Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 144
marzo 1987


Rivista Anarchica Online

Ecologia sociale e pacifismo
di Murray Bookchin

I movimenti pacifisti del passato non si limitavano ad auspicare negoziati tra le superpotenze e cose simili. Si battevano contro il militarismo, contro la sua cultura di violenza, sopraffazione e gerarchia. Oggi il movimento per la pace deve riprendere questa battaglia. E quella, parallela, per l'ecologia sociale.

Come accade con altre parole importanti del nostro vocabolario il termine "pace" sta perdendo il suo significato originario. Del resto, i concetti e la lingua hanno un comune destino: come la memoria del passato viene sistematicamente cancellata da mass-media funzionali al controllo sociale (un problema che George Orwell aveva molto a cuore), così va perduta anche la ricchezza di significato che i concetti e la lingua possedevano.
Di solito attribuiamo alla parola "pace" un significato negativo, di assenza di guerra. Se non c'è guerra, pensiamo, c'è pace. Ma di fatto oggi, quando diciamo "pace", presupponiamo quasi inconsapevolmente che non sia in corso una grande guerra, come le due guerre mondiali. Perciò la parola "pace" non significa più semplicemente assenza di guerra, ma spesso vuol dire soltanto assenza di una guerra di considerevole entità.
È agghiacciante come il presidente Ronald Reagan e i suoi consiglieri possano farsi beffe dell'opinione pubblica, asserendo che la politica americana fondata sulla certezza dell'annientamento reciproco sia stata più efficace, nel mantenere tranquille le grandi potenze mondiali, delle politiche di disarmo che caratterizzarono il ventennio tra i due conflitti mondiali. Gli orrori di guerre "piccole" e apparentemente localizzate, come quella francese in Indocina negli anni quaranta, che costò milioni di morti, o come il bagno di sangue nel Medio Oriente di oggi, tra Iran e Iraq, dimostrano inequivocabilmente l'insensibilità di un mondo, la cui definizione di "pace" è ormai degradata come quella di "guerra".
La situazione non migliora, se si cerca di allineare ideologia e speranze a uno o all'altro dei fronti aperti della guerra fredda. Ci siamo talmente abituati a considerare la pace un prodotto di varie "iniziative" e di richieste da parte delle superpotenze, che spesso ignoriamo semplicemente i concetti di pace che una volta andavano oltre la mera diplomazia e gli pseudo-conflitti come quelli che oggi divampano in Africa, nell'America Centrale, nel Medio Oriente. La pace non è semplicemente, né in modo decisivo, una questione diplomatica. Per quanto i conflitti possano essere risolti dai diplomatici e da quelle baracconate che chiamiamo "incontri al vertice", non dimentichiamo che dietro a ogni diplomatico c'è un guerriero, e dietro a ogni potenza c'è un armamentario in grado di distruggere il pianeta.
Anche se le nazioni fossero disarmate, se il vangelo del disarmo risuonasse nel mondo, la sofisticazione degli armamenti e l'uso di ingenti risorse per elaborare nuove tecniche di sterminio di massa rimarrebbero obiettivi primari della scienza e della tecnologia come oggi le conosciamo. Non dimentichiamo che praticamente ogni nuova conquista tecnica o scientifica deve qualcosa ai finanziamenti militari, sia essa in campo medico o astronautico. La scienza e la tecnologia non fingono neppure di essere neutrali: oggi tutto è nelle mani dei militari e dello stato-nazione, dalle pratiche psicoterapeutiche più avanzate agli studi sulla teoria della comunicazione. Non viviamo più semplicemente in un'economia di mercato, razionalizzata e pur militarizzata, come negli anni '30, così vicini a noi. Viviamo in una società di mercato, cioè in un mondo in cui il bene di consumo è penetrato in tutte le sfere della vita umana, senza risparmiare i rapporti più intimi, i valori, le strutture familiari, l'ambiente del quartiere e i sistemi di mutua assistenza in cui la mia generazione poteva trovare scampo dalla sfera economica industrializzata. La penetrazione del razionalismo industriale, che ha il suo precedente storico e la sua più chiara espressione nel militarismo, è un fenomeno di proporzioni storiche, e non soltanto il risultato di uno sviluppo di nuovi mezzi per manipolare e controllare l'opinione pubblica.

Contro il militarismo
Tragicamente, oggi non ricordiamo più che i movimenti pacifisti di due o tre generazioni fa non auspicavano soltanto negoziati di pace tra le superpotenze, la riduzione degli armamenti, la fine dei conflitti armati, e così via. Condannavano il militarismo, una parola che è quasi scomparsa dal nostro vocabolario proprio per il valore universale che oggi possiede. La grande Internazionale socialista degli anni precedenti il 1914 non si limitava a condannare l'accumulazione e il perfezionamento degli armamenti; criticava anche l'influenza dei fantocci in divisa e dei loro portavoce in borghese, che vedevano nella guerra una missione e creavano una cultura maschilista fondata sull'irreggimentazione, sul comando, sull'obbedienza, sulla divisione sociale, sulla centralizzazione, sull'esercizio delle tecniche di dominazione. Di fatto, l'immaginario attinente alle cosiddette "qualità militaresche" faceva sì che queste fossero sinonimo di "qualità maschili". La guerra era la più alta espressione di volontà, di auto-realizzazione; creava rapporti sociali che alimentavano un culto del sacrificio fisico, del coraggio, dell'omicidio socialmente scusabile.
Pacifisti come Tolstoj, Kropotkin, Rosa Luxemburg e Gandhi vedevano nel militarismo una cultura da cancellare, pena l'impossibilità di fondare una società razionale e umana. Questi pensatori non si limitarono a condannare la guerra; diedero al concetto di pace un'accezione più ampia, che escludeva le istituzioni, i simboli e i valori profondamente radicati, e infine quella stessa sensibilità che portava ad assumere nei confronti della realtà un atteggiamento marziale. Talora solo a livello intuitivo, auspicavano una pacificazione dello spirito umano, per cui la pace divenisse una condizione creativa. Trascendendo anche il precetto cristiano, con il suo messaggio d'amore e l'enfasi interiore sulla redenzione individuale, essi auspicavano una redenzione sociale, non fondata su una distinzione tra "buono" e "cattivo", bensì sulla critica di una civiltà nata tra il cozzare delle armi del guerriero dell'Età del Bronzo. Superando l'ipocrisia del pacifismo convenzionale e della religiosità cristiana, cercarono di non porgere l'altra guancia, ma di eliminare lo schiaffo che trasformava il concetto di pace in una forma martirizzante di "amore" e in una forma masochistica di auto-redenzione.
Nulla turbava una Rosa Luxemburg - tanto per citare la mia eroina prediletta - più dell'immagine di un eroe, il cui "coraggio" era costituito da un amalgama di crudeltà guerresca e di martirio pacifista. Per la Luxemburg, il militarismo era una forma culturale globale, che venerava l'eroe in tutte le sue forme, soldato o redentore che fosse. Di qui il carattere profondamente libertario della sua adesione al socialismo, e la critica della sua distorsione. I migliori movimenti per la pace negli anni precedenti la prima guerra mondiale non erano semplicemente pacifisti, né semplicemente antimperialisti. Erano antimilitaristi, oltreché contrari alla guerra. Auspicavano lo sradicamento delle basi psicologiche e sociali su cui si fondavano le spinte all'irreggimentazione e al sacrificio, e volevano distruggere la capacità di esercitare la forza nell'ambito di un'azione culturale. Quindi per loro la guerra era una condizione permanente, sinonimo del militarismo prussiano, del culto bonapartista francese e della tradizione aristocratica inglese, che garantiva a Sandhurst un inesauribile rifornimento di coscritti; insomma dell'etica stessa del guerriero, che permeava una civiltà contaminata, formatasi nel corso di migliaia di anni.

Alla ricerca dell'armonia creativa
L'ecologia sociale prende le mosse da questa ormai perduta tradizione di opposizione al militarismo, e critica il concetto di Età del Bronzo di una società - anzi, del "progresso" - vista come impresa soldatesca e militare. Dal Rinascimento a oggi ci è stato ripetuto fino alla nausea che l'immagine occidentale dell'individuo si rifà all'eroe agonistico greco. Da un punto di vista ecologico radical - un punto di vista che non baratta la propria integrità con l'inconsulto riduzionismo della sociobiologia, né con il dualismo della dominazione della natura da parte della società e della mente umana - viene messo in dubbio lo stesso ethos dell'individuo in quanto "eroe". Di fatto la provocazione, la sfida hanno un senso in un mondo che è già strutturato sulla dominazione, sulla gerarchia, su una concezione della realtà come agonismo e competizione. E anche il coraggio ha un senso nell'ambito di uno sviluppo sociale che si definisce e si giustifica, letteralmente, nei termini di un conflitto tra la società e una natura "avara", "dura", "crudele" e "determinista".
L'ecologia sociale, così come io la concepisco, mira alla formazione di un ethos, di una struttura caratteriale e di una personalità che si definisca nell'ambito di questo conflitto. Vivere in un'oscurità che alimenti un senso faustiano di opposizione e di comando significa creare un terreno fertile per la mistificazione che fa dell'ego una personalità dominante. La cultura occidentale acquisita non è stata altro che attivismo alimentato dal controllo dell'"alterità", anche quando si celava sotto un atteggiamento goethiano, classico. Dal canto suo, la ricettività passiva orientale non ci libera dal problema. Esalta quasi sempre la vittima, senza la cui passività l'eroe diventerebbe un buffone.
Perciò il concetto di pace dell'ecologia sociale implica la ricerca di un ethos di armonia creativa. E questa ricerca comincia esattamente nel punto in cui "l'uno" e "l'altro" s'incontrano "l'uno con l'altro". L'ecologia sociale cerca di rielaborare l'esperienza in modo tale che sia pregna di un'etica della complementarietà, che però non ceda alla tentazione da "Nuova Era" di riconciliare opposizioni reali, che possono essere risolte definitivamente soltanto con un conflitto. Perciò conserva sempre la sua energia critica, al pari di quella ricostruttiva. Ma la necessità di ricostruire una dialettica della conciliazione, al posto di una dialettica definita essenzialmente in termini conflittuali, richiede che interagiamo e che definiamo noi stessi in termini di interdipendenza tenendo pienamente conto della nostra unicità individuale.
Non bisogna cercare la pace in un "eroe della pace", sia esso un Gandhi, un Tolstoj o una Luxemburg, e neppure nel modesto accolito, che si dissolve nel mondo supino della condizione di adorante discepolo. Bisogna cercarla, invece, in quelle qualità dell'esperienza che preservano l'individualità come "unicità", come diversità che arricchisce la globalità in un rapporto reciproco tale per cui anche la globalità arricchisce l'"unicità". Come ecologista sociale non vedo la necessità che l'una cosa sia subordinata all'altra. Di fatto, l'"alterità" e l'"unicità" sono viste in termini di complementarietà, non di contrapposizione, cosicché la ricchezza di varietà non solo favorisce una maggiore ricchezza dell'insieme globale, ma apre anche un più ampio orizzonte di libertà, in virtù delle scelte che una maggiore differenziazione consente nell'ambito dell'evoluzione naturale e sociale.

Dominare la natura?
Devo sottolineare qui che soltanto un'immagine è stata usata nel modo più efficace per validare la maggior parte dei nostri mali sociali: un'immagine della natura e, in epoca più recente, dell'evoluzione sociale, vista come "crudele", "determinista", "competitiva", "dura". In questa serie di termini è insita una forma di darwinismo sociale che anticipa di gran lunga le idee di Charles Darwin e dei suoi meno sensibili accoliti. Quando parlo di questa concezione della "natura", mi riferisco sia alla natura non umana, sia alla natura umana.
Fin dai tempi della Bibbia, la società è stata intesa come una frusta capace di ridurre all'obbedienza e alla sottomissione questa natura. Sotto questo aspetto, si è trovata addirittura una base ideologica comune sia al socialismo (soprattutto nella sua forma più convenzionale marxiana), sia al fascismo e al liberalismo. La giustificazione della società di classe, non meno evidente nel Manifesto comunista di quanto sia nella Politica di Aristotele, si fonda sulla necessità di dominare la natura umana e non umana. L'economia classica si definisce in questi termini: come il conflitto tra "scarsità di risorse" (leggi: una "dura" natura non umana) e "bisogni illimitati" (leggi: una natura umana avida). La sociologia convenzionale si definisce come elevazione della natura umana rispetto alla natura animale, e molto di ciò che oggi si spaccia per psicologia e pedagogia vede come il comportamento umano sia controllato, condizionato e, per dirla francamente, manipolato attraverso gli strumenti coercitivi della civilizzazione e dell'educazione. In questo senso, i militari sono più sinceri degli accademici, quando dicono che "l'esercito forma gli uomini" - e forse, oggi, anche le donne.
L'ecologia sociale critica questa serie di concetti sottolineando la dimensione partecipativa dell'evoluzione naturale: il mutualismo e la fecondità della natura e la formazione embrionale della scelta, attraverso la quale un primo barlume di libertà comincia a emergere dalla complessità e varietà delle specie nelle ecocomunità animali-vegetali. Date le linee evolutive alternative, rese possibili dalla sempre maggiore complessità organica e dall'interazione differenziata tra le forme di vita, le cose viventi partecipano sempre più alla loro stessa evoluzione, e in modo del tutto embrionale cominciano a manifestare quegli elementi di scelta, intenzionalità e - posso azzardarmi a usare la parola? - libertà, che sono già latenti nell'auto-perpetuazione degli organismi più elementari. E qui mi associo volentieri a Hans Jonas nell'individuare le fonti, dalle quali avrà origine l'evoluzione della soggettività, che almeno potenzialmente può portare allo sviluppo intellettuale e - in una società libera - a una reale autocoscienza.
Questa concezione mette in crisi quella visione del processo di civilizzazione che vede non solo l'"alterità", ma (meno astrattamente) l'intera realtà come campo di rivalità e di soggezione. Nell'ottica dell'ecologia sociale, lo sviluppo è promosso dalla fecondità creativa di una natura, umana o non umana che sia, la quale è costituita da interdipendenza, complementarietà e globalità. Questo non è soltanto un ethos radical, in contrasto con l'incessante lotta faustiana dell'individuo contro il fato inesorabile, con un atteggiamento guerresco di difesa; è una sensibilità che vede un'individualità dotata di una varietà sempre più ricca e creativa, che ammette la scelta evolutiva, la libertà nascente e in definitiva l'autocoscienza - ma come tendenza, mi sia consentito dirlo, più che come prodotto di una legge naturale inesorabile o una impegnativa dialettica teleologica.
La pace è complementarietà e mutualismo creativi, oppure semplicemente una forma di disarmo intellettuale ed etico, una cosa del tutto informe e inarticolata, contraddistinta dall'assenza della guerra. Dal punto di vista dell'ecologia sociale, la pace è qualcosa di più dell'antimilitarismo; è un fenomeno istituzionale processuale, attitudinale, etico, mutualistico e, come ho cercato di dimostrare in altri miei scritti, liberamente organizzato. In breve, la pace è una presenza ecologica e culturale attiva, che ha un carattere formativo, generativo, autodirettivo. Tutto ciò che non sia compreso in questo spettro di valori, rapporti e istituzioni, contiene già quelle forze corrosive che portano al militarismo e alla guerra. Nel momento stesso in cui la pace perde le sue fondamenta ecologiche ed evolutive, comincia a trasformarsi nell'esatta antitesi di se stessa, nella quale la guerra è un punto culminante in un processo catabolico di auto-degenerazione.
È vero che l'antimilitarismo critica la guerra come cultura, e il pacifismo ci offre l'opportunità di contrapporre la dignità personale alla violenza, quando non si riduce a semplice auto-vittimismo. Ma in mancanza di un processo o di una cultura attivi, radicati in un ethos formativo sotto il profilo sociale e psicologico, che miri allo sviluppo di una nuova società fondata sulla mutualità e sulla complementarietà, non vedo un movimento per la pace, ma piuttosto un movimento contro la guerra. E come si dice, senza eccessivo sforzo, ma spesso anche senza risultato: "Tutti odiamo la guerra" - o no?

Una nuova economia morale
Mi sembra significativo che oggi gli sforzi per creare un mondo sociale veramente pacifico tendano a fondersi con gli sforzi per portare l'umanità ad avere un rapporto veramente pacifico con la natura. Nel corso del National Forum on Biodiversity (Convegno Nazionale sulla Biodiversità), che si è riunito a Washington alla fine di settembre, illustri scienziati hanno lanciato un allarme doveroso da tempo, che la stampa quotidiana ha rilanciato con il titolo: "La morte del nostro pianeta" (Boston Globe, 2 ottobre 1986). La "distruzione umana" (avrei preferito il termine "distruzione sociale") delle foreste pluviali, del suolo, degli oceani e dell'atmosfera stessa preannunzia una forma di immolazione biologica paragonabile solo a una guerra termonucleare. La commistione del naturale con il sociale e il tentativo di dominare la natura (che ha la sua vera origine nella dominazione dell'uomo da parte dell'uomo) è ciò che giustifica, da parte mia, la definizione dell'ecologia con il termine "sociale", e non con altri aggettivi come "umana" o "profonda", che oggi sono molto in voga.
Ciò che più colpisce in questi avvertimenti, è che ci costringono ad allargare il nostro concetto di pace, per includervi non soltanto la società, ma anche la natura - in altre parole, a pensare alla pace in termini di ecologia sociale, quindi di una ricostruzione sociale radicale - e per criticare i rapporti gerarchici e di dominazione in tutte le sfere dell'esistenza. Ma c'è di più: gli stessi avvertimenti ci costringono ad allargare il nostro concetto di pace per includervi, oltre alle considerazioni etiche che ho già esposto, anche la comunità, la politica, la tecnologia. La pace presuppone e comprende il ripristino di comunità libertarie e confederali, a misura d'uomo, come controistituzioni da contrapporre allo stato-nazione sempre più centralizzato. Finché ogni comunità non sarà commisurata alla capacità di portata della comunità naturale nella quale è situata, finché i rapporti sociali non saranno basati su "compattezze" ecologiche alimentate da un'etica della complementarietà e finché la politica non somiglierà in qualche modo a un'impresa partecipatoria fondata su processi decisionali diretti, lo stato-nazione cancellerà ogni residuo di potere che la gente possiede, mentre l'urbanizzazione e la mentalità mercantile tipo "cresci-o-muori" su cui si regge oggi l'economia divoreranno città e campagne, lasciandosi dietro cemento e grattacieli, monumenti a un'umanità stupidamente immolata.
Infine, ciò che più colpisce in questi severi avvertimenti è che ci costringono ad allargare il nostro concetto di pace per includervi un'economia morale fondata sull'aiuto reciproco e sui bisogni razionali, invece di una "economia politica" incentrata sull'uso "efficiente" delle "risorse naturali". In forme embrionali questa economia morale, da non confondere con un'economia di mercato, è già concepibile oggi. Ma il suo significato ecologico e sociale è legato a una concezione della tecnica finalizzata alla valorizzazione della natura e della diversità naturale, non al degrado della natura e alla riduzione della varietà naturale. Ciò che rende tanto importanti alcuni progressi tecnici, soprattutto su piccola scala (come l'energia solare, l'energia eolica, l'uso di metano prodotto organicamente dai rifiuti, l'agricoltura organica, e così via), in equilibrata connessione con l'alta tecnologia, è il fatto che essi introducono nella nostra vita, in modo materiale, il mondo naturale. Il fatto che l'energia solare sia rinnovabile o efficiente m'interessa meno del fatto che il sole riappaia nella nostra vita come fonte diretta di benessere materiale. E, per fare un altro esempio, i vantaggi offerti dall'agricoltura organica sotto il profilo nutritivo, m'interessano meno del fatto che grazie a essa noi possiamo recuperare un rapporto con la terra e con la vita vegetale, e che possiamo rientrare nella catena alimentare in un modo ecologico, che promuova una sensibilità armoniosa. Prese complessivamente e integrate in un insieme globale, unificato, tutte queste tecnologie costituiscono una nuova base materiale per una società liberata e veramente pacifica, fondata su principi ecologici.
Potrei continuare all'infinito con quella che in realtà è una serie di tesi, non un'elaborazione di idee, esplorando un concetto ricostruttivo, etico, ecologico e culturale della pace. Che ci piaccia o no, anche un semplice movimento contro la guerra deve prevedere anche l'abolizione della nostra guerra con la natura, oltreché della nostra guerra gli uni contro gli altri, e deve sviluppare una nuova sensibilità, un concetto allargato di pace che comporti un profondo rinnovamento dei valori, dei rapporti sociali, delle comunità, della politica. In realtà non esiste più una "pace" che sia soltanto assenza di guerra e riduzione degli armamenti.
Oggi siamo in guerra ovunque, quotidianamente - con la natura e con il prossimo, con l'ambiente e con l'economia competitiva, con le nostre comunità e con lo stato-nazione.

conferenza tenuta all'Università del Quebec, a Montreal (Canada), il 17.10.1986. Traduzione di Michele Buzzi