Rivista Anarchica Online
Tecnologia e
libertà
di Andrea Papi
A Lisbona, dall'8
al 10 aprile, si terrà un Colloquio Internazionale di Studi sul tema
"Tecnologia e libertà", organizzato dal Circolo de Estudos
Neno Vasco, in collaborazione con la rivista "A Ideia" e
l'editrice "Sementeira". Tra i relatori
ci sarà, con il testo che pubblichiamo in queste pagine, il nostro
collaboratore Andrea Papi.
È ancora possibile
una strategia rivoluzionaria per trasformare la società? La domanda che ci
siamo posti, semplice all'atto della definizione, appare invece molto
complicata nel momento in cui si tenta di abbozzare una risposta.
Infatti è composta di elementi estremamente complessi e
difficilmente integrabili nella direzione di un'eventuale quanto poco
probabile soluzione. Questi elementi sono essenzialmente tre: la
rivoluzione, la strategia e la società nella fase in cui stiamo
vivendo. Perciò li affronteremo prima separatamente, poi alla
ricerca di eventuali connessioni, contrapposizioni e interrelazioni.
Soltanto in questo modo appare possibile un abbozzo di risposta che
riesca ad avere un senso.
Rivoluzione,
strategia, società
La rivoluzione è
l'elemento fascinoso; è il cambiamento, la trasformazione che
abbiamo sempre auspicato, la realizzazione del sogno che ci siamo
sempre raffigurati attraverso la rappresentazione utopica. Essa ha
mille volti e mille possibilità, tutte ricollegabili ai desideri,
anche i più intimi, prodotti dalla nostra insoddisfazione del
presente stato di cose. La rivoluzione è intesa come la strada che
conduce alla topia della utopia ipotizzata fantasticamente. Per
questo diventa una necessità, indispensabile a realizzare la
tensione escatologica. Il sociale si muove
all'interno di continue contrapposizioni tra il bisogno di
conservazione e quello di trasformazione; tra la paura del nuovo e il
bisogno del consolidato; tra la nausea per le abitudini e le
accettazioni che si sclerotizzano e l'attrazione verso il
cambiamento. La rivoluzione si inserisce in questa dicotomia
esistenziale perché traduce nel concreto una modificazione alle
radici. Non si accontenta di normali mutazioni che, alla fin fine,
non fanno altro che consolidare il senso del presente, o di piccoli
miglioramenti. È altresì una metamorfosi "genetica".
Infatti, la differenza sostanziale tra una rivoluzione e qualsiasi
altro tipo di mutamento sta proprio nel senso, nella tensione
espressa verso il nuovo. Per tutto ciò, la
marcia verso una strutturazione sociale riconoscibile nei presupposti
dell'anarchia, cioè della massima libertà possibile
collettivamente, è di per sé un evento rivoluzionario. Non ha
importanza che avvenga in modo traumatico e violento attraverso
un'insurrezione, oppure lentamente con progressione. È in sé una
motivazione irreversibile dei presupposti dominanti e un loro
superamento senza ritorno. Nel momento in cui in qualche modo riesce
a realizzarsi, l'anarchia agisce sempre come propulsione
rivoluzionaria trasformando da cima a fondo l'assetto sociale.
Anarchismo perciò vuol anche dire inscindibilmente Rivoluzione. La strategia oggi
esprime una concettualità che rischia di essere ambigua. Il suo
significato originario indica una programmazione proiettata nel lungo
periodo, implicante anche l'impiego di strumenti politici e militari
nella conduzione dei conflitti. L'uso corrente ne ha trasformato la
semantica, al punto che viene usata per ogni tipo di programmazione a
lungo termine. Nel linguaggio politico delle teorie che ancora
preconizzano mezzi rivoluzionari, viene correntemente usata per
definire un programma di azione capace di condurre alla vittoria
finale nel conflitto con le forze conservatrici dominanti. Per
questo, ogni teoria rivoluzionaria che si rispetti elabora una
strategia per precisare a priori il senso del proprio intervento. Noi la useremo con
questa accezione, intendendo quindi un programma capace di indicarci
la strada maestra per la realizzazione del nostro progetto utopico,
dal momento, come abbiamo visto più sopra, che anarchia e
rivoluzione sono inscindibili e la concretizzazione dell'una
presuppone l'evento dell'altra. Per questo proposito, il quesito cui
ci interessa rispondere è se l'avverarsi di una rivoluzione,
finalizzata all'escatologia del nostro ideale, debba necessariamente
e imprescindibilmente usufruire di una strategia che, in quanto tale,
deve essere prevista e definita prima, per poter essere verificata
poi. La società, nella
fase in cui stiamo vivendo, è praticamente indefinibile. La
complessità di tutti i livelli che la compongono è talmente ampia
che non è delimitabile da una definizione onnicomprensiva. Può
essere vista e analizzata da diversi punti di vista, ma, da qualsiasi
parte o latitudine la si prenda in esame, ci vuole la consapevolezza
che si tratta di una parte soltanto, anche se questa poi venisse a
risultare preponderante. In questa circostanza ci interessa
analizzare in modo particolare il dominio, sia dal punto di vista
strutturale sia da quello degli effetti che produce. Premetto che per
"fase attuale" non intendo semplicemente il presente
specifico in atto, bensì una tendenza destinata a perdurare per un
lungo periodo di tempo, che però nel presente è particolarmente
tangibile fino al punto da caratterizzarlo. La chiamerò "società
del controllo" perché identifico, appunto nella fase attuale,
una tendenza sempre più pregnante e asfissiante a controllare gli
esseri umani da parte dei poteri costituiti. Un controllo sempre più
spudorato ed eticamente immorale, determinato alla prevaricazione che
essenzialmente utilizza, almeno mi sembra, il livello tecnologico in
atto. In altre parole un controllo tecnologico sulla società.
L'esempio
dell'ecosistema
Innanzitutto una
premessa: sono fermamente convinto che, ai fini di una comprensione
realistica della realtà, non ha senso la ricerca degli elementi
strutturali determinanti e di quelli conseguentemente
sovrastrutturali. Una simile visione ha senso solo all'interno di
un'ottica limitatamente idealistica e dialettica, proprio perché
tende a definire uno schema preordinato e pregiudiziale. Mi rendo
conto che la società è strutturata e in tal senso anche definibile,
ma sono consapevole che questa strutturazione non è né fissa né
definita, mentre usufruisce di molti elementi concomitanti ed è
identificabile in diverse parti. Se ci si vuol rendere conto di ciò
che si ha di fronte, non preordinabile né pregiudiziabile, ci si
deve sforzare di vedere e comprendere la società come un insieme di
tutti gli elementi e le parti che la compongono, senza stabilire
pregiudizialmente una gerarchia tra loro. Definendo la fase attuale
"società del controllo", intendo questo controllo come
l'elemento di riferimento comune a tutte le parti e gli elementi che
compongono l'insieme strutturale. Controllo come necessità di potere
per mantenere il dominio che ci sovrasta. Controllo come strumento e
legame che gli apparati di potere in auge mantengono, per allacciarsi
alla complessità sociale ad essi subordinata e dominarla. Gli elementi di
base su cui il controllo si conferma, consolida e perpetua sono
essenzialmente due: la semplificazione delle complessità e il
livello tecnologico. Per rendere meglio questa affermazione, mi
allaccio a un'immagine di tipo ecologico. Un ecosistema equilibrato e
non alterato appare come un'armonia estremamente complessa di
tantissime manifestazioni individuali in cui ognuna svolge un ruolo
particolare e insopprimibile, ai fini della fruizione dell'energia al
più basso livello di entropia. Tale armonia si regge su un accordo
non stipulato e non scritto, non imposto e non convenzionato, ma
consolidatosi nel tempo attraverso l'esperienza tra tutte le
manifestazioni individuali che ne fanno parte e vi concorrono. È
un'armonia non definibile in altri modi che naturale, cui partecipano
tutti e che non ha assolutamente bisogno di un controllo gerarchico
dall'alto. È una specie di autogestione che usufruisce di una
normativa da tutti condivisa senza essere imposta. Una strutturazione
gerarchica è essenzialmente il contrario di un ecosistema. La
gerarchia infatti è una imposizione di valori diversificati secondo
un metodo per cui il potere non viene equamente distribuito, mentre
appartiene a un numero limitato di individui che lo possono imporre a
tutti gli altri. Non è armonica, ma disarmonica. Per imporsi deve
controllare il livello di accettazione di chi subisce, per cui non
può rispettare la complessità perché poco controllabile, se non
addirittura incontrollabile, ma deve semplificare il più possibile,
ai fini di riuscire a controllare meglio. Ecco il senso della
burocrazia. Il livello
tecnologico, sempre più sofisticato e basato su sistemi telematici
di informazione computerizzata, permette di esercitare un controllo
sempre più capillare ed efficiente, di memorizzare i dati raccolti,
schedarli e renderli noti in brevissimo tempo ogni volta che vengono
richiesti. La tecnologia è funzionale al controllo e questo è
funzionale alla tecnologia, perché l'uno è stato impostato sulla
base dell'altra e viceversa.
Il tramonto
della strategia insurrezionale
Definiti con
consapevole relatività questi tre elementi concettuali, bisogna ora
identificare le eventuali connessioni, contrapposizioni e
interrelazioni. Operazione indispensabile per riuscire a comprendere
il senso delle nostre scelte future. La domanda posta da
questa relazione chiede se è ancora possibile ipotizzare una
strategia rivoluzionaria funzionale alla trasformazione sociale
auspicata. Per riuscire a rispondere vorrei soffermarmi prima un
attimo sulla soluzione teorico-pratica prescelta, almeno fino alla
sconfitta definitiva e irreversibile della rivoluzione spagnola del
1936. Fino ad allora il movimento anarchico internazionale, nel suo
complesso, aveva propugnato l'insurrezione come il mezzo principale
atto a realizzare una rivoluzione capace di rendere praticabile una
società anarchica a livello di massa. Non tutti gli anarchici si
sono riconosciuti in questa scelta di fondo, ma quei pochi che non vi
si accostarono, pur costituendo una rilevanza non indifferente a
livello teorico, sono sempre risultati quasi ininfluenti dal punto di
vista pratico. Così nella sua complessità il movimento anarchico si
è sempre mosso nella direzione della insurrezione generalizzata,
devolvendoIe consapevolmente la massima parte delle sue energie. Almeno fino alla
fine della rivoluzione spagnola, la scelta insurrezionale si è
sempre basata su due concetti di fondo: quello dell'abbattimento e
quello del momento risolutore. L'abbattimento violento dello stato
era ritenuto indispensabile per poter cominciare a vivere socialmente
l'anarchia. In tal senso l'insurrezione vittoriosa del popolo
diventava il vero momento risolutore, in grado di dare spinta e
impulso al progetto utopico. E l'azione, la propaganda, le scelte di
pratica immediata erano tutte improntate a rendere operante questa
ipotesi, fondata sulla dichiarazione di guerra alle istituzioni del
potere vigente. Una ipotesi
strategica che è sempre stata smentita dai fatti, perché è sempre
stata sconfitta. Non poteva accadere diversamente. Dalla rivoluzione
francese del 1789 in poi, ogni volta che la rivoluzione si è imposta
con l'insurrezione, per una serie di motivi che qui non analizzerò,
non solo il progetto anarchico non si è materializzato, ma è sempre
stato cancellato brutalmente dalla scena politica. Una delle ragioni
principali delle continue sconfitte, sta nel fatto che coloro che lo
propugnavano hanno sempre affidato tutte le loro speranze e le loro
energie essenzialmente all'evento insurrezionale, ritenuto capace di
abbattere il potere e di instaurare, quasi magicamente per effetto
taumaturgico, il sogno della libertà organizzata attraverso l'autogestione sociale. Alla luce di ciò
che ho appena detto, ritengo che la strategia insurrezionale oggi non
sia più proponibile. Penso sia invece urgente porsi il problema se è
possibile un'altra strategia o, addirittura, se ha ancora senso
continuare a parlare di strategia. Come abbiamo visto, strategia si
riferisce a una programmazione a lungo termine in grado di
identificare la strada maestra, cioè il momento fondamentale che
permetta la realizzazione del fine preposto. Essa dunque si sofferma
su un punto focale che diviene, necessariamente, il riferimento
preferenziale, e assume una tale importanza da convogliare la maggior
parte delle energie, se non tutte, al fine scelto. Vi è in tutto ciò
un rischio che ritengo notevole: quello di identificare il momento
strategico col fine, al punto che se il primo fallisce, il secondo
viene considerato impraticabile, ovvero irrealizzabile. La strategia
insurrezionale, da troppi ancora intesa come l'unico modo per
pervenire all'auspicata anarchia, è un esempio illuminante e fin
troppo chiaro.
Una possibilità
tra tante
La società non è
un'entità statica, definibile una volta per tutte. Anzi! Con
certezza si può affermare che è in continuo divenire, esprime un
cambiamento costante. Non ha senso però giudicare questo divenire
con una valenza o di tipo negativo o positivo. Il negativo e il
positivo sono legati alle scelte etiche, indispensabili per essere
presenti e per agire, ma privi, per la loro stessa natura, di
qualsiasi oggettività. Infatti il comportamento e l'orientamento
etici sono sempre soggettivi e permettono una collocazione
all'interno della società, ma non ne dipendono direttamente. Il
cambiamento invece, comunque avvenga, è di per sé oggettivo.
Saranno poi la nostra volontà e la nostra esperienza personali a
permettere di riconoscerci in esso, oppure a contrastarlo, oppure
ancora ad assecondarlo. La società si trasforma indipendentemente
dal fatto che lo vogliamo o no. Quando gli anarchici, o altri
rivoluzionari, parlano di trasformazione sociale si riferiscono ad
una particolare trasformazione, quella appunto da loro auspicata, ma
non all'unica possibile. Nel farlo debbono avere la consapevolezza
che le possibilità sono molteplici e che la loro è solo una delle
tante possibilità. Questa consapevolezza è molto importante, perché
permette di comprendere le mutazioni del divenire con una mentalità
disincantata, senza farsi prendere da suggestioni schematiche, come
considerare ogni cambiamento che non sia il proprio
semplicisticamente e con sufficienza, assimilandoli tutti in un unico
blocco non corrispondente al reale. Ad esempio l'atteggiamento che
considera come la stessa cosa il capitalismo, la tecnocrazia, il
fascismo, il bolscevismo, ecc... È
uno schema ideologico, semplicistico e non scientifico che, invece di
aiutarci a comprendere, non fa altro che allontanarci dal senso della
realtà effettuale, portando a fanatizzare le proprie convinzioni. Ci dobbiamo invece
porre il problema di come inserire all'interno del divenire scelte
adeguate, in grado di rendere fattibile la trasformazione sociale che
riteniamo giusta. La scelta teorica di fondo è quella di comprendere
cosa fare nella fase attuale, ben sapendo che il cosa fare è
strettamente legato ai principi e ai presupposti di sempre,
irrinunciabili e, direi, immutabili, che ci qualificano e ci
distinguono. Allora una strategia ipotizzata giusta a suo tempo,
quando soprattutto si è dimostrata fallace per l'impatto diretto con
l'esperienza vissuta, non può essere riproposta cocciutamente
sempre, perché vorrebbe dire che si pensa, in modo fanatico, che c'è
un'unica strategia all'altezza di rendere operante il progetto
utopico.
Rifiuto del
presente vuol dire...
La società del
controllo è immersa completamente in una fase di continuo
rinnovamento tecnologico, al punto che la tecnologia computerizzata e
robotica ne rappresenta il carattere dominante. In altre parole, è
vero che l'avvento non contrastato della tecnologia menzionata sta
rivoluzionando, direi abbastanza velocemente, i rapporti e le
relazioni sociali. Non si può infatti prescindere dal dato che ogni
attività, ogni intervento della burocrazia, ogni scelta dello stato
ne sono permeati, al punto da essere diventata indispensabile.
Dipendiamo sempre più da tecnologie avanzate, che vengono
continuamente aggiornate e sofisticate, permettendo agli organi
addetti un controllo e una schedatura efficienti in ogni branca di
attività e in ogni manifestazione collettiva. Questo inserimento,
che a volte appare violento, in modo irreversibile sta modificando i
comportamenti e le scelte che caratterizzano alla base i modi di
essere della società. È una trasformazione rivoluzionaria, anche se
non corrisponde in nulla a quella che vorremmo. Non è neppure
qualificabile come una rivoluzione sociale, in quanto, se da una
parte vengono trasformati i rapporti e le relazioni all'interno della
società, dall'altra rimangono inalterati i rapporti di potere che,
avendo la capacità di aggiornarsi, riescono continuamente a
rafforzarsi. La rivoluzione
sociale acquista senso soltanto se la trasformazione riesce ad essere
indirizzata verso il rifiuto prima, il superamento poi, dei rapporti
di potere che regolano la vita collettiva, legittimando il dominio.
L'eterno problema di realizzare la libertà cozza con l'eterno
problema del costante perpetuarsi del dominio. Diventa necessario
comprendere che la trasformazione per cui lottiamo non può essere
sganciata dal divenire continuo in cui lievita il corpo sociale,
perché questo esprime continui bisogni e desideri di innovazione,
anche se apparentemente non esprime una consapevolezza rivoluzionaria
che voglia andare oltre la regolazione gerarchica dall'alto. Il rifiuto del
presente non deve voler dire rifiuto, tout court, di tutto ciò che
c'è. Deve voler dire altresì rifiuto della struttura di dominio che
siamo costretti ad accettare e di cui ci sentiamo succubi, non
certamente del corpo sociale e delle sue manifestazioni. Nulla va
sacralizzato o demonizzato, perché altrimenti avremmo una visione
statica e imperturbabile di ciò che invece è dinamico e in
divenire. Anche le manifestazioni non sono fisse e immutabili, né
vanno giudicate come tali. I valori invece non cambiano, proprio
perché sono astrazioni a priori, capaci di influenzare le
manifestazioni del divenire nel concreto. Non muta il valore della
libertà, come quello del potere, come pure quello della fede, ecc...
Ciò che muta sono le loro possibilità di applicazione e l'aderenza
alla realtà. La tecnologia
stessa non contiene in sé né il bene né il male. Quella attuale è
evidentemente l'espressione dello stato di cose attuale, un prodotto
idoneo alla strutturazione gerarchica funzionale al controllo sociale
dall'alto. È concepita e
realizzata in modo utile al dominio perché, appunto, è concepita e
realizzata dall'organizzazione del potere che vuole perpetuarlo.
Quasi sicuramente avremmo una produzione e realizzazione tecnologica
diversa se diversa fosse la situazione sociale in cui è collocata.
La tecnologia rimane una manifestazione dell'intelligenza e delle
capacità dell'uomo; può servire ad alleviare la fatica e ad
aumentare il campo delle conoscenze. Per tutto ciò non possiamo
condannare quella attuale in quanto tale, ma soprattutto in quanto
espressione sofisticata del dominio. Ci vuole
comprensione della complessità e, soprattutto, consapevolezza che
non c'è malvagità insita nelle cose, ma, quando c'è, è nelle
scelte morali e nell'uso che delle cose viene fatto. Nel porre il
problema della trasformazione sociale, non ha senso lasciarsi
trasportare da una facile demonizzazione delle molteplici
manifestazioni del divenire, come da una conseguente sacralizzazione
di tutto ciò che vi si contrappone. Tenendo conto dei cambiamenti
oggettivi, di cui in qualche modo siamo partecipi, dobbiamo saper
attaccare l'essenza strutturale che attraverso di essi esercita il
potere, sapendo anche distinguere dove sta il dominio e dove invece
sta il bisogno di trasformazione. La nostra dev'essere una tensione
che vuol rifiutare il potere, senza caricare il rifiuto di
significati e simboli demonizzanti le manifestazioni della dinamica
sociale, perché la cosa più importante è l'atteggiamento culturale
ed esistenziale nei confronti del potere.
Il senso di quel
che facciamo
Cosa fare allora?
La logica strategica dell'abbattimento e della insurrezione, intesa
come momento risolutore, ha fallito il suo compito nell'impatto con
la realtà e la storia. Neanche il messaggio educazionista, come pure
quello nonviolento, hanno dimostrato di essere mezzi atti a portare
ai risultati richiesti. Nessuno di questi può essere più
considerato indispensabile e prioritario per trasformare la società
e condurla verso l'anarchia. Quale altra strategia rivoluzionaria può
essere all'altezza della situazione, sostituire quelle precedenti che
hanno fallito ed essere, questa volta vincente, considerando che
viviamo in una situazione in cui la tecnologia computerizzata e
robotizzata è sempre più pregnante e, attraverso di essa, è sempre
maggiore il controllo sociale da parte dei poteri che esercitano il
dominio? L'anarchia, società
organizzata orizzontalmente per realizzare la massima libertà
possibile, continua a rimanere nel limbo fantastico delle utopie.
Eppure resta l'unica proposta realmente coerente, in grado di
interpretare il bisogno di libertà e di risolvere, potenzialmente,
tutti i problemi e i drammi che affliggono il mondo attuale.
Nonostante ciò seguita ad essere non appetibile, mentre, ironia
della sorte, continuano ad esserlo le scelte istituzionali ed
autoritarie. Il fatto è che non
ha senso la ricerca di una strategia determinabile a priori. Non
esiste la strada maestra, il mezzo in sé capace di indirizzare verso
la realizzazione dell'utopia. Proprio perché, secondo un'accezione
classica ormai assodata, strategia significa identificazione dello
strumento principe, del mezzo atto, più di tutti gli altri, a
condurre verso i fini prescelti. Per usare un gioco di parole che
riteniamo efficace, non c'è che un'unica strategia possibile, quella
della non-strategia. La libertà non può
essere imposta. Perché ci sia bisogna volerla e non ci sarà mai
senza una consapevole predisposizione collettiva. Affinché si
realizzi bisogna mirare al superamento generalizzato dei valori e dei
principi su cui si sorregge il dominio. E per far questo bisogna
accettare l'idea che non c'è una unica via, ma ce ne sono molte
verificabili di volta in volta, valutando sul campo le diverse
situazioni all'interno delle quali ci troviamo ad agire e scegliere.
Stabilire a priori quale può essere l'unico mezzo verso cui
indirizzare le proprie energie non solo diventa fuorviante, ma
rischia di illuderci nel mostrarci una possibilità inesistente.
L'anarchia va ripresentata per quello che è sempre stata: una
proposta alternativa di organizzazione sociale, finalizzata alla
liberazione e alla libertà collettiva. Dal momento che diventa
necessario riuscire a togliere legittimità alle pratiche autoritarie
che presumono il dominio, gli strumenti possono essere tanti. In
definitiva ciò che conta è il senso che viene dato a quello che
facciamo e proponiamo, purché non ci si intestardisca su un unico
aspetto. Le manifestazioni sociali, come i bisogni, come le istanze
di liberazione, come pure le tensioni emancipatorie, sono molteplici.
Bisogna valorizzarle tutte, partecipandovi, volendo essere parte
integrante all'interno del dibattito che suscitano, sforzandoci di
indirizzarle verso scelte e tensioni che tendono verso una società
basata sulla libertà.
Ma la tecnologia
non è un demone
Per tornare
all'oggi, la tecnologia attuale è l'espressione dei poteri che
esercitano il dominio e, per sua stessa natura, genera ripulse,
contraddizioni e rifiuti. Contemporaneamente mostra sempre di più la
sua debolezza insita, perché essendo sempre più sofisticata ci
espone a una quantità e ad una qualità di rischi sempre maggiori.
Per questo un numero sempre più grande di esseri umani prova nei
suoi confronti rifiuto e ribellione. Di fronte a questi dati di
fatto, è nostro compito non soffermarci alle forme in cui si
manifestano il rifiuto e la ribellione, ma incentivarli, cercando di
sottrarli al recupero delle forze istituzionali, le quali servono
solo a incanalarli in una logica e in un senso conservatore dei
principi gerarchici. Le forme in cui si manifestano saranno scelte da
chi vuole ribellarsi e rifiutare, ma noi dobbiamo far sì che queste
forme vengano consapevolmente reindirizzate verso la nuova
organizzazione sociale, rispondente agli scopi di libertà che ci
stanno a cuore. La non-strategia
comporta di conseguenza che si scelga di valorizzare il senso nelle
cose che facciamo, invece di cercare di individuare la strada
maestra. Non esistono infatti cose di per sé rivoluzionarie.
Viceversa è vero che ciò che facciamo si colloca all'interno di una
logica rivoluzionaria o conservatrice, a seconda della volontà e
della consapevolezza che stanno dietro ad ogni singola scelta. Questo
concetto è tanto più valido oggi, di fronte ad una società
tecnologicamente avanzata e funzionale al controllo dall'alto. In
quanto tale la tecnologia, come abbiamo visto, non è un demone.
Anzi, può divenire utile all'interno di una società libera e
liberata, assumendo ovviamente aspetti e prospettive molto diverse da
quelle in atto. Ora serve soprattutto al controllo sociale perché la
sua produzione è incentivata dalle esigenze del potere che la
gestisce. Ma potenzialmente può servire a ben altro e, in una
prospettiva rivoluzionaria, anche all'anarchia. Rifiutiamo perciò la
tecnologia del dominio, perché rifiutiamo eticamente il dominio, ma
non la tecnologia. Le nostre scelte
dovranno tendere così a generalizzare il rifiuto del potere e del
controllo, resi senz'altro più efficaci dalla sofisticazione
tecnologica, ma non la possibilità di una tecnologia anche avanzata,
strettamente legata però a una visione e a una volontà di
emancipazione e di libertà.
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