Rivista Anarchica Online
Dopo Carobel,
Mahò
di Fausta Bizzozzero
Che piacevole
sorpresa è stata, qualche anno fa, scoprire in Alfredo Taracchini -
che noi "vecchi" conoscevamo bene come membro del gruppo
anarchico di Imola - qualità letterarie insospettate! Allora ci leggemmo
d'un fiato quel suo primo libro (firmato con il cognome materno,
Antonaros) Tornare a Carobel, uno strano miscuglio di
autobiografismo, di ricerca delle proprie radici e di fantasia, come
ora ci siamo letti tutto d'un fiato questo Mahò. Storia di
cinema e petrolio (Edizioni Feltrinelli, Milano 1987, pagg. 207,
lire 20.000) che ci ha catturati per lo straordinario uso del
linguaggio - fascinoso, evocativo, sensuale, quasi carnale - per la
struttura sognante e affabulatoria e per le idee che in questo gioco
di parole fanno capolino, si inseguono, si scontrano, si articolano
nella costruzione di un "discorso poetico" di segno decisamente
libertario. Favola, metafora,
allegoria: Mahò è tutto questo e altro ancora. Vale la pena di
lasciarsi condurre per mano da Antonaros/Taracchini, di seguire i
destini dei protagonisti - un uomo al confine tra maturità e
vecchiaia che dirige un circo equestre, un giovane che si innamora
del mezzo cinematografico, un dittatore albino coi suoi sogni di
grandezza e di potere - che si intrecciano in un inizio secolo
tumultuoso, sconvolto da cambiamenti tanto rapidi quanto profondi che
frantumano le vecchie certezze senza riuscire a sostituirle. Il luogo in cui
questi destini si incontrano è, appunto, Mahò, un villaggio di
baracche in un punto imprecisato dell'Africa che, grazie alla
scoperta del petrolio, si trasforma in una metropoli brulicante,
punto di convergenza di desideri, brame di potere, brame di denaro da
un lato ma anche, dall'altro, mito del benessere, speranza in un
futuro migliore per moltitudini sempre più vaste di diseredati che
dai quattro angoli del mondo affluiscono ininterrottamente, disposti
a sopportare una vita ben peggiore di quella che hanno lasciato in
cambio di una illusione. La forza del mito è
inarrestabile - sembra volerci dire Antonaros - per i potenti come
per i vinti: Mahò diventa così l'ombelico dell'universo, il
laboratorio vivente di carne e di sangue in cui osservare le
tipologie dei comportamenti umani, i meccanismi politici, culturali,
sociali che l'instaurarsi di un nuovo mito - quello del progresso -
produce in una spirale inesauribile. Che si legga Mahò
come metafora del "progresso" capitalistico o come favola il
risultato non cambia, non può cambiare: è impossibile non
riconoscere il mondo in cui viviamo e il mito che lo guida, è
impossibile non specchiarvisi ed è impossibile non porsi almeno una
domanda, una sola: come possiamo fare per sostituire questo mito con
un altro di segno opposto?
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