case occupate, situazione degradante, che dire
sottoproletaria è un eufemismo. In quest'ultima zona dove
siamo noi, la divisione si fa per isolato, quasi per scala, per
condominio, ed i ragazzi riprendono questi schemi tali e quali.
L'indigenza culturale e sociale è molto forte, quella
materiale un po' meno per via dell'economia mafiosa sommersa.
Avete avuto "interferenze"
da parte degli adulti?
Gaetano - Gli adulti non
interferiscono per un semplice motivo: al di sopra dei trent'anni, vi
sono specie di relitti umani, figure patetiche con anni di galera già
alle spalle, buttati nelle strade a giocare a carte o ad ubriacarsi.
Le madri poi sono tutte a casa a badare ai dieci, dodici figli per
nucleo familiare, lavorando pure per tirare avanti, distrutte a
trent'anni dimostrandone il doppio, con assoluto predominio sulle
figlie e assolutamente assoggettate ai figli maschi, specie se manca
il padre, con un maschilismo ferreo, spaventoso.
Avete avuto problemi con la mafia
del quartiere perché potevate essere di ostacolo ai loro
traffici?
Antonella - I primi tempi sono
venuti a controllarci, a vedere cosa facevamo con i ragazzi...
Gaetano - ...ci hanno distrutto
completamente il centro, prima con atti di vandalismo da parte dei
ragazzi stessi, poi anche i grandi che lo hanno svuotato portandosi
via finestre, sanitari, ecc... Noi però abbiamo continuato a
lavorare. Ovviamente l'omertà è stata totale, da parte
dei ragazzi e degli adulti.
Ma nemmeno le madri dei bambini che
stavano con voi...?
Antonella - Siamo riusciti a
conoscerle solo quando siamo andati a trovarle a casa loro, dopo un
certo periodo, anche su sollecitazione dei ragazzi stessi. Se non
lavorano, non escono mai, per non lasciare la casa da sola.
Gaetano - Le ragazzine possono
stare fuori fino a che hanno tredici anni, poi, dopo la prima
mestruazione, chiuse in casa e basta, e non le vedi più, se
non di nascosto, qualcheduna, la più coraggiosa...
Dopo un anno di lavoro nel sociale,
riuscite a notare contraddizioni o piccoli cambiamenti in mentalità
o pratiche e comportamenti che prefigurano nuove etiche collettive e
individuali, terreno di sviluppo di una cultura sociale non-mafîosa?
Gaetano - Decisamente sì,
e sperimentato sulla nostra pelle: all'inizio andavamo via con gran
paura, prima del buio, ora invece siamo tranquilli, addirittura
veniamo avvicinati ed invitati a fare altre iniziative, come il
doposcuola, per esempio. Abbiamo avuto anche un incontro con la
locale sezione del PCI, che ci sollecitava a fare qualcosa insieme,
ma il tutto con un linguaggio ed un fare politichese, verticistico,
da deputato alla Camera, e li abbiamo posati.
C'è un segnale positivo in
riferimento ad un gruppo di persone che si sono aggregate su problemi
specifici del quartiere, che vanno dalla viabilità alla
sporcizia, alle strutture fatiscenti, hanno fatto una petizione con
oltre 600 firme, ci hanno cercato e stiamo lavorando insieme su
queste cose pratiche, andando anche a incontrare sindaco e assessori
competenti.
In base a questa vostra esperienza,
che programma vi dareste oggi?
Gaetano - Certo, abbiamo le idee
un po' più chiare, stiamo preparando un programma di
doposcuola per quei pochi che già vanno a scuola, come
sostegno scolastico, mirato alle loro esigenze e condizioni di
partenza, al fine di evitare l'abbandono. Per chi ha già
lasciato la scuola, stiamo organizzando dei corsi di alfabetizzazione
per permettere loro di leggere e scrivere almeno una lettera; per i
più grandi ancora, abbiamo progettato dei laboratori di
artigianato, dove contiamo di attirarli con la formazione tecnica e
pedagogica, sperando che alla lunga si riesca a dare loro le
condizioni per saper fare un lavoro, un mestiere.
Antonella - È
incredibile l'assoluta mancanza di abilità manuale nei bambini
e nei ragazzi così deprivati, si stupiscono se riusciamo a
piantare un chiodo senza farci male.
Gaetano - Non hanno spazi
fisici, ed i loro giochi sono basati sulla forza, sulla violenza, ed
hanno notevoli difficoltà a coordinare i loro sforzi fisici,
pure cercando a farli allenare per giocare a pallone. In questi
ambienti così degradati, hanno altissimo il senso della
distruttività, ma bassissimo quello della coordinazione, della
costruttività. Si tratta di restituire loro una capacità
di autocoordinazione tra corpo e mente, e questo è sicuramente
un effetto sociale di una speculazione mafiosa nell'urbanistica dei
quartieri, con grossi scompensi per la vivibilità di cui i
bambini sono specchio fedele.
Il quartiere ha percepito
l'esistenza di un "nuovo corso" nella giunta municipale?
Come è presente lo stato? La gente richiede più stato o
già basta quello che c'è?
Gaetano - No, non si è
percepito nulla, perché le istituzioni locali e centrali sono
totalmente assenti, a parte il nuovo commissariato di P.S. di
Brancaccio. Anche rispetto ad altri quartieri di
Palermo, il nostro è più degradato e più
abbandonato degli altri, talvolta senza allacciamenti idrici ed
elettrici.
È opportuno moltiplicare la
presenza burocratica dello stato con strutture periferiche, o sarebbe
meglio un'autoregolamentazione ed un'autogestione dei cittadini
stessi? E come la vedreste?
Gaetano - Sicuramente sarebbe la
strada migliore, ma non so se la più realistica, oggi come
oggi. L'incuria degli amministratori non è mai casuale, ma
voluta, e noi che siamo una cooperativa non cattolica abbiamo avuto
problemi per andare avanti volontariamente. L'istituzione fa di tutto
perché alcuni problemi non si affrontino, nonostante le
dichiarazioni d'impegno; ritengo che questa disgregazione, questo
disagio sociale sia molto funzionale al sistema; dubito che dopo
quarant'anni di sistema di potere in questo modo si voglia veramente
cambiare pagina. Le organizzazioni cattoliche, pur con impostazione
pedagogica simile, hanno motivazione politica diversa e più
congeniale al sistema, a mio avviso. Lavorando nel sociale da
indipendenti come facciamo noi, non si sa dove può arrivare un
processo di consapevolezza generalizzata; se lo fa la chiesa, la
tutela ed il controllo sono pur sempre assicurati al sistema. C'è
in atto una sorta di coordinamento tra i vari centri sociali, e mi
sembra un tentativo importante, pur da minoranza critica in mezzo ai
cattolici.
Dopo un primo bilancio di presenza
sociale in un quartiere, cosa rimane di un centro sociale nel vostro
vissuto, alla luce della vostra esperienza?
Gaetano – A me
personalmente gli stimoli per rimanere a Palermo, cercando di
realizzare qualcosa in mezzo alle contraddizioni senza mortificare
sensibilità e tensioni.
Antonella - Ho cominciato per
passione e mi piace lavorare con questi ragazzini, che riconosci,
standogli vicino, che sono persone splendide, belle, ma che fanno
vite incredibili anche perché nessuno ha mai fatto loro
intuire che c'è un altro modo di vivere. L'abbrutimento nasce
dal fatto che non hanno mai visto altre cose, altri esempi da mimare,
specie per i più piccoli. Questo fa scattare rabbia, nervi, ma
io continuerei.
In questi quartieri, l'unica fonte
vitale, a mio avviso, sono le donne, che hanno un'energia incredibile
e che potrebbero smuovere le cose, malgrado tutto quello che
sopportano...
Gaetano - ...le donne sono
quelle che subiscono la mentalità mafiosa, mentre i maschi ne
sono i portatori...
Cogliete rassegnazione, angoscia...?
Antonella -
Rassegnazione mai; quando una ragazzina di 14 anni scappa di casa ,
fa la "fuitina" con il ragazzo, resta incinta e segue la
stessa strada di sua madre e di sua nonna, nonostante tutto mantiene
una carica trasgressiva: pur non sfuggendo totalmente alla cultura
mafiosa, tra accettazione e ribellione...
Gaetano - Io però ritengo
che quando si prende coscienza del fatto che la mafia ha reso
totalmente impossibile la vita, la capacità della donna di
uscirne fuori è più forte, mentre il maschio rimane più
invischiato... Qui l'emancipazione della donna è ancora una
grossissima battaglia sociale da fare. I ragazzini poi non si
scoprono mai, non danno soddisfazione per qualcosa, hanno imparato a
prendere senza dover ringraziare o manifestare i loro sentimenti, pur
non mostrarsi deboli o ricattabili la volta successiva.
Gli anarchici contro la mafia (e i suoi complici)
L'attenzione che gli anarchici hanno prestato nei confronti della questione mafiosa, sia nella sua specificità siciliana, sia in quanto struttura di dominio , non risale certo all'ultima ora. Senza voler andare a ritroso sino alla fine del secolo scorso, quando internazionalisti e massoni (allora rivoluzionari) denunciavano le prepotenze mafiose legate al latifondismo, nel nostro secondo dopoguerra, specie dopo i moti indipendentisti ed il banditismo di Giuliano legato alla strage del 1&grad; maggio 1947 a Portella della Ginestra, la stampa anarchica ha affrontato a più riprese una denunzia forte e decisa di Cosa Nostra e dei suoi traffici (spoliazione agricola prima, speculazione edilizia dopo nelle città ) e dell'impotenza colpevole delle istituzioni spesso colluse sia nella sfera politico-amministrativa che in quella della magistratura.
Ricordiamo le colonne de L'agitazione del sud, il mensile anarchico siciliano degli anni '60, aperte alle denunzie circostanziate di un Danilo Dolci, così come ai libri bianchi di un Piero Riggio, per non citare che un solo nome, "offerti" alla Commissione Antimafia in pellegrinaggio ai santuari di Cosa Nostra.
Ricordiamo gli articoli sulle pagine del settimanale Umanità Nova, sin dagli anni '70 e poi, più vicino a noi, la guerra di mafia e i "cadaveri eccellenti" a cavallo degli anni '80 (rammentiamo che la redazione collegiale di Umanità Nova negli anni 1979-81 era a carico della FAI di Palermo), il maxi-processo del febbraio '86 e le analisi delle nuove strategie mafiose e dell'impegno antimafia di stato, istituzioni locali e movimenti di opinione pubblica.
Attualmente, su Umanità Nova sto curando una serie di articoli che hanno l'ambizione di fare il punto della situazione da un osservatorio libertario. A titolo indicativo di memoria storica, riportiamo un solo articolo selezionato tra gli altri, tratto da L'agitazione del sud del gennaio 1967 a firma di Alfonso Failla (Siracusa 1906 - Carrara 1986). Failla, attivo fin da giovanissimo nella lotta antifascista, trascorse 13 anni al confino e in galera. Nel dopoguerra fu spesso in Sicilia per giri di comizi e conferenze, scontrandosi in varie occasioni con la mafia e i suoi emissari.
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Con l'azione diretta
Solo la pratica dell'intervento
diretto, di tutti, in ogni località, per risolvere insieme i
problemi della comunità, diminuirà, fino alla totale
estinzione, il potere della mafia. Lo sosteneva nel 1967 Alfonso
Failla, in questo articolo apparso su "L'agitazione del Sud".
"... Ma il fatto è, mio
caro amico, che l'Italia è un così felice paese che
quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che
già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto
qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto,
nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di
farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia...".
Sono parole che Leonardo Sciascia mette
in bocca ad un personaggio del suo romanzo "A ciascuno il suo"
che, a conferma della sua tesi, porta questo esempio: "... Una
grande industria decide di costruire una diga, a monte di una zona
popolata. Una decina di deputati, avvalendosi del parere dei tecnici,
chiedono che la diga non si faccia: per il pericolo che verrebbe ad
incombere sulla zona sottostante. Il governo lascia costruire la
diga. Più tardi, quando è già costruita e in
funzione, si leva qualche avvertimento di pericolo. Niente finché
non succede quel disastro che alcuni avevano previsto. Risultato:
duemila persone morte... Duemila persone: quante i Ragana (mafiosi,
N.D.R.) che prosperano qui ne liquidano in dieci anni". Le innumerevoli inchieste
giornalistiche, parlamentari, le ricerche storiche, specie in questi
ultimi vent'anni, hanno messo in evidenza le caratteristiche di
"potere" della mafia per cui oggi, in Italia
particolarmente, quando ci si vuole riferire al prepotere di un
gruppo in qualsivoglia branca della vita sociale lo si indica col
nome di "mafia". Mafia dei mercati, mafia degli appalti
edilizi, mafia per il monopolio dell'insegnamento, ecc... Con ciò
non vogliamo sottovalutare il danno che la mafia arreca, in modo
specialmente diffuso, fino a paralizzarne la vita, in gran parte
delle province occidentali della Sicilia. Il rilevare l'essenza di
gruppo di potere della mafia, simile, nella pratica dell'imposizione
della propria volontà, ai gruppi di potere politici,
finanziari, commerciali, ecc... ci mette in condizione di comprendere
il perché delle collusioni tra l'alta mafia e il governo
fascista prima e, dopo, ai nostri giorni, con partiti politici che si
appoggiano alla mafia per conservare il proprio potere. I quali
partiti arrivati ai vertici del potere statale trovano comodo
servirsi della mafia, nelle zone dove questa impera, per conservare
il potere conquistato.
Perciò, anche quando non si ha
fiducia nella bonifica sociale per mezzo delle leggi, com'è il
caso di noi anarchici, oggi il cittadino medio è disincantato.
Non crede più nella possibilità di venire liberato
dalla nefasta morsa della mafia ad opera dell'azione dei governi. Ed
in molti casi continua a vivere subendo il dominio delle mafia. In
altri casi resiste, lotta. I lavoratori delle province occidentali
dell'isola hanno lottato uniti ed hanno pagato duramente quando la
mafia è intervenuta, al servizio dei padroni della terra,
nelle lotte per la diminuzione della giornata lavorativa e il
miglioramento dei salari, dei contratti d'affitto, ecc...Da Lorenzo
Panepinto ad Accursio Miraglia, a Salvatore Carnevale, decine di
esponenti del movimento proletario, di lavoratori, come a Portella
della Ginestra, sono stati assassinati da mafiosi al servizio
padronale. Però la lotta continua e dove i lavoratori lottano
uniti hanno migliorato le loro condizioni. In Sicilia vi sono delle
zone dove le condizioni di vita della classe lavoratrice non sono
inferiori a quelle delle zone più progredite d'Italia.
Nel servizio sui cavatori di marmo di
Custonaci, pubblicato nel nostro numero di dicembre, l'amico Nino
Giaramidaro metteva in rilievo la soggezione di quei lavoratori al
dominio padronale. È
certo che fino a quando i cavatori di Custonaci non acquisteranno
fiducia in sé stessi, non impareranno a lottare insieme,
uniti, i padroni imporranno la loro legge sfruttatrice.
Il sindacato non può sostituirsi
alla volontà dei singoli; quando questa si manifesta, e rende
possibile l'associazione, ha inizio la resistenza, si ottengono i
primi miglioramenti e si stabilisce la fiducia nel lottare uniti,
nonostante le alterne vicende della lotta emancipatrice. Quando
condizioni di particolare arretratezza, come a Custonaci, impediscono
il sorgere dello spirito associativo nei lavoratori è
necessario l'intervento dell'organizzazione operaia della zona, della
provincia, a sostenere il sorgere e lo svilupparsi
dell'organizzazione locale.
L'essenza del principio anarchico
dell'autodeterminazione della volontà individuale, che si
rafforza nell'azione collettiva, indica la via da seguire per
migliorare le condizioni di vita fino alla totale emancipazione da
ogni forma di sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Mentre la pratica
dell'intervento diretto, di tutti, in ogni località, per
risolvere insieme i problemi della comunità, diminuirà,
fino alla totale estinzione, il potere della mafia. Che è
della stessa natura di ogni altro "potere", politico,
finanziario, militare, ecc...
Alfonso Failla
(da
L'agitazione del sud, gennaio 1967)
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