Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 146
maggio 1987


Rivista Anarchica Online

Tutti in classe?
di Carlo Oliva

I giovani, gli studenti costituiscono di per sé una classe? In caso affermativo, si tratta di una classe rivoluzionaria? Se n'è parlato un po' sulla stampa. Dopodiché, il silenzio. Segno che qualche preoccupazione, in alto loco, c'è. In effetti il movimento degli studenti può dire molte cose da un altro punto di vista: quello della libertà.

Tutto mi sarei immaginato, in questi tempi di confusione, fuorché di vedere di nuovo affrontato in sede pubblica un vecchio problema del sessantotto: di quel sessantotto che tutti danno per superato, nel senso di solidamente assicurato alle cure di una Storia neutrale, o cercano comunque d'esorcizzare in vari modi, ma che evidentemente ha ancora una sua corposità, almeno teorica.
Di fatto, è bastato il casuale sovrapporsi, sulle prime pagine dei giornali, di un po' di notizie relative all'attività del movimento degli studenti in Francia, Spagna e Cina (attività che al momento sembra ibernata in tutti e tre i paesi, ma non bisogna mai dire), perché qualcuno riproponesse il vecchio quesito. Come definire gli studenti, in quanto soggetto politico? Se ne può parlare nei termini d'una classe? D'una classe rivoluzionaria, magari (con licenza parlando)? Di una classe in grado di esprimere una problematica capace di coinvolgere l'intero corpo sociale, quella che una volta si chiamava, ma con riferimento esclusivo al proletariato industriale, la "classe generale"? Una problematica che, avanzata per iniziativa di un qualche ideologo irriducibile - il solito Asor Rosa, credo, - è riuscita a tener campo per qualche giorno, prima di essere inghiottita nella solita indifferenza. Il che vuol dire che, evidentemente, suscita qualche preoccupazione al di là di quelle ideologiche.

Un movimento di classe o no?
In sé, il problema della natura di classe degli studenti, non dovrebbe essere particolarmente difficile da risolvere. Assumendo che il termine "classe" vada inteso in senso marxista, con riferimento, cioè, alla proprietà dei mezzi di produzione, è evidente che essi non formano una classe, ma appartengono a quelle di pertinenza delle relative famiglie. Se non sono una classe, ovviamente, non possono essere neanche una "classe generale", non ci piove. Ma qui sta il punto, perché il movimento degli studenti, o, quando si manifesta, il movimento dei "giovani" in generale, nonostante le sue caratteristiche non di classe, sembra minacciosamente in grado d'esprimere delle problematiche generali, capaci di riflettersi sull'intero corpo sociale, d'interessare, se risolte, l'intera organizzazione della società. Sembra anche in grado, talvolta, come s'è visto recentemente nella Repubblica Popolare Cinese, e come s'era visto in Italia e Francia attorno al '68, d'esercitare una qualche forma d'egemonia, o di avanguardia, rispetto ad altri soggetti sociali. È un movimento non di classe che si comporta come, secondo la teoria, dovrebbero comportarsi quelli di classe. Il che crea un'aporia che in un modo o nell'altro va risolta.
La soluzione più rapida, naturalmente, è quella di negare la teoria tradizionale marxista delle classi, e sostituirla con qualche analisi prammatica dei soggetti politici nella società industriale (si può farlo anche senza rinunciare all'armamentario marxiano, come dimostra tanta parte della tradizione operaista). Naturalmente non lo si può fare sempre. Nel '68 non si poteva: il riferimento ideologico alla classe operaia come unica protagonista rivoluzionaria era troppo essenziale, per ideologico che fosse, al movimento. Era necessario, così, ricorrere a mediazioni piuttosto complicate: ipotizzare una sorta di contiguità storica, meglio nota come "rapporto organico" tra studenti e operai, o definire gli studenti come futuri operai ("forza lavoro in via di formazione" era la formula), o, al limite, fingere di essere subordinati strategicamente alle esigenze storiche del movimento operaio. Spesso si tentavano tutte e tre le ipotesi assieme.
Oggi, naturalmente, visto che della classe operaia non sembra importare più niente a nessuno, lo si potrebbe fare benissimo. Anche tra le forze organizzate della sinistra quello che una volta si chiamava, in mancanza di meglio, revisionismo, non è più una tentazione latente, ma una passione scatenata. Che i giovani rappresentino il futuro, che siano, anzi, il futuro, e che quindi i problemi che pongono siano quelli su cui l'intera società civile dovrà in futuro misurarsi è sicuramente una banalità (anzi è una brutta metafora, non riducibile a un senso preciso), ma una di quelle banalità ripetendo le quali si può fare molta strada. La tentazione di disinteressarsi di tutta la questione, in definitiva, è molto forte, e quasi irresistibile.

I giovani adulti
Eppure il problema ha una sua logica. La condizione studentesca (che in società come la nostra, pur con qualche corposo residuo, tende a coincidere con quella giovanile) non sarà definibile in termini di classe, ma è lo stesso una condizione di rilevanza generale. Le sue problematiche non sono riducibili a quelle d'una rapida e indolore assimilazione nell'universo adulto ("il problema dei giovani è quello di crescere", secondo una vecchia formula crociana operante più profondamente di quanto si creda nella coscienza dei più), anche perché l'universo adulto è spesso restio a predisporre i necessari canali. Proprio per questo, tra l'altro, la condizione giovanile s'è dilatata, per così dire, nel tempo: lo strato della popolazione che vi ci si riconosce è più ampio di quanto non fosse una volta. Si diventa adulti (nel senso di "giovani adulti", creature in grado di ragionare con la propria testa) più presto di un tempo, ma lo si resta (nel senso di " adulti giovani", senza casa, senza lavoro e senza un'autonomia definita rispetto al corpo familiare) molto più a lungo. Nei paesi del nostro occidente capitalista (ma anche, a quanto ne so, nell'Europa orientale) questo strato "parassitario", nel senso di economicamente non produttivo, è in crescita rispetto al corpo sociale, e il fatto che non abbia rilevanza rispetto alla produzione non significa che sia irrilevante rispetto al quadro economico generale, dato che ha forte capacità d'orientare i consumi.
Una contraddizione in più, questa, che pesa quando si vuole costruire il modello sociale del "giovane" da far agire nei nostri scenari ideologici.
Senza voler entrare in una serie di questioni che mi sono essenzialmente estranee, mi limiterò a far notare un corollario cui di solito si presta meno attenzione di quanta forse si dovrebbe. Proprio in quanto la sua condizione socio-economica è quella del consumatore di beni che non produce, il "giovane" (con le virgolette, perché parlo qui di un'astrazione metodologicamente utile) è molto lontano dal modello classico del soggetto rivoluzionario, ma è, da un punto di vista rivoluzionario, privilegiato. É, se mi si permette una piccola provocazione, meno legato al regno della necessita, più "libero". Le sue opzioni sono più spesso di tipo "ideale", dato che dal peso della materialità è, beato lui, sollevato. Come l'eroe del mito, che non deve mai preoccuparsi di questioni volgari come quelle del pranzo e della cena, o quello dei telefilm, che vive in una situazione altrettanto privilegiata, in quanto membro di nuclei familiari ricchissimi o di organizzazioni totalizzanti, anche dal punto di vista delle fatture, il giovane è libero d'inseguire i valori cui improntare la sua vita e l'ambiente in cui vive. Che poi paghi questa libertà con una buona dose di sofferenze (i celebri "casini" con la famiglia) destinate a ripercuotersi nella sua psiche per decenni a venire è un altro discorso. Tutto si paga, in questo mondo, ma non sempre, quando si è giovani, lo si sa.
Ecco. Questa affermazione può sembrare una facezia, ma forse rappresenta il nucleo centrale di tutto il problema.

Quell'elemento di libertà
Naturalmente, che i giovani siano in qualche modo "più idealisti" degli adulti, più propensi, cioè, a far proprie delle norme di comportamento che prescindono dal criterio dell'interesse personale, è solo una vecchia banalità, un luogo comune. Chi ha occasione di frequentare, per un motivo o per l'altro, il mondo giovanile, sa che non è il caso di farci troppo affidamento. Il quadro valori medio di quel mondo è molto meno incoraggiante. Vi ha spazio, per esempio, un certo diffuso conformismo, come conseguenza quasi inevitabile della limitatezza delle esperienze (per i post adolescenti è difficile non introiettare le proposte ideologiche della famiglia e i condizionamenti della cultura diffusa nell'ambiente). Non vi è estranea una qualche forma d'arroganza, di chiusura verso gli altri da sé, intesi come categoria. Nelle comunità giovanili (le compagnie amicali, le classi scolastiche, le aggregazioni facenti perno su questa o quella attività del tempo libero) la consapevolezza dell'esistenza dei privilegi economici è tutt'altro che assente. L'attaccamento a certi oggetti di cui è noto l'alto valore venale, da esibirsi come status symbol costi quel che costi, è ormai ben noto a tutta la pubblicistica. E così via.
Resta tuttavia il fatto che, in termini di psicologia di gruppo, quell'elemento di "libertà" cui alludevo prima, non va sottovalutato. E che si coniuga spesso (non sempre) con una notevole disponibilità alle proposte nuove, a una certa facilità nel tagliarsi alle spalle i ponti ideologici pazientemente costruiti dalla famiglia e dalle varie istituzioni ad essa coordinate.
In altre parole, l'interesse "generale" rappresentato dai movimenti politici giovanili (studenteschi e no) è rappresentato soprattutto dal fatto che essi tendono a rapportarsi a un modello comunitario per certi versi utopico. Ciò non esclude tutte le possibili mediazioni con le modalità della politica "adulta" ma ne esclude abbastanza radicalmente certe dimensioni tradizionali. Per esempio, tutti sanno, nel mondo della scuola, quanto sia difficile utilizzare un qualsiasi movimento degli studenti per asseverare la prospettiva di una futura riforma dell'istituzione. Gli studenti sanno, con istintivo realismo, che la loro scuola è comunque quella che frequentano, e che quella (eventualmente) riformata sarà affare di altri. Non avendo veri e propri interessi istituzionali (il che è in fondo lo stesso che dire che il loro quadro di riferimento è utopico...), tendono a disinteressarsi della questione. Ma provate a riformargli, in senso contrario alle loro aspettative, questa scuola qui, a istituire hic et nunc un'esame, una tassa, uno sbarramento, e vedrete. L'esperienza del governo Chirac dovrebbe aver insegnato molte cose a molti.
Inutilizzabile in una strategia di riforme, il movimento degli studenti può dire molte cose da un altro punto di vista. Può rifiutare, rifiuta - in genere -, qualsiasi tentativo di ridurre l'autonomia dei soggetti concreti operanti in questa o quella istituzione. È sempre disponibile, insomma, su questioni di libertà. Una disponibilità che magari si fonda su un equivoco, e magari deriva da una condizione fuggevole e transitoria, ma che rappresenta - senza dubbio - il contributo indispensabile che le forze politiche giovanili possono portare alla lotta comune. Il senso, insomma, in cui gli studenti possono essere "classe generale".