Rivista Anarchica Online
Il male del
secolo?
di Carlo Oliva
Non è una
cosa simpatica da scrivere, ma, in un certo senso, la cultura di
massa aveva un gran bisogno dell'AIDS. Se non si fosse manifestato
per cause naturali (sempre ammesso che per cause naturali si sia
manifestato), lo si sarebbe dovuto inventare. Basta dare un'occhiata
non troppo distratta, di questi giorni, a quotidiani e settimanali
vari e seguire, stringendo doverosamente i denti, l'alluvione di
articoli, servizi, grafici, riquadri, interviste e disegnini che
regolarmente vi affluiscono. Secondo il modello del giornalismo
"classico", quello alla Prima pagina, un modello che
evidentemente regge, nonostante l'impatto con l'elettronica e le
nuove tecnologie, nell'immaginario del pubblico e in quello dei
giornalisti, l'AIDS è "la Notizia" per eccellenza.
Se la definizione non fosse un pochino usurata, sarebbe già
stato battezzato "il male del secolo". Le poche polemiche
che questo furore giornalistico ha suscitato si sono appuntate
soprattutto su problemi deontologici e morali, come quello
dell'attendibilità scientifica delle informazioni trasmesse, o
quello dell'effetto di un certo articolo, o di un certo servizio, sui
malati o sui loro familiari. Ma in fondo, salvo qualche episodio
sporadico, non sembra che i limiti comunemente accettati in merito
siano stati clamorosamente superati. Il problema non è tanto
quello classico (appunto) dello "scandalismo" e
dell'attendibilità delle notizie. È
quello del significato del fenomeno AIDS per tutta la cultura di
massa che si riflette sui mezzi d'informazione e da questi viene
forgiata, del sistema di valori che evoca, in un modo o nell'altro,
per ciascuno di noi. E appunto per questo vale forse la pena di
chiedersi perché esattamente questa malattia rappresenti un
oggetto tanto ingombrante nella nostra cultura. L'AIDS, in realtà,
non è solo una malattia che si trasmette essenzialmente per
via sessuale, e ha poco in comune con la sfera tradizionale delle
"malattie veneree" (che pure non sono affatto prive di
significato ideologico). È,
appunto, il male del secolo, la "nuova peste": un'epidemia
che ci coinvolge e ci riguarda tutti, sia per quanto attiene
all'esplicarsi della nostra sessualità, al quale prescrive, o
fa si che altri prescriva, normative e limitazioni di vario tipo, sia
per quanto attiene il nodo cruciale della nostra identità.
Nato, culturalmente parlando, come "morbo gay", per di più
di origine africana (o haitiana o chissà quale, ma comunque
sempre da zone in cui alligna la pelle nera), è stato, ed è,
la malattia dei "diversi", anzi di quei diversi dediti alla
promiscuità e all'edonismo, verso i quali la disapprovazione
dei "normali" non è mai del tutto limpida o esente
da punte d'invidia. Era facilissimo farlo diventare, magari senza
dirlo, una doverosa punizione, o, a un livello appena un po'
sofisticato, un fenomeno doloroso ma in fondo utile per indurre tanta
gente a darsi finalmente una regolata, con indubbio vantaggio per
tutta la società (una specie di variante biologica
provvidenziale del reaganismo).
Fascino perverso
Ma oltre che i gay,
i neri, i drogati e altri diversi di minor rilevanza ideologica ma
diversi sempre (gli emofiliaci, che chissà cosa sono, ma certo
qualcosa di brutto) l'AIDS riguarda anche gli "altri", i
normali. Nega, in un certo senso, la loro normalità. A meno,
naturalmente, di liberarlo da legami troppo stretti con il sesso, se
non con la sodomia e il disordine erotico (il che spiega
naturalmente, l'entusiasmo con cui si saluta la presenza del virus
nelle lacrime o nel sudore, escrezioni abbastanza rispettabili, e
quello con cui si cerca d'altro canto di collegarlo a modalità
di rapporto indubitabilmente "diverse", ma esenti, a quanto
sembra, da rischio d'infezione come le effusioni tra donne). Da
questa tensione tra "normalità" e "non
normalità" nasce gran parte del fascino perverso che la
tematica dell'AIDS ha sulla gente, e nascono, en passant,
tutti i disegnini più o meno osé sulle modalità
e i rischi dell'infezione con cui ci deliziano da qualche tempo i
principali settimanali. Ci sono altre
tensioni di cui tener conto. L'AIDS ha una pronunciatissima
dimensione catastrofica: tende a porsi come possibile Catastrofe
Totale (al limite dell'estinzione totale del genere umano a scadenza
non troppo remota). Riguardava te, diverso, ieri; riguarda me oggi;
potrà riguardare domani tutti noi. Le previsioni in merito,
che fino a pochi mesi fa erano monopolio d'eccentrici vari,
cominciano a dilagare nei discorsi "seri". Per asseverarle
si ricorre sempre più all'impiego di termini, fraseologie e
stilemi scientifici (varrebbe la pena di seguire il lento ma sicuro
progresso sui media del termine "pandemia": solo la
scienza, si sa, può garantire la fine del mondo, o almeno
quella dell'umanità. Ma naturalmente questa ipotesi
d'estinzione tocca note più profonde di altre, per esempio di
quella, che alcuni volonterosi avevano cercato di venderci qualche
mese fa senza troppa fortuna, nonostante l'apparato scientifico messo
in opera, del buco nella ionosfera, per non dire di quella nucleare
classica, ormai usurata e resa poco riconoscibile da troppe
concrezioni successive. Un'estinzione legata, in un modo o
nell'altro, a forme d'abuso della sessualità propria ed altrui
ricorda davvero da vicino la Pioggia di Fuoco sulle Città
della Pianura: è la migliore approssimazione del castigo
divino cui una cultura irrimediabilmente laica può arrivare. E
a questo punto non è illecito supporre che la possibilità
di collegare la Punizione immanente con l'esistenza di un gruppo di
Responsabili della medesima si affacci irresistibilmente alla
coscienza. I tempi, in un
certo senso, sono maturi per l'avvento del Capro Espiatorio. Un Capro
Espiatorio collettivo, cui addossare molteplici responsabilità,
anche oltre quella della diffusione della nuova peste, capace di
assumere su di sé il disagio morale della nostra cultura, il
senso del fallimento incombente della variante mercificata e
spersonalizzata di "libertà" sessuale offertaci
dalla società dei consumi. Un Capro Espiatorio, soprattutto,
su cui proiettare, liberandosene definitivamente, la parte oscura di
tutti noi, quel quid irriconducibile alla nostra asserita
identità di "persone normali". Stando così le
cose, a meno che non si corra ai ripari, è lecito aspettarsi,
per il popolo gay e per gli altri "soggetti a rischio",
tempi molto duri.
Il sonno della
ragione
Tutto ciò,
naturalmente, non ha a che vedere con il problema di una corretta
diffusione di notizie e di consigli di comportamento. Le norme
igieniche, notoriamente, non hanno mai fatto male a nessuno e la loro
diffusione ha sempre avuto una valenza simpaticamente democratica che
non mi sembrerebbe sbagliato cercare di recuperare. Certo, c'è
modo e modo: varrebbe la pena di esaminare con un minimo di
sistematicità critica le varie campagne d'informazione e
prevenzione che varie organizzazioni pubbliche e private stanno
svolgendo in parecchi paesi europei (non in Italia, che io sappia) e
negli Stati Uniti. Il ventaglio degli atteggiamenti è
piuttosto vasto: da quello, tutto sommato "aperto" del ministero della
sanità americano, un cui pieghevole è stato tradotto e
diffuso anche nelle nostre scuole da un'organizzazione privata, a
quello, francamente terrorista, delle organizzazioni sanitarie della
repubblica federale tedesca, in cui lo slogan Safer Sex
("sesso sicuro") è accompagnato dall'immagine
inquietante di una robusta spilla di sicurezza. Ma non è
questa la sede, ovviamente. Al di là di
ogni analisi contingente, di ogni riflessione moralistica, di ogni
illecita generalizzazione, forse sarebbe sufficiente ricordare sempre
che il "male del secolo" (di qualunque secolo) non è
L'AIDS, né alcuna altra malattia: è, sempre e comunque,
il sonno della ragione.
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