Rivista Anarchica Online
Tutti in classe?
di Carlo Oliva
I giovani, gli
studenti costituiscono di per sé una classe? In caso
affermativo, si tratta di una classe rivoluzionaria? Se n'è
parlato un po' sulla stampa. Dopodiché, il silenzio. Segno che
qualche preoccupazione, in alto loco, c'è. In effetti il
movimento degli studenti può dire molte cose da un altro punto
di vista: quello della libertà.
Tutto mi sarei
immaginato, in questi tempi di confusione, fuorché di vedere
di nuovo affrontato in sede pubblica un vecchio problema del
sessantotto: di quel sessantotto che tutti danno per superato, nel
senso di solidamente assicurato alle cure di una Storia neutrale, o
cercano comunque d'esorcizzare in vari modi, ma che evidentemente ha
ancora una sua corposità, almeno teorica. Di fatto, è
bastato il casuale sovrapporsi, sulle prime pagine dei giornali, di
un po' di notizie relative all'attività del movimento degli
studenti in Francia, Spagna e Cina (attività che al momento
sembra ibernata in tutti e tre i paesi, ma non bisogna mai dire),
perché qualcuno riproponesse il vecchio quesito. Come definire
gli studenti, in quanto soggetto politico? Se ne può parlare
nei termini d'una classe? D'una classe rivoluzionaria, magari (con
licenza parlando)? Di una classe in grado di esprimere una
problematica capace di coinvolgere l'intero corpo sociale, quella che
una volta si chiamava, ma con riferimento esclusivo al proletariato
industriale, la "classe generale"? Una problematica
che, avanzata per iniziativa di un qualche ideologo irriducibile - il
solito Asor Rosa, credo, - è riuscita a tener campo per
qualche giorno, prima di essere inghiottita nella solita
indifferenza. Il che vuol dire che, evidentemente, suscita qualche
preoccupazione al di là di quelle ideologiche.
Un movimento di
classe o no?
In sé, il
problema della natura di classe degli studenti, non dovrebbe essere
particolarmente difficile da risolvere. Assumendo che il termine
"classe" vada inteso in senso marxista, con riferimento,
cioè, alla proprietà dei mezzi di produzione, è
evidente che essi non formano una classe, ma appartengono a quelle di
pertinenza delle relative famiglie. Se non sono una classe,
ovviamente, non possono essere neanche una "classe generale",
non ci piove. Ma qui sta il punto, perché il movimento degli
studenti, o, quando si manifesta, il movimento dei "giovani"
in generale, nonostante le sue caratteristiche non di classe, sembra
minacciosamente in grado d'esprimere delle problematiche generali,
capaci di riflettersi sull'intero corpo sociale, d'interessare, se
risolte, l'intera organizzazione della società. Sembra anche
in grado, talvolta, come s'è visto recentemente nella
Repubblica Popolare Cinese, e come s'era visto in Italia e Francia
attorno al '68, d'esercitare una qualche forma d'egemonia, o di
avanguardia, rispetto ad altri soggetti sociali. È
un movimento non di classe che si comporta come, secondo la teoria,
dovrebbero comportarsi quelli di classe. Il che crea un'aporia che in
un modo o nell'altro va risolta. La soluzione più
rapida, naturalmente, è quella di negare la teoria
tradizionale marxista delle classi, e sostituirla con qualche analisi
prammatica dei soggetti politici nella società industriale (si
può farlo anche senza rinunciare all'armamentario marxiano,
come dimostra tanta parte della tradizione operaista). Naturalmente
non lo si può fare sempre. Nel '68 non si poteva: il
riferimento ideologico alla classe operaia come unica protagonista
rivoluzionaria era troppo essenziale, per ideologico che fosse, al
movimento. Era necessario, così, ricorrere a mediazioni
piuttosto complicate: ipotizzare una sorta di contiguità
storica, meglio nota come "rapporto organico" tra studenti
e operai, o definire gli studenti come futuri operai ("forza
lavoro in via di formazione" era la formula), o, al limite,
fingere di essere subordinati strategicamente alle esigenze storiche
del movimento operaio. Spesso si tentavano tutte e tre le ipotesi
assieme. Oggi, naturalmente,
visto che della classe operaia non sembra importare più niente
a nessuno, lo si potrebbe fare benissimo. Anche tra le forze
organizzate della sinistra quello che una volta si chiamava, in
mancanza di meglio, revisionismo, non è più una
tentazione latente, ma una passione scatenata. Che i giovani
rappresentino il futuro, che siano, anzi, il futuro, e che
quindi i problemi che pongono siano quelli su cui l'intera società
civile dovrà in futuro misurarsi è sicuramente una
banalità (anzi è una brutta metafora, non riducibile a
un senso preciso), ma una di quelle banalità ripetendo le
quali si può fare molta strada. La tentazione di
disinteressarsi di tutta la questione, in definitiva, è molto
forte, e quasi irresistibile.
I giovani adulti
Eppure il problema
ha una sua logica. La condizione studentesca (che in società
come la nostra, pur con qualche corposo residuo, tende a coincidere
con quella giovanile) non sarà definibile in termini di
classe, ma è lo stesso una condizione di rilevanza generale.
Le sue problematiche non sono riducibili a quelle d'una rapida e
indolore assimilazione nell'universo adulto ("il problema dei
giovani è quello di crescere", secondo una vecchia
formula crociana operante più profondamente di quanto si creda
nella coscienza dei più), anche perché l'universo
adulto è spesso restio a predisporre i necessari canali.
Proprio per questo, tra l'altro, la condizione giovanile s'è
dilatata, per così dire, nel tempo: lo strato della
popolazione che vi ci si riconosce è più ampio di
quanto non fosse una volta. Si diventa adulti (nel senso di "giovani
adulti", creature in grado di ragionare con la propria testa)
più presto di un tempo, ma lo si resta (nel senso di "
adulti giovani", senza casa, senza lavoro e senza un'autonomia
definita rispetto al corpo familiare) molto più a lungo. Nei
paesi del nostro occidente capitalista (ma anche, a quanto ne so,
nell'Europa orientale) questo strato "parassitario", nel
senso di economicamente non produttivo, è in crescita rispetto
al corpo sociale, e il fatto che non abbia rilevanza rispetto alla
produzione non significa che sia irrilevante rispetto al quadro
economico generale, dato che ha forte capacità d'orientare i
consumi.
Una contraddizione
in più, questa, che pesa quando si vuole costruire il modello
sociale del "giovane" da far agire nei nostri scenari
ideologici. Senza voler entrare
in una serie di questioni che mi sono essenzialmente estranee, mi
limiterò a far notare un corollario cui di solito si presta
meno attenzione di quanta forse si dovrebbe. Proprio in quanto la sua
condizione socio-economica è quella del consumatore di beni
che non produce, il "giovane" (con le virgolette, perché
parlo qui di un'astrazione metodologicamente utile) è molto
lontano dal modello classico del soggetto rivoluzionario, ma è,
da un punto di vista rivoluzionario, privilegiato. É, se mi si
permette una piccola provocazione, meno legato al regno della
necessita, più "libero". Le sue opzioni sono più
spesso di tipo "ideale", dato che dal peso della
materialità è, beato lui, sollevato. Come l'eroe del
mito, che non deve mai preoccuparsi di questioni volgari come quelle
del pranzo e della cena, o quello dei telefilm, che vive in una
situazione altrettanto privilegiata, in quanto membro di nuclei
familiari ricchissimi o di organizzazioni totalizzanti, anche dal
punto di vista delle fatture, il giovane è libero d'inseguire
i valori cui improntare la sua vita e l'ambiente in cui vive. Che poi
paghi questa libertà con una buona dose di sofferenze (i
celebri "casini" con la famiglia) destinate a ripercuotersi
nella sua psiche per decenni a venire è un altro discorso.
Tutto si paga, in questo mondo, ma non sempre, quando si è
giovani, lo si sa. Ecco. Questa
affermazione può sembrare una facezia, ma forse rappresenta il
nucleo centrale di tutto il problema.
Quell'elemento
di libertà
Naturalmente, che
i giovani siano in qualche modo "più idealisti"
degli adulti, più propensi, cioè, a far proprie delle
norme di comportamento che prescindono dal criterio dell'interesse
personale, è solo una vecchia banalità, un luogo
comune. Chi ha occasione di frequentare, per un motivo o per l'altro,
il mondo giovanile, sa che non è il caso di farci troppo
affidamento. Il quadro valori medio di quel mondo è molto meno
incoraggiante. Vi ha spazio, per esempio, un certo diffuso
conformismo, come conseguenza quasi inevitabile della limitatezza
delle esperienze (per i post adolescenti è difficile non
introiettare le proposte ideologiche della famiglia e i
condizionamenti della cultura diffusa nell'ambiente). Non vi è
estranea una qualche forma d'arroganza, di chiusura verso gli altri
da sé, intesi come categoria. Nelle comunità giovanili
(le compagnie amicali, le classi scolastiche, le aggregazioni facenti
perno su questa o quella attività del tempo libero) la
consapevolezza dell'esistenza dei privilegi economici è
tutt'altro che assente. L'attaccamento a certi oggetti di cui è
noto l'alto valore venale, da esibirsi come status symbol
costi quel che costi, è ormai ben noto a tutta la
pubblicistica. E così via. Resta tuttavia il
fatto che, in termini di psicologia di gruppo, quell'elemento di
"libertà" cui alludevo prima, non va sottovalutato.
E che si coniuga spesso (non sempre) con una notevole disponibilità
alle proposte nuove, a una certa facilità nel tagliarsi alle
spalle i ponti ideologici pazientemente costruiti dalla famiglia e
dalle varie istituzioni ad essa coordinate. In altre parole,
l'interesse "generale" rappresentato dai movimenti politici
giovanili (studenteschi e no) è rappresentato soprattutto dal
fatto che essi tendono a rapportarsi a un modello comunitario per
certi versi utopico. Ciò non esclude tutte le possibili
mediazioni con le modalità della politica "adulta"
ma ne esclude abbastanza radicalmente certe dimensioni tradizionali.
Per esempio, tutti sanno, nel mondo della scuola, quanto sia
difficile utilizzare un qualsiasi movimento degli studenti per
asseverare la prospettiva di una futura riforma dell'istituzione. Gli
studenti sanno, con istintivo realismo, che la loro scuola è
comunque quella che frequentano, e che quella (eventualmente)
riformata sarà affare di altri. Non avendo veri e propri
interessi istituzionali (il che è in fondo lo stesso che dire
che il loro quadro di riferimento è utopico...), tendono a
disinteressarsi della questione. Ma provate a riformargli, in senso
contrario alle loro aspettative, questa scuola qui, a istituire hic
et nunc un'esame, una tassa, uno sbarramento, e vedrete.
L'esperienza del governo Chirac dovrebbe aver insegnato molte cose a
molti. Inutilizzabile in
una strategia di riforme, il movimento degli studenti può dire
molte cose da un altro punto di vista. Può rifiutare, rifiuta
- in genere -, qualsiasi tentativo di ridurre l'autonomia dei
soggetti concreti operanti in questa o quella istituzione. È
sempre disponibile, insomma, su questioni di libertà. Una
disponibilità che magari si fonda su un equivoco, e magari
deriva da una condizione fuggevole e transitoria, ma che rappresenta
- senza dubbio - il contributo indispensabile che le forze politiche
giovanili possono portare alla lotta comune. Il senso, insomma, in
cui gli studenti possono essere "classe generale".
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