Rivista Anarchica Online
Ecologia sociale
e pacifismo
di Murray Bookchin
I movimenti
pacifisti del passato non si limitavano ad auspicare negoziati tra le
superpotenze e cose simili. Si battevano contro il militarismo,
contro la sua cultura di violenza, sopraffazione e gerarchia. Oggi il
movimento per la pace deve riprendere questa battaglia. E quella,
parallela, per l'ecologia sociale.
Come accade con
altre parole importanti del nostro vocabolario il termine "pace"
sta perdendo il suo significato originario. Del resto, i concetti e
la lingua hanno un comune destino: come la memoria del passato viene
sistematicamente cancellata da mass-media funzionali al controllo
sociale (un problema che George Orwell aveva molto a cuore), così va
perduta anche la ricchezza di significato che i concetti e la lingua
possedevano. Di solito
attribuiamo alla parola "pace" un significato negativo, di
assenza di guerra. Se non c'è guerra, pensiamo, c'è pace. Ma di
fatto oggi, quando diciamo "pace", presupponiamo quasi
inconsapevolmente che non sia in corso una grande guerra, come le due
guerre mondiali. Perciò la parola "pace" non significa più
semplicemente assenza di guerra, ma spesso vuol dire soltanto assenza
di una guerra di considerevole entità. È
agghiacciante come il presidente Ronald Reagan e i suoi consiglieri
possano farsi beffe dell'opinione pubblica, asserendo che la politica
americana fondata sulla certezza dell'annientamento reciproco sia
stata più efficace, nel mantenere tranquille le grandi potenze
mondiali, delle politiche di disarmo che caratterizzarono il
ventennio tra i due conflitti mondiali. Gli orrori di guerre
"piccole" e apparentemente localizzate, come quella francese
in Indocina negli anni quaranta, che costò milioni di morti, o come
il bagno di sangue nel Medio Oriente di oggi, tra Iran e Iraq,
dimostrano inequivocabilmente l'insensibilità di un mondo, la cui
definizione di "pace" è ormai degradata come quella di "guerra". La situazione non
migliora, se si cerca di allineare ideologia e speranze a uno o
all'altro dei fronti aperti della guerra fredda. Ci siamo talmente
abituati a considerare la pace un prodotto di varie "iniziative"
e di richieste da parte delle superpotenze, che spesso ignoriamo
semplicemente i concetti di pace che una volta andavano oltre la mera
diplomazia e gli pseudo-conflitti come quelli che oggi divampano in
Africa, nell'America Centrale, nel Medio Oriente. La pace non è
semplicemente, né in modo decisivo, una questione diplomatica. Per
quanto i conflitti possano essere risolti dai diplomatici e da quelle
baracconate che chiamiamo "incontri al vertice", non
dimentichiamo che dietro a ogni diplomatico c'è un guerriero, e
dietro a ogni potenza c'è un armamentario in grado di distruggere il
pianeta. Anche se le nazioni
fossero disarmate, se il vangelo del disarmo risuonasse nel mondo, la
sofisticazione degli armamenti e l'uso di ingenti risorse per
elaborare nuove tecniche di sterminio di massa rimarrebbero obiettivi
primari della scienza e della tecnologia come oggi le conosciamo. Non
dimentichiamo che praticamente ogni nuova conquista tecnica o
scientifica deve qualcosa ai finanziamenti militari, sia essa in
campo medico o astronautico. La scienza e la tecnologia non fingono
neppure di essere neutrali: oggi tutto è nelle mani dei militari e
dello stato-nazione, dalle pratiche psicoterapeutiche più avanzate
agli studi sulla teoria della comunicazione. Non viviamo più
semplicemente in un'economia di mercato, razionalizzata e pur
militarizzata, come negli anni '30, così vicini a noi. Viviamo in
una società di mercato, cioè in un mondo in cui il bene di consumo
è penetrato in tutte le sfere della vita umana, senza risparmiare i
rapporti più intimi, i valori, le strutture familiari, l'ambiente
del quartiere e i sistemi di mutua assistenza in cui la mia
generazione poteva trovare scampo dalla sfera economica
industrializzata. La penetrazione del razionalismo industriale, che
ha il suo precedente storico e la sua più chiara espressione nel
militarismo, è un fenomeno di proporzioni storiche, e non soltanto
il risultato di uno sviluppo di nuovi mezzi per manipolare e
controllare l'opinione pubblica.
Contro il
militarismo
Tragicamente, oggi
non ricordiamo più che i movimenti pacifisti di due o tre
generazioni fa non auspicavano soltanto negoziati di pace tra le
superpotenze, la riduzione degli armamenti, la fine dei conflitti
armati, e così via. Condannavano il militarismo, una parola che è
quasi scomparsa dal nostro vocabolario proprio per il valore
universale che oggi possiede. La grande Internazionale socialista
degli anni precedenti il 1914 non si limitava a condannare
l'accumulazione e il perfezionamento degli armamenti; criticava anche
l'influenza dei fantocci in divisa e dei loro portavoce in borghese,
che vedevano nella guerra una missione e creavano una cultura
maschilista fondata sull'irreggimentazione, sul comando,
sull'obbedienza, sulla divisione sociale, sulla centralizzazione,
sull'esercizio delle tecniche di dominazione. Di fatto, l'immaginario
attinente alle cosiddette "qualità militaresche" faceva sì
che queste fossero sinonimo di "qualità maschili". La
guerra era la più alta espressione di volontà, di
auto-realizzazione; creava rapporti sociali che alimentavano un culto
del sacrificio fisico, del coraggio, dell'omicidio socialmente
scusabile. Pacifisti come
Tolstoj, Kropotkin, Rosa Luxemburg e Gandhi vedevano nel militarismo
una cultura da cancellare, pena l'impossibilità di fondare una
società razionale e umana. Questi pensatori non si limitarono a
condannare la guerra; diedero al concetto di pace un'accezione più
ampia, che escludeva le istituzioni, i simboli e i valori
profondamente radicati, e infine quella stessa sensibilità che
portava ad assumere nei confronti della realtà un atteggiamento
marziale. Talora solo a livello intuitivo, auspicavano una
pacificazione dello spirito umano, per cui la pace divenisse una
condizione creativa. Trascendendo anche il precetto cristiano, con il
suo messaggio d'amore e l'enfasi interiore sulla redenzione
individuale, essi auspicavano una redenzione sociale, non fondata su
una distinzione tra "buono" e "cattivo", bensì
sulla critica di una civiltà nata tra il cozzare delle armi del
guerriero dell'Età del Bronzo. Superando l'ipocrisia del pacifismo
convenzionale e della religiosità cristiana, cercarono di non
porgere l'altra guancia, ma di eliminare lo schiaffo che trasformava
il concetto di pace in una forma martirizzante di "amore" e in
una forma masochistica di auto-redenzione. Nulla turbava una
Rosa Luxemburg - tanto per citare la mia eroina prediletta - più
dell'immagine di un eroe, il cui "coraggio" era costituito da
un amalgama di crudeltà guerresca e di martirio pacifista. Per la
Luxemburg, il militarismo era una forma culturale globale, che
venerava l'eroe in tutte le sue forme, soldato o redentore che fosse.
Di qui il carattere profondamente libertario della sua adesione al
socialismo, e la critica della sua distorsione. I migliori movimenti
per la pace negli anni precedenti la prima guerra mondiale non erano
semplicemente pacifisti, né semplicemente antimperialisti. Erano
antimilitaristi, oltreché contrari alla guerra. Auspicavano lo
sradicamento delle basi psicologiche e sociali su cui si fondavano le
spinte all'irreggimentazione e al sacrificio, e volevano distruggere
la capacità di esercitare la forza nell'ambito di un'azione
culturale. Quindi per loro la guerra era una condizione permanente,
sinonimo del militarismo prussiano, del culto bonapartista francese e
della tradizione aristocratica inglese, che garantiva a Sandhurst un
inesauribile rifornimento di coscritti; insomma dell'etica stessa del
guerriero, che permeava una civiltà contaminata, formatasi nel corso
di migliaia di anni.
Alla ricerca
dell'armonia creativa
L'ecologia sociale
prende le mosse da questa ormai perduta tradizione di opposizione al
militarismo, e critica il concetto di Età del Bronzo di una società
- anzi, del "progresso" - vista come impresa soldatesca e
militare. Dal Rinascimento a oggi ci è stato ripetuto fino alla
nausea che l'immagine occidentale dell'individuo si rifà all'eroe
agonistico greco. Da un punto di vista ecologico radical - un punto
di vista che non baratta la propria integrità con l'inconsulto
riduzionismo della sociobiologia, né con il dualismo della
dominazione della natura da parte della società e della mente umana
- viene messo in dubbio lo stesso ethos dell'individuo in quanto
"eroe". Di fatto la provocazione, la sfida hanno un senso
in un mondo che è già strutturato sulla dominazione, sulla
gerarchia, su una concezione della realtà come agonismo e
competizione. E anche il coraggio ha un senso nell'ambito di uno
sviluppo sociale che si definisce e si giustifica, letteralmente, nei
termini di un conflitto tra la società e una natura "avara",
"dura", "crudele" e "determinista". L'ecologia sociale,
così come io la concepisco, mira alla formazione di un ethos, di una
struttura caratteriale e di una personalità che si definisca
nell'ambito di questo conflitto. Vivere in un'oscurità che alimenti
un senso faustiano di opposizione e di comando significa creare un
terreno fertile per la mistificazione che fa dell'ego una personalità
dominante. La cultura occidentale acquisita non è stata altro che
attivismo alimentato dal controllo dell'"alterità", anche
quando si celava sotto un atteggiamento goethiano, classico. Dal
canto suo, la ricettività passiva orientale non ci libera dal
problema. Esalta quasi sempre la vittima, senza la cui passività
l'eroe diventerebbe un buffone. Perciò il concetto
di pace dell'ecologia sociale implica la ricerca di un ethos di
armonia creativa. E questa ricerca comincia esattamente nel punto in
cui "l'uno" e "l'altro" s'incontrano "l'uno con
l'altro". L'ecologia sociale cerca di rielaborare l'esperienza in
modo tale che sia pregna di un'etica della complementarietà, che
però non ceda alla tentazione da "Nuova Era" di riconciliare
opposizioni reali, che possono essere risolte definitivamente
soltanto con un conflitto. Perciò conserva sempre la sua energia
critica, al pari di quella ricostruttiva. Ma la necessità di
ricostruire una dialettica della conciliazione, al posto di una
dialettica definita essenzialmente in termini conflittuali, richiede
che interagiamo e che definiamo noi stessi in termini di
interdipendenza tenendo pienamente conto della nostra unicità
individuale. Non bisogna
cercare la pace in un "eroe della pace", sia esso un Gandhi,
un Tolstoj o una Luxemburg, e neppure nel modesto accolito, che si
dissolve nel mondo supino della condizione di adorante discepolo.
Bisogna cercarla, invece, in quelle qualità dell'esperienza che
preservano l'individualità come "unicità", come diversità
che arricchisce la globalità in un rapporto reciproco tale per cui
anche la globalità arricchisce l'"unicità". Come ecologista
sociale non vedo la necessità che l'una cosa sia subordinata
all'altra. Di fatto, l'"alterità" e l'"unicità"
sono viste in termini di complementarietà, non di contrapposizione,
cosicché la ricchezza di varietà non solo favorisce una maggiore
ricchezza dell'insieme globale, ma apre anche un più ampio orizzonte
di libertà, in virtù delle scelte che una maggiore differenziazione
consente nell'ambito dell'evoluzione naturale e sociale.
Dominare la
natura?
Devo sottolineare
qui che soltanto un'immagine è stata usata nel modo più efficace
per validare la maggior parte dei nostri mali sociali: un'immagine
della natura e, in epoca più recente, dell'evoluzione sociale, vista
come "crudele", "determinista", "competitiva",
"dura". In questa serie di termini è insita una forma di
darwinismo sociale che anticipa di gran lunga le idee di Charles
Darwin e dei suoi meno sensibili accoliti. Quando parlo di questa
concezione della "natura", mi riferisco sia alla natura non
umana, sia alla natura umana. Fin dai tempi della
Bibbia, la società è stata intesa come una frusta capace di ridurre
all'obbedienza e alla sottomissione questa natura. Sotto questo
aspetto, si è trovata addirittura una base ideologica comune sia al
socialismo (soprattutto nella sua forma più convenzionale marxiana),
sia al fascismo e al liberalismo. La giustificazione della società
di classe, non meno evidente nel Manifesto comunista di quanto sia
nella Politica di Aristotele, si fonda sulla necessità di dominare
la natura umana e non umana. L'economia classica si definisce in
questi termini: come il conflitto tra "scarsità di risorse"
(leggi: una "dura" natura non umana) e "bisogni
illimitati" (leggi: una natura umana avida). La sociologia
convenzionale si definisce come elevazione della natura umana
rispetto alla natura animale, e molto di ciò che oggi si spaccia per
psicologia e pedagogia vede come il comportamento umano sia
controllato, condizionato e, per dirla francamente, manipolato
attraverso gli strumenti coercitivi della civilizzazione e
dell'educazione. In questo senso, i militari sono più sinceri degli
accademici, quando dicono che "l'esercito forma gli uomini"
- e forse, oggi, anche le donne. L'ecologia sociale
critica questa serie di concetti sottolineando la dimensione
partecipativa dell'evoluzione naturale: il mutualismo e la fecondità
della natura e la formazione embrionale della scelta, attraverso la
quale un primo barlume di libertà comincia a emergere dalla
complessità e varietà delle specie nelle ecocomunità
animali-vegetali. Date le linee evolutive alternative, rese possibili
dalla sempre maggiore complessità organica e dall'interazione
differenziata tra le forme di vita, le cose viventi partecipano
sempre più alla loro stessa evoluzione, e in modo del tutto
embrionale cominciano a manifestare quegli elementi di scelta,
intenzionalità e - posso azzardarmi a usare la parola? - libertà, che
sono già latenti nell'auto-perpetuazione degli organismi più
elementari. E qui mi associo volentieri a Hans Jonas nell'individuare
le fonti, dalle quali avrà origine l'evoluzione della soggettività,
che almeno potenzialmente può portare allo sviluppo intellettuale e
- in una società libera - a una reale autocoscienza. Questa concezione
mette in crisi quella visione del processo di civilizzazione che vede
non solo l'"alterità", ma (meno astrattamente) l'intera realtà
come campo di rivalità e di soggezione. Nell'ottica dell'ecologia
sociale, lo sviluppo è promosso dalla fecondità creativa di una
natura, umana o non umana che sia, la quale è costituita da
interdipendenza, complementarietà e globalità. Questo non è
soltanto un ethos radical, in contrasto con l'incessante lotta
faustiana dell'individuo contro il fato inesorabile, con un
atteggiamento guerresco di difesa; è una sensibilità che vede
un'individualità dotata di una varietà sempre più ricca e
creativa, che ammette la scelta evolutiva, la libertà nascente e in
definitiva l'autocoscienza - ma come tendenza, mi sia consentito
dirlo, più che come prodotto di una legge naturale inesorabile o una
impegnativa dialettica teleologica. La pace è
complementarietà e mutualismo creativi, oppure semplicemente una
forma di disarmo intellettuale ed etico, una cosa del tutto informe e
inarticolata, contraddistinta dall'assenza della guerra. Dal punto di
vista dell'ecologia sociale, la pace è qualcosa di più
dell'antimilitarismo; è un fenomeno istituzionale processuale,
attitudinale, etico, mutualistico e, come ho cercato di dimostrare in
altri miei scritti, liberamente organizzato. In breve, la pace è una
presenza ecologica e culturale attiva, che ha un carattere formativo,
generativo, autodirettivo. Tutto ciò che non sia compreso in questo
spettro di valori, rapporti e istituzioni, contiene già quelle forze
corrosive che portano al militarismo e alla guerra. Nel momento
stesso in cui la pace perde le sue fondamenta ecologiche ed
evolutive, comincia a trasformarsi nell'esatta antitesi di se stessa,
nella quale la guerra è un punto culminante in un processo
catabolico di auto-degenerazione. È vero che
l'antimilitarismo critica la guerra come cultura, e il pacifismo ci
offre l'opportunità di contrapporre la dignità personale alla
violenza, quando non si riduce a semplice auto-vittimismo. Ma in
mancanza di un processo o di una cultura attivi, radicati in un ethos
formativo sotto il profilo sociale e psicologico, che miri allo
sviluppo di una nuova società fondata sulla mutualità e sulla
complementarietà, non vedo un movimento per la pace, ma piuttosto un
movimento contro la guerra. E come si dice, senza eccessivo sforzo,
ma spesso anche senza risultato: "Tutti odiamo la guerra" -
o no?
Una nuova
economia morale
Mi sembra
significativo che oggi gli sforzi per creare un mondo sociale
veramente pacifico tendano a fondersi con gli sforzi per portare
l'umanità ad avere un rapporto veramente pacifico con la natura. Nel
corso del National Forum on Biodiversity (Convegno Nazionale sulla
Biodiversità), che si è riunito a Washington alla fine di
settembre, illustri scienziati hanno lanciato un allarme doveroso da
tempo, che la stampa quotidiana ha rilanciato con il titolo: "La
morte del nostro pianeta" (Boston Globe, 2 ottobre 1986). La
"distruzione umana" (avrei preferito il termine "distruzione
sociale") delle foreste pluviali, del suolo, degli oceani e
dell'atmosfera stessa preannunzia una forma di immolazione biologica
paragonabile solo a una guerra termonucleare. La commistione del
naturale con il sociale e il tentativo di dominare la natura (che ha
la sua vera origine nella dominazione dell'uomo da parte dell'uomo) è
ciò che giustifica, da parte mia, la definizione dell'ecologia con
il termine "sociale", e non con altri aggettivi come "umana"
o "profonda", che oggi sono molto in voga. Ciò che più
colpisce in questi avvertimenti, è che ci costringono ad allargare
il nostro concetto di pace, per includervi non soltanto la società,
ma anche la natura - in altre parole, a pensare alla pace in termini
di ecologia sociale, quindi di una ricostruzione sociale radicale - e
per criticare i rapporti gerarchici e di dominazione in tutte le
sfere dell'esistenza. Ma c'è di più: gli stessi avvertimenti ci
costringono ad allargare il nostro concetto di pace per includervi,
oltre alle considerazioni etiche che ho già esposto, anche la
comunità, la politica, la tecnologia. La pace presuppone e comprende
il ripristino di comunità libertarie e confederali, a misura d'uomo,
come controistituzioni da contrapporre allo stato-nazione sempre più
centralizzato. Finché ogni comunità non sarà commisurata alla
capacità di portata della comunità naturale nella quale è situata,
finché i rapporti sociali non saranno basati su "compattezze"
ecologiche alimentate da un'etica della complementarietà e finché
la politica non somiglierà in qualche modo a un'impresa
partecipatoria fondata su processi decisionali diretti, lo
stato-nazione cancellerà ogni residuo di potere che la gente
possiede, mentre l'urbanizzazione e la mentalità mercantile tipo
"cresci-o-muori" su cui si regge oggi l'economia
divoreranno città e campagne, lasciandosi dietro cemento e
grattacieli, monumenti a un'umanità stupidamente immolata. Infine, ciò che
più colpisce in questi severi avvertimenti è che ci costringono ad
allargare il nostro concetto di pace per includervi un'economia
morale fondata sull'aiuto reciproco e sui bisogni razionali, invece
di una "economia politica" incentrata sull'uso "efficiente"
delle "risorse naturali". In forme embrionali questa
economia morale, da non confondere con un'economia di mercato, è già
concepibile oggi. Ma il suo significato ecologico e sociale è legato
a una concezione della tecnica finalizzata alla valorizzazione della
natura e della diversità naturale, non al degrado della natura e
alla riduzione della varietà naturale. Ciò che rende tanto
importanti alcuni progressi tecnici, soprattutto su piccola scala
(come l'energia solare, l'energia eolica, l'uso di metano prodotto
organicamente dai rifiuti, l'agricoltura organica, e così via), in
equilibrata connessione con l'alta tecnologia, è il fatto che essi
introducono nella nostra vita, in modo materiale, il mondo naturale.
Il fatto che l'energia solare sia rinnovabile o efficiente
m'interessa meno del fatto che il sole riappaia nella nostra vita
come fonte diretta di benessere materiale. E, per fare un altro
esempio, i vantaggi offerti dall'agricoltura organica sotto il
profilo nutritivo, m'interessano meno del fatto che grazie a essa noi
possiamo recuperare un rapporto con la terra e con la vita vegetale,
e che possiamo rientrare nella catena alimentare in un modo
ecologico, che promuova una sensibilità armoniosa. Prese
complessivamente e integrate in un insieme globale, unificato, tutte
queste tecnologie costituiscono una nuova base materiale per una
società liberata e veramente pacifica, fondata su principi
ecologici. Potrei continuare
all'infinito con quella che in realtà è una serie di tesi, non
un'elaborazione di idee, esplorando un concetto ricostruttivo, etico,
ecologico e culturale della pace. Che ci piaccia o no, anche un
semplice movimento contro la guerra deve prevedere anche l'abolizione
della nostra guerra con la natura, oltreché della nostra guerra gli
uni contro gli altri, e deve sviluppare una nuova sensibilità, un
concetto allargato di pace che comporti un profondo rinnovamento dei
valori, dei rapporti sociali, delle comunità, della politica. In
realtà non esiste più una "pace" che sia soltanto assenza
di guerra e riduzione degli armamenti. Oggi siamo in
guerra ovunque, quotidianamente - con la natura e con il prossimo,
con l'ambiente e con l'economia competitiva, con le nostre comunità
e con lo stato-nazione.
conferenza
tenuta all'Università del Quebec, a Montreal (Canada), il
17.10.1986. Traduzione di Michele Buzzi
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