Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 143
febbraio 1987


Rivista Anarchica Online

Tecnologia e libertà
di Andrea Papi

A Lisbona, dall'8 al 10 aprile, si terrà un Colloquio Internazionale di Studi sul tema "Tecnologia e libertà", organizzato dal Circolo de Estudos Neno Vasco, in collaborazione con la rivista "A Ideia" e l'editrice "Sementeira". Tra i relatori ci sarà, con il testo che pubblichiamo in queste pagine, il nostro collaboratore Andrea Papi.

È ancora possibile una strategia rivoluzionaria per trasformare la società?
La domanda che ci siamo posti, semplice all'atto della definizione, appare invece molto complicata nel momento in cui si tenta di abbozzare una risposta. Infatti è composta di elementi estremamente complessi e difficilmente integrabili nella direzione di un'eventuale quanto poco probabile soluzione. Questi elementi sono essenzialmente tre: la rivoluzione, la strategia e la società nella fase in cui stiamo vivendo. Perciò li affronteremo prima separatamente, poi alla ricerca di eventuali connessioni, contrapposizioni e interrelazioni. Soltanto in questo modo appare possibile un abbozzo di risposta che riesca ad avere un senso.

Rivoluzione, strategia, società
La rivoluzione è l'elemento fascinoso; è il cambiamento, la trasformazione che abbiamo sempre auspicato, la realizzazione del sogno che ci siamo sempre raffigurati attraverso la rappresentazione utopica. Essa ha mille volti e mille possibilità, tutte ricollegabili ai desideri, anche i più intimi, prodotti dalla nostra insoddisfazione del presente stato di cose. La rivoluzione è intesa come la strada che conduce alla topia della utopia ipotizzata fantasticamente. Per questo diventa una necessità, indispensabile a realizzare la tensione escatologica.
Il sociale si muove all'interno di continue contrapposizioni tra il bisogno di conservazione e quello di trasformazione; tra la paura del nuovo e il bisogno del consolidato; tra la nausea per le abitudini e le accettazioni che si sclerotizzano e l'attrazione verso il cambiamento. La rivoluzione si inserisce in questa dicotomia esistenziale perché traduce nel concreto una modificazione alle radici. Non si accontenta di normali mutazioni che, alla fin fine, non fanno altro che consolidare il senso del presente, o di piccoli miglioramenti. È altresì una metamorfosi "genetica". Infatti, la differenza sostanziale tra una rivoluzione e qualsiasi altro tipo di mutamento sta proprio nel senso, nella tensione espressa verso il nuovo.
Per tutto ciò, la marcia verso una strutturazione sociale riconoscibile nei presupposti dell'anarchia, cioè della massima libertà possibile collettivamente, è di per sé un evento rivoluzionario. Non ha importanza che avvenga in modo traumatico e violento attraverso un'insurrezione, oppure lentamente con progressione. È in sé una motivazione irreversibile dei presupposti dominanti e un loro superamento senza ritorno. Nel momento in cui in qualche modo riesce a realizzarsi, l'anarchia agisce sempre come propulsione rivoluzionaria trasformando da cima a fondo l'assetto sociale. Anarchismo perciò vuol anche dire inscindibilmente Rivoluzione.
La strategia oggi esprime una concettualità che rischia di essere ambigua. Il suo significato originario indica una programmazione proiettata nel lungo periodo, implicante anche l'impiego di strumenti politici e militari nella conduzione dei conflitti. L'uso corrente ne ha trasformato la semantica, al punto che viene usata per ogni tipo di programmazione a lungo termine. Nel linguaggio politico delle teorie che ancora preconizzano mezzi rivoluzionari, viene correntemente usata per definire un programma di azione capace di condurre alla vittoria finale nel conflitto con le forze conservatrici dominanti. Per questo, ogni teoria rivoluzionaria che si rispetti elabora una strategia per precisare a priori il senso del proprio intervento.
Noi la useremo con questa accezione, intendendo quindi un programma capace di indicarci la strada maestra per la realizzazione del nostro progetto utopico, dal momento, come abbiamo visto più sopra, che anarchia e rivoluzione sono inscindibili e la concretizzazione dell'una presuppone l'evento dell'altra. Per questo proposito, il quesito cui ci interessa rispondere è se l'avverarsi di una rivoluzione, finalizzata all'escatologia del nostro ideale, debba necessariamente e imprescindibilmente usufruire di una strategia che, in quanto tale, deve essere prevista e definita prima, per poter essere verificata poi.
La società, nella fase in cui stiamo vivendo, è praticamente indefinibile. La complessità di tutti i livelli che la compongono è talmente ampia che non è delimitabile da una definizione onnicomprensiva. Può essere vista e analizzata da diversi punti di vista, ma, da qualsiasi parte o latitudine la si prenda in esame, ci vuole la consapevolezza che si tratta di una parte soltanto, anche se questa poi venisse a risultare preponderante. In questa circostanza ci interessa analizzare in modo particolare il dominio, sia dal punto di vista strutturale sia da quello degli effetti che produce.
Premetto che per "fase attuale" non intendo semplicemente il presente specifico in atto, bensì una tendenza destinata a perdurare per un lungo periodo di tempo, che però nel presente è particolarmente tangibile fino al punto da caratterizzarlo. La chiamerò "società del controllo" perché identifico, appunto nella fase attuale, una tendenza sempre più pregnante e asfissiante a controllare gli esseri umani da parte dei poteri costituiti. Un controllo sempre più spudorato ed eticamente immorale, determinato alla prevaricazione che essenzialmente utilizza, almeno mi sembra, il livello tecnologico in atto. In altre parole un controllo tecnologico sulla società.

L'esempio dell'ecosistema
Innanzitutto una premessa: sono fermamente convinto che, ai fini di una comprensione realistica della realtà, non ha senso la ricerca degli elementi strutturali determinanti e di quelli conseguentemente sovrastrutturali. Una simile visione ha senso solo all'interno di un'ottica limitatamente idealistica e dialettica, proprio perché tende a definire uno schema preordinato e pregiudiziale. Mi rendo conto che la società è strutturata e in tal senso anche definibile, ma sono consapevole che questa strutturazione non è né fissa né definita, mentre usufruisce di molti elementi concomitanti ed è identificabile in diverse parti. Se ci si vuol rendere conto di ciò che si ha di fronte, non preordinabile né pregiudiziabile, ci si deve sforzare di vedere e comprendere la società come un insieme di tutti gli elementi e le parti che la compongono, senza stabilire pregiudizialmente una gerarchia tra loro. Definendo la fase attuale "società del controllo", intendo questo controllo come l'elemento di riferimento comune a tutte le parti e gli elementi che compongono l'insieme strutturale. Controllo come necessità di potere per mantenere il dominio che ci sovrasta. Controllo come strumento e legame che gli apparati di potere in auge mantengono, per allacciarsi alla complessità sociale ad essi subordinata e dominarla.
Gli elementi di base su cui il controllo si conferma, consolida e perpetua sono essenzialmente due: la semplificazione delle complessità e il livello tecnologico. Per rendere meglio questa affermazione, mi allaccio a un'immagine di tipo ecologico. Un ecosistema equilibrato e non alterato appare come un'armonia estremamente complessa di tantissime manifestazioni individuali in cui ognuna svolge un ruolo particolare e insopprimibile, ai fini della fruizione dell'energia al più basso livello di entropia. Tale armonia si regge su un accordo non stipulato e non scritto, non imposto e non convenzionato, ma consolidatosi nel tempo attraverso l'esperienza tra tutte le manifestazioni individuali che ne fanno parte e vi concorrono. È un'armonia non definibile in altri modi che naturale, cui partecipano tutti e che non ha assolutamente bisogno di un controllo gerarchico dall'alto. È una specie di autogestione che usufruisce di una normativa da tutti condivisa senza essere imposta.
Una strutturazione gerarchica è essenzialmente il contrario di un ecosistema. La gerarchia infatti è una imposizione di valori diversificati secondo un metodo per cui il potere non viene equamente distribuito, mentre appartiene a un numero limitato di individui che lo possono imporre a tutti gli altri. Non è armonica, ma disarmonica. Per imporsi deve controllare il livello di accettazione di chi subisce, per cui non può rispettare la complessità perché poco controllabile, se non addirittura incontrollabile, ma deve semplificare il più possibile, ai fini di riuscire a controllare meglio. Ecco il senso della burocrazia.
Il livello tecnologico, sempre più sofisticato e basato su sistemi telematici di informazione computerizzata, permette di esercitare un controllo sempre più capillare ed efficiente, di memorizzare i dati raccolti, schedarli e renderli noti in brevissimo tempo ogni volta che vengono richiesti. La tecnologia è funzionale al controllo e questo è funzionale alla tecnologia, perché l'uno è stato impostato sulla base dell'altra e viceversa.

Il tramonto della strategia insurrezionale
Definiti con consapevole relatività questi tre elementi concettuali, bisogna ora identificare le eventuali connessioni, contrapposizioni e interrelazioni. Operazione indispensabile per riuscire a comprendere il senso delle nostre scelte future.
La domanda posta da questa relazione chiede se è ancora possibile ipotizzare una strategia rivoluzionaria funzionale alla trasformazione sociale auspicata. Per riuscire a rispondere vorrei soffermarmi prima un attimo sulla soluzione teorico-pratica prescelta, almeno fino alla sconfitta definitiva e irreversibile della rivoluzione spagnola del 1936. Fino ad allora il movimento anarchico internazionale, nel suo complesso, aveva propugnato l'insurrezione come il mezzo principale atto a realizzare una rivoluzione capace di rendere praticabile una società anarchica a livello di massa. Non tutti gli anarchici si sono riconosciuti in questa scelta di fondo, ma quei pochi che non vi si accostarono, pur costituendo una rilevanza non indifferente a livello teorico, sono sempre risultati quasi ininfluenti dal punto di vista pratico. Così nella sua complessità il movimento anarchico si è sempre mosso nella direzione della insurrezione generalizzata, devolvendoIe consapevolmente la massima parte delle sue energie.
Almeno fino alla fine della rivoluzione spagnola, la scelta insurrezionale si è sempre basata su due concetti di fondo: quello dell'abbattimento e quello del momento risolutore. L'abbattimento violento dello stato era ritenuto indispensabile per poter cominciare a vivere socialmente l'anarchia. In tal senso l'insurrezione vittoriosa del popolo diventava il vero momento risolutore, in grado di dare spinta e impulso al progetto utopico. E l'azione, la propaganda, le scelte di pratica immediata erano tutte improntate a rendere operante questa ipotesi, fondata sulla dichiarazione di guerra alle istituzioni del potere vigente.
Una ipotesi strategica che è sempre stata smentita dai fatti, perché è sempre stata sconfitta. Non poteva accadere diversamente. Dalla rivoluzione francese del 1789 in poi, ogni volta che la rivoluzione si è imposta con l'insurrezione, per una serie di motivi che qui non analizzerò, non solo il progetto anarchico non si è materializzato, ma è sempre stato cancellato brutalmente dalla scena politica. Una delle ragioni principali delle continue sconfitte, sta nel fatto che coloro che lo propugnavano hanno sempre affidato tutte le loro speranze e le loro energie essenzialmente all'evento insurrezionale, ritenuto capace di abbattere il potere e di instaurare, quasi magicamente per effetto taumaturgico, il sogno della libertà organizzata attraverso l'autogestione sociale.
Alla luce di ciò che ho appena detto, ritengo che la strategia insurrezionale oggi non sia più proponibile. Penso sia invece urgente porsi il problema se è possibile un'altra strategia o, addirittura, se ha ancora senso continuare a parlare di strategia. Come abbiamo visto, strategia si riferisce a una programmazione a lungo termine in grado di identificare la strada maestra, cioè il momento fondamentale che permetta la realizzazione del fine preposto. Essa dunque si sofferma su un punto focale che diviene, necessariamente, il riferimento preferenziale, e assume una tale importanza da convogliare la maggior parte delle energie, se non tutte, al fine scelto. Vi è in tutto ciò un rischio che ritengo notevole: quello di identificare il momento strategico col fine, al punto che se il primo fallisce, il secondo viene considerato impraticabile, ovvero irrealizzabile. La strategia insurrezionale, da troppi ancora intesa come l'unico modo per pervenire all'auspicata anarchia, è un esempio illuminante e fin troppo chiaro.

Una possibilità tra tante
La società non è un'entità statica, definibile una volta per tutte. Anzi! Con certezza si può affermare che è in continuo divenire, esprime un cambiamento costante. Non ha senso però giudicare questo divenire con una valenza o di tipo negativo o positivo. Il negativo e il positivo sono legati alle scelte etiche, indispensabili per essere presenti e per agire, ma privi, per la loro stessa natura, di qualsiasi oggettività. Infatti il comportamento e l'orientamento etici sono sempre soggettivi e permettono una collocazione all'interno della società, ma non ne dipendono direttamente. Il cambiamento invece, comunque avvenga, è di per sé oggettivo. Saranno poi la nostra volontà e la nostra esperienza personali a permettere di riconoscerci in esso, oppure a contrastarlo, oppure ancora ad assecondarlo. La società si trasforma indipendentemente dal fatto che lo vogliamo o no. Quando gli anarchici, o altri rivoluzionari, parlano di trasformazione sociale si riferiscono ad una particolare trasformazione, quella appunto da loro auspicata, ma non all'unica possibile. Nel farlo debbono avere la consapevolezza che le possibilità sono molteplici e che la loro è solo una delle tante possibilità. Questa consapevolezza è molto importante, perché permette di comprendere le mutazioni del divenire con una mentalità disincantata, senza farsi prendere da suggestioni schematiche, come considerare ogni cambiamento che non sia il proprio semplicisticamente e con sufficienza, assimilandoli tutti in un unico blocco non corrispondente al reale. Ad esempio l'atteggiamento che considera come la stessa cosa il capitalismo, la tecnocrazia, il fascismo, il bolscevismo, ecc... È uno schema ideologico, semplicistico e non scientifico che, invece di aiutarci a comprendere, non fa altro che allontanarci dal senso della realtà effettuale, portando a fanatizzare le proprie convinzioni.
Ci dobbiamo invece porre il problema di come inserire all'interno del divenire scelte adeguate, in grado di rendere fattibile la trasformazione sociale che riteniamo giusta. La scelta teorica di fondo è quella di comprendere cosa fare nella fase attuale, ben sapendo che il cosa fare è strettamente legato ai principi e ai presupposti di sempre, irrinunciabili e, direi, immutabili, che ci qualificano e ci distinguono. Allora una strategia ipotizzata giusta a suo tempo, quando soprattutto si è dimostrata fallace per l'impatto diretto con l'esperienza vissuta, non può essere riproposta cocciutamente sempre, perché vorrebbe dire che si pensa, in modo fanatico, che c'è un'unica strategia all'altezza di rendere operante il progetto utopico.

Rifiuto del presente vuol dire...
La società del controllo è immersa completamente in una fase di continuo rinnovamento tecnologico, al punto che la tecnologia computerizzata e robotica ne rappresenta il carattere dominante. In altre parole, è vero che l'avvento non contrastato della tecnologia menzionata sta rivoluzionando, direi abbastanza velocemente, i rapporti e le relazioni sociali. Non si può infatti prescindere dal dato che ogni attività, ogni intervento della burocrazia, ogni scelta dello stato ne sono permeati, al punto da essere diventata indispensabile. Dipendiamo sempre più da tecnologie avanzate, che vengono continuamente aggiornate e sofisticate, permettendo agli organi addetti un controllo e una schedatura efficienti in ogni branca di attività e in ogni manifestazione collettiva. Questo inserimento, che a volte appare violento, in modo irreversibile sta modificando i comportamenti e le scelte che caratterizzano alla base i modi di essere della società. È una trasformazione rivoluzionaria, anche se non corrisponde in nulla a quella che vorremmo. Non è neppure qualificabile come una rivoluzione sociale, in quanto, se da una parte vengono trasformati i rapporti e le relazioni all'interno della società, dall'altra rimangono inalterati i rapporti di potere che, avendo la capacità di aggiornarsi, riescono continuamente a rafforzarsi.
La rivoluzione sociale acquista senso soltanto se la trasformazione riesce ad essere indirizzata verso il rifiuto prima, il superamento poi, dei rapporti di potere che regolano la vita collettiva, legittimando il dominio. L'eterno problema di realizzare la libertà cozza con l'eterno problema del costante perpetuarsi del dominio. Diventa necessario comprendere che la trasformazione per cui lottiamo non può essere sganciata dal divenire continuo in cui lievita il corpo sociale, perché questo esprime continui bisogni e desideri di innovazione, anche se apparentemente non esprime una consapevolezza rivoluzionaria che voglia andare oltre la regolazione gerarchica dall'alto.
Il rifiuto del presente non deve voler dire rifiuto, tout court, di tutto ciò che c'è. Deve voler dire altresì rifiuto della struttura di dominio che siamo costretti ad accettare e di cui ci sentiamo succubi, non certamente del corpo sociale e delle sue manifestazioni. Nulla va sacralizzato o demonizzato, perché altrimenti avremmo una visione statica e imperturbabile di ciò che invece è dinamico e in divenire. Anche le manifestazioni non sono fisse e immutabili, né vanno giudicate come tali. I valori invece non cambiano, proprio perché sono astrazioni a priori, capaci di influenzare le manifestazioni del divenire nel concreto. Non muta il valore della libertà, come quello del potere, come pure quello della fede, ecc... Ciò che muta sono le loro possibilità di applicazione e l'aderenza alla realtà.
La tecnologia stessa non contiene in sé né il bene né il male. Quella attuale è evidentemente l'espressione dello stato di cose attuale, un prodotto idoneo alla strutturazione gerarchica funzionale al controllo sociale dall'alto. È concepita e realizzata in modo utile al dominio perché, appunto, è concepita e realizzata dall'organizzazione del potere che vuole perpetuarlo. Quasi sicuramente avremmo una produzione e realizzazione tecnologica diversa se diversa fosse la situazione sociale in cui è collocata. La tecnologia rimane una manifestazione dell'intelligenza e delle capacità dell'uomo; può servire ad alleviare la fatica e ad aumentare il campo delle conoscenze. Per tutto ciò non possiamo condannare quella attuale in quanto tale, ma soprattutto in quanto espressione sofisticata del dominio.
Ci vuole comprensione della complessità e, soprattutto, consapevolezza che non c'è malvagità insita nelle cose, ma, quando c'è, è nelle scelte morali e nell'uso che delle cose viene fatto. Nel porre il problema della trasformazione sociale, non ha senso lasciarsi trasportare da una facile demonizzazione delle molteplici manifestazioni del divenire, come da una conseguente sacralizzazione di tutto ciò che vi si contrappone. Tenendo conto dei cambiamenti oggettivi, di cui in qualche modo siamo partecipi, dobbiamo saper attaccare l'essenza strutturale che attraverso di essi esercita il potere, sapendo anche distinguere dove sta il dominio e dove invece sta il bisogno di trasformazione. La nostra dev'essere una tensione che vuol rifiutare il potere, senza caricare il rifiuto di significati e simboli demonizzanti le manifestazioni della dinamica sociale, perché la cosa più importante è l'atteggiamento culturale ed esistenziale nei confronti del potere.

Il senso di quel che facciamo
Cosa fare allora? La logica strategica dell'abbattimento e della insurrezione, intesa come momento risolutore, ha fallito il suo compito nell'impatto con la realtà e la storia. Neanche il messaggio educazionista, come pure quello nonviolento, hanno dimostrato di essere mezzi atti a portare ai risultati richiesti. Nessuno di questi può essere più considerato indispensabile e prioritario per trasformare la società e condurla verso l'anarchia. Quale altra strategia rivoluzionaria può essere all'altezza della situazione, sostituire quelle precedenti che hanno fallito ed essere, questa volta vincente, considerando che viviamo in una situazione in cui la tecnologia computerizzata e robotizzata è sempre più pregnante e, attraverso di essa, è sempre maggiore il controllo sociale da parte dei poteri che esercitano il dominio?
L'anarchia, società organizzata orizzontalmente per realizzare la massima libertà possibile, continua a rimanere nel limbo fantastico delle utopie. Eppure resta l'unica proposta realmente coerente, in grado di interpretare il bisogno di libertà e di risolvere, potenzialmente, tutti i problemi e i drammi che affliggono il mondo attuale. Nonostante ciò seguita ad essere non appetibile, mentre, ironia della sorte, continuano ad esserlo le scelte istituzionali ed autoritarie.
Il fatto è che non ha senso la ricerca di una strategia determinabile a priori. Non esiste la strada maestra, il mezzo in sé capace di indirizzare verso la realizzazione dell'utopia. Proprio perché, secondo un'accezione classica ormai assodata, strategia significa identificazione dello strumento principe, del mezzo atto, più di tutti gli altri, a condurre verso i fini prescelti. Per usare un gioco di parole che riteniamo efficace, non c'è che un'unica strategia possibile, quella della non-strategia.
La libertà non può essere imposta. Perché ci sia bisogna volerla e non ci sarà mai senza una consapevole predisposizione collettiva. Affinché si realizzi bisogna mirare al superamento generalizzato dei valori e dei principi su cui si sorregge il dominio. E per far questo bisogna accettare l'idea che non c'è una unica via, ma ce ne sono molte verificabili di volta in volta, valutando sul campo le diverse situazioni all'interno delle quali ci troviamo ad agire e scegliere. Stabilire a priori quale può essere l'unico mezzo verso cui indirizzare le proprie energie non solo diventa fuorviante, ma rischia di illuderci nel mostrarci una possibilità inesistente. L'anarchia va ripresentata per quello che è sempre stata: una proposta alternativa di organizzazione sociale, finalizzata alla liberazione e alla libertà collettiva. Dal momento che diventa necessario riuscire a togliere legittimità alle pratiche autoritarie che presumono il dominio, gli strumenti possono essere tanti. In definitiva ciò che conta è il senso che viene dato a quello che facciamo e proponiamo, purché non ci si intestardisca su un unico aspetto. Le manifestazioni sociali, come i bisogni, come le istanze di liberazione, come pure le tensioni emancipatorie, sono molteplici. Bisogna valorizzarle tutte, partecipandovi, volendo essere parte integrante all'interno del dibattito che suscitano, sforzandoci di indirizzarle verso scelte e tensioni che tendono verso una società basata sulla libertà.

Ma la tecnologia non è un demone
Per tornare all'oggi, la tecnologia attuale è l'espressione dei poteri che esercitano il dominio e, per sua stessa natura, genera ripulse, contraddizioni e rifiuti. Contemporaneamente mostra sempre di più la sua debolezza insita, perché essendo sempre più sofisticata ci espone a una quantità e ad una qualità di rischi sempre maggiori. Per questo un numero sempre più grande di esseri umani prova nei suoi confronti rifiuto e ribellione. Di fronte a questi dati di fatto, è nostro compito non soffermarci alle forme in cui si manifestano il rifiuto e la ribellione, ma incentivarli, cercando di sottrarli al recupero delle forze istituzionali, le quali servono solo a incanalarli in una logica e in un senso conservatore dei principi gerarchici. Le forme in cui si manifestano saranno scelte da chi vuole ribellarsi e rifiutare, ma noi dobbiamo far sì che queste forme vengano consapevolmente reindirizzate verso la nuova organizzazione sociale, rispondente agli scopi di libertà che ci stanno a cuore.
La non-strategia comporta di conseguenza che si scelga di valorizzare il senso nelle cose che facciamo, invece di cercare di individuare la strada maestra. Non esistono infatti cose di per sé rivoluzionarie. Viceversa è vero che ciò che facciamo si colloca all'interno di una logica rivoluzionaria o conservatrice, a seconda della volontà e della consapevolezza che stanno dietro ad ogni singola scelta. Questo concetto è tanto più valido oggi, di fronte ad una società tecnologicamente avanzata e funzionale al controllo dall'alto. In quanto tale la tecnologia, come abbiamo visto, non è un demone. Anzi, può divenire utile all'interno di una società libera e liberata, assumendo ovviamente aspetti e prospettive molto diverse da quelle in atto. Ora serve soprattutto al controllo sociale perché la sua produzione è incentivata dalle esigenze del potere che la gestisce. Ma potenzialmente può servire a ben altro e, in una prospettiva rivoluzionaria, anche all'anarchia. Rifiutiamo perciò la tecnologia del dominio, perché rifiutiamo eticamente il dominio, ma non la tecnologia.
Le nostre scelte dovranno tendere così a generalizzare il rifiuto del potere e del controllo, resi senz'altro più efficaci dalla sofisticazione tecnologica, ma non la possibilità di una tecnologia anche avanzata, strettamente legata però a una visione e a una volontà di emancipazione e di libertà.