Rivista Anarchica Online
Sulla libertà
di Massimo La Torre
"On Liberty"
è il titolo di un notissimo saggio pubblicato da John Stuart Mill
127 anni fa. In queste pagine Massimo La Torre analizza il
controverso legame tra pensiero liberale ed anarchismo, alla luce del
più recente dibattito culturale.
Nelle pagine che
seguono intendo presentare, ovviamente senza alcuna pretesa di
novità, e discutere argomenti e tesi del notissimo saggio sulla
libertà di John stuart Mill (On Liberty, 1859), (1)
del quale qualche anno fa è apparsa una nuova traduzione italiana
introdotta da un'interessante e per certi versi provocatoria
prefazione di Giulio Giorello e Marco Mondadori (Saggio sulla
libertà, trad. it. di S. Magistretti, Il Saggiatore, Milano
1981) (2). In questo studio intendo, in particolare, trattare delle
idee di Mill riguardo alla relazione ottimale tra società e
individuo, e tra organizzazione politica e cittadino. Nel fare ciò
non mi limiterò all'esposizione del pensiero del filosofo inglese.
Confronterò anche, brevemente, il modello di Stato liberale
preconizzato da Mill con le linee di sviluppo dello Stato democratico
contemporaneo, e in special modo con alcune tendenze manifestatesi
nell'Italia degli ultimi quarant'anni. Mi soffermerò poi a discutere
e a criticare l'interpretazione assai diffusa secondo la quale la
libertà preconizzata dalla teoria politica liberale sarebbe
esclusivamente quella cosiddetta "negativa". In conclusione
proporrò un'ipotesi sulle radici teoriche del liberalismo di Mill e
sull'influenza di questo su altre successive dottrine politiche.
Avanzerò allora la tesi di una connessione tra pensiero liberale e
anarchismo, intendendo quest'ultimo come una filosofia politica
storicamente datasi e non come un "tipo ideale" di
atteggiamento dell'individuo rispetto allo Stato ed alla società(3).
Una tale connessione può, a mio parere, cogliersi nelle idee
espresse da Mill nel saggio di cui qui si tratta.
Governo del
popolo e difesa delle minoranze
I temi del saggio
sulla libertà di Mill sono essenzialmente tre: a) la questione della
libertà di pensiero connessa allo sviluppo delle potenzialità
intrinseche della personalità umana e delle sue conoscenze; b) la
difesa dell'individuo rispetto alle possibili invadenze dello Stato e
della collettività; c) la ristrutturazione delle istituzioni
politiche volta a favorire la libertà di pensiero e d'azione degli
individui (ciò che da Constant in poi si è soliti chiamare "libertà
negativa"), ma anche la partecipazione attiva dei singoli agli
affari comuni ed alla gestione della cosa pubblica (la "libertà
positiva"). L'intento principale di Mill è, già dalle prime
pagine del suo libro, assai chiaro. Egli vuole tracciare una zona di
inviolabilità della persona umana, il "sacro recinto" (come egli
lo chiama) entro il quale la collettività e l'apparato istituzionale
della società non devono operare alcuna intrusione. Prima di procedere,
è bene riportare una puntualizzazione fatta dallo stesso Mill.
L'oggetto delle argomentazioni svolte in On Liberty non è il
cosiddetto libero arbitrio (che Mill, come è noto, nega (4)),
argomento essenzialmente teorico e con implicazioni di carattere
metafisico. Il tema principale del libro è invece la libertà
politica e sociale, un tema cioè eminentemente pratico. La libertà
che interessa al nostro autore nel saggio di cui trattiamo non è
tanto quella dell'essere umano rispetto a Dio ed alle leggi
dell'universo, quanto la libertà del cittadino rispetto alla
comunità ed alle sue istituzioni, ossia "la natura e i limiti
del potere che può essere legittimamente esercitato dalla società
sull'individuo" (5). Due sono i principi
che costituiscono la base giustificativa della filosofia politica di
Mill. Il primo è che l'individuo non è responsabile nei confronti
della società per ciò che concerne quelle azioni le quali non
mettono in gioco interessi diversi da quelli dell'agente, vale a dire
interessi altrui. Il secondo è che, per ciò che concerne le azioni
che sono pregiudizievoli per gli interessi altrui (che cioè
costituiscono un danno o una minaccia di danno per l'altro),
l'individuo è pienamente responsabile rispetto alla società. In tal
caso, il soggetto può essere sottoposto a sanzioni sia sociali che
legali, là dove la società ritenga che l'una o l'altra (o ambedue)
siano necessarie alla sua difesa (6). In tutti gli affari
che riguardano le relazioni esterne dell'individuo, questo è
responsabile - secondo Mill - verso coloro i cui interessi sono in
gioco e, se necessario, verso la società come ente protettore di
tali interessi. Tuttavia - sostiene il filosofo inglese - c'è una
sfera di azione rispetto alla quale la società, in quanto realtà
distinta dagli individui che la compongono, ha solo un interesse
indiretto. Questa sfera è quella porzione della vita e della
condotta di una persona che concerne soltanto la persona stessa, o,
nel caso in cui concerna anche altri, che fa ciò con il libero e
volontario consenso di questi ultimi. Questa sfera -
secondo Mill - costituisce il campo della libertà umana. Esso
comprende, in primo luogo, il foro interno della coscienza e quindi
implica la libertà di coscienza nel suo senso più ampio, come
libertà di pensare e sentire, come libertà di opinione in ogni
materia, sia essa pratica o speculativa, scientifica, morale o
teologica. Si noti che per Mill la libertà di esprimere e di rendere
pubbliche le proprie opinioni è conseguenza immediata del principio
della libertà di coscienza. Egli afferma a chiare lettere, infatti,
che la libertà di esprimere la propria opinione non è nient'altro
che la libertà di pensiero in azione, vale a dire l'esercizio
concreto di tale libertà. Dalla libertà di pensiero - scrive Mill -
"è impossibile separare l'apparentata libertà di parlare e di
scrivere" (7). Come si vede, Mill è ben lontano dal liberalismo
conservatore e legalista che interpreta restrittivamente la libertà
di coscienza esclusivamente come libertà di pensiero, e che
influenza soprattutto i sistemi giuridici degli Stati liberali della
prima metà dell'Ottocento. Il campo della
libertà umana - secondo l'autore inglese - comprende, in secondo
luogo, la libertà dei gusti e delle inclinazioni, vale a dire la
libertà di progettare la propria vita in accordo col proprio
carattere e con le proprie aspirazioni, di fare ciò che si
preferisce per ciò che concerne il proprio stile di vita. Tale
libertà è affermata, anch'essa, in maniera assoluta, almeno
fintantoché essa non arrechi un danno all'altro. Mill ritiene quindi
ingiustificato ogni intervento altrui che limiti questa libertà,
qualora essa non noccia agli interessi materiali dell'altro anche se
l'altro dovesse per caso ritenere che quella condotta o quello stile
di vita sono stupidi, perversi, o sbagliati. In terzo luogo,
dalla libertà di coscienza e di gusti riconosciuta all'individuo
Mill fa discendere la libertà di entrare in relazione con altri
individui, e parimenti la libertà di associarsi per ogni fine che
non comporti un danno per gli altri, entro i limiti sopra enunciati e
nella presunzione che le persone che si associano non vi sono
costrette e non sono ingannate in alcun modo. In questa concezione,
la libertà di pensiero e della sua espressione, la libertà di
condotta, e la libertà di associazione sono i tre pilastri di ciò
che il filosofo inglese retoricamente definisce "il sacro recinto"
(the sacred precinct) dell'individualità. Per garantire
l'effettiva vigenza di queste tre fondamentali libertà, la questione
più urgente è di determinare e fissare istituzionalmente limiti
all'enorme potere dello Stato contemporaneo, di ogni Stato a
prescindere dal colore della sua bandiera. Un'altra questione assai
importante, connessa a questa prima, è quella di trovare un
equilibrio su due versanti: a) da un lato tra la giustizia sociale e
la libertà individuale, tra le esigenze della società e il valore
dell'autonomia, o - per usare una terminologia in voga fra i filosofi
anglosassoni - "tra utilità e diritti"(8); b) e dall'altro
lato tra la volontà della maggioranza e quella delle minoranze (9).
I diritti
dell'individuo
Il filosofo inglese
concepisce i diritti dell'individuo in due significati principali: da
un verso come affermazione di uno statuto proprio dell'individuo,
distinto da quello della società; d'altro verso come protezione
offerta all'individuo contro eventuali - ed anzi probabili (ché Mill
accoglie il pessimismo del pensiero liberale sulla natura del potere
politico) - sconfinamenti del governo - e non solo di questo ma anche
della società nel suo complesso - nelle aree in cui si svolge la
libera attività degli individui. Mill afferma senza riserve il
valore dei diritti dell'uomo, e facendo ciò opera una rielaborazione
dell'etica utilitaristica che egli aveva mutuato da Bentham.
L'ispirazione individualista del pensiero di Mill si ripercuote sulla
sua interpretazione della filosofia utilitaristica con effetti assai
rilevanti. L'utilitarismo di Mill - come scrive Hart - "manteneva
solo lettera nel mentre cambiava lo spirito dell'originaria dottrina
utilitaristica in molti importanti rispetti". (10) Infatti, Mill
tempera il principio utilitaristico della "massima felicità per il
maggior numero" con l'accettazione di taluni inalienabili
diritti dell'uomo. Così, nel notissimo saggio Utilitarianism
(1863), Mill afferma che il rispetto dei diritti fondamentali
costituisce una specie o branca dell'utilità generale,
reinterpretando il principio di utilità in termini di libertà
individuale. E nel saggio sulla libertà scrive che l'utilità che
egli considera come il criterio ultimo di ogni questione morale è
"l'utilità nel senso più ampio, fondata sugli interessi
permanenti dell'uomo come essere progressista". (11) I diritti dell'uomo
sono ricostruiti da Mill come un tipo speciale di utilità, che -
come nota Hart - in caso di conflitto avrà la meglio sull'utilità
concepita come massimo bene del maggior numero. (12) Inoltre, la
giustizia consiste - secondo Mill - nel riconoscimento dei diritti
fondamentali che spettano a ciascun uomo a prescindere dal fatto che
tali diritti siano attribuiti dal diritto positivo o dalla prassi di
una determinata società. (13) Partendo
dall'affermazione senza riserve dei diritti dell'uomo,(14) Mill
sottolinea le possibilità d'involuzione autoritaria del principio di
maggioranza e del concetto di sovranità popolare. Come è noto,
molti teorici della democrazia, a cominciare da Rousseau, ritengono
che là dove gli organi dello Stato sono espressione della volontà
popolare (ovvero "l'avanguardia della classe operaia", nella
versione organicista della teoria della rappresentanza popolare
fornitaci dal marxismo), il potere di governo di questi organi (o di
quella "avanguardia") non potrà essere fonte di abusi né
potrà essere impiegata a detrimento degli interessi del popolo (o
della "classe operaia"). Come scrive Giörgy
Konrad, a proposito delle cosiddette "avanguardie
rivoluzionarie" ma sviluppando considerazioni che possono
applicarsi anche al ceto politico dei regimi democratici, "i
rivoluzionari di professione e, più tardi, burocrati di partito sono
i diffusori e le vittime dell'illusione per cui essi svolgerebbero il
loro ruolo /.../ in rappresentanza degli altri, simbolizzerebbero gli
altri e renderebbero superflua l'immediata partecipazione di questi
al potere. Essi vogliono far credere di rappresentare una potente
dignità impersonale che sta al di sopra di loro stessi". (15) In una tale visione
della democrazia i diritti dell'uomo (come garanzia data
all'individuo contro lo strapotere dello Stato) perdono ogni loro
significato e la loro stessa ragion d'essere, che è appunto la
limitazione del potere statale. Ciò perché si è presupposta
dapprima l'equivalenza tra la libertà del popolo e la volontà
popolare, vale a dire si è intesa la libertà interamente come
libertà positiva, libertà di partecipare alla gestione della
società (e dello Stato) e niente affatto come libertà negativa,
cioè come libertà di sottrarsi ai comandi o all'intervento della
società (e dello Stato). E poi si è postulata l'equivalenza tra la
volontà del popolo e la volontà dell'istituzione (sia questa
sociale od anche statale). Se la volontà del governo equivale alla
volontà del popolo, e finisce per coincidere con essa, se il governo
può allora identificarsi col popolo stesso, dovrà concludersi,
considerato che un soggetto (il popolo) non può "auto-opprimersi",
che il governo democratico non può logicamente né praticamente
risultare dispotico. La nazione non ha
bisogno di essere protetta contro la sua stessa volontà, sostengono
- scrive Mill - taluni teorici della democrazia.(16) Non può esserci
tirannia su se stessi - affermano questi. Lasciate - essi continuano
- che i governi siano effettivamente responsabili di fronte alla
nazione, e questa potrà arrischiarsi senza troppo temere a conferire
loro quel potere il cui uso è la nazione stessa a dettare (mediante
il meccanismo elettorale nel pensiero liberal-democratico, oppure in
virtù di un nesso organico di identità di interessi nel pensiero
marxista). Contro una tale argomentazione e un siffatto atteggiamento
teorico si dirige in particolare la critica di Mill. "Questo
modo di pensare - egli scrive -, o forse piuttosto di sentire, era
comune all'ultima generazione del liberalismo europeo, e nel
continente esso è ancora chiaramente predominante".(17)
Società,
governo dispotismo
Secondo alcuni
teorici liberali (tra i quali va ricordato James Mill, il padre di
John Stuart Mill), il potere dei rappresentanti della nazione non era
che il potere della nazione stessa concentrato in poche mani al fine
di rendere efficace il suo esercizio. La replica di John Stuart Mill
a questa interpretazione del liberalismo è secca. La realizzazione
della volontà del popolo - scrive il filosofo inglese - non
garantisce agli individui una sfera di libertà per due ragioni: a)
innanzitutto perché il "popolo" che esercita il potere non
è lo stesso (popolo) sul quale quel potere è esercitato; b) e poi
perché il popolo potrebbe volere opprimere una parte dei propri
membri.(18) Perciò, a giudizio di questo autore, la limitazione del
potere del governo sugli individui non perde nulla della sua
importanza, anche là dove i detentori del potere sono resi
periodicamente responsabili nei confronti della comunità attraverso
la verifica elettorale del loro mandato. Secondo Mill - come si è
già detto - lo Stato, e non solo esso ma anche la società come
realtà distinta dai singoli, implicano sempre per il fatto stesso di
esistere una minaccia per la libertà degli uomini. L'attualità di
questa minaccia è ribadita da H. L. A. Hart che, ricordando il
monito di Mill, scrive come segue: "Sembra fatalmente facile
credere che la lealtà ai principi democratici implichi
l'accettazione di ciò che può essere definito populismo morale:
l'opinione secondo cui la maggioranza ha un diritto morale a dettare
come ciascuno deve vivere. Ciò è un equivoco della democrazia, che
ancora minaccia la libertà individuale".(19) Nel pensiero di
Mill così come questo è espresso in On Liberty non è solo
lo Stato come apparato istituzionale coercitivo a costituire un
costante pericolo per la libertà individuale, così come invece
accade nella tradizione liberale (si pensi ad esempio alla prima
pagina di Common Sense di Paine).(20) Per Mill
anche la comunità, in quanto entità ipostatizzata e posta al di
sopra delle possibilità di azione e di verifica degli individui, e
la società come luogo dell'interesse generale costituiscano una
fonte di pericolo per le libertà dei singoli. Ecco perché questo
pensatore prende le distanze dalle posizioni di Auguste Comte, al
quale peraltro egli era stato molto vicino e dalla cui filosofia
positivistica era stata influenzata in particolare la sua opera A
System of Logic (1843). Mill si allontana dalle teorie di Comte,
manifestando rispetto ad esse un esplicito dissenso, quando lo
studioso francese preconizza un sistema sociale comunitario al quale
l'individuo risulta essere totalmente subordinato, quella communauté
contro cui si esercita tanta parte della critica di Proudhon. Mill
dissente nettamente da Comte, "il cui sistema sociale, esposto
nel suo Système de Politique Positive mira a stabilire
(sebbene mediante dispositivi più morali che legali) un dispotismo
della società sull'individuo che supera ogni altro dispotismo
contemplato nell'ideale politico dei più rigidi autoritari
(disciplinarian) tra i filosofi antichi".(21) Questo
libro - scrive altrove Mill del Système de politique positive
- "è un monumentale monito a coloro che pensano intorno alla
società e sulla politica di ciò che accade una volta che gli uomini
perdono di vista, nelle loro speculazioni, il valore della libertà e
dell'individualità".(22)
La delimitazione
del potere politico
Il governo di una
società - avverte Mill - costituisce un potere di per sé già
enorme perché sia conveniente caricarlo di ulteriori competenze. Non
soltanto il governo inteso come l'emanazione di norme da parte di un
gruppo ristretto di individui, ma la dimensione sociale come tale, se
ipostatizzata, se intesa come norma emanata pure dall'insieme dai
consociati (consciamente o inconsciamente) ma sottratta poi alla
discussione e alla modifica da parte di questi, è fonte di
oppressione e manifestazione di dominio politico, di "dispotismo". Tre sono le
obiezioni che il filosofo inglese solleva verso ogni forma di
interferenza governativa che non comporti violazioni della libertà
individuale.(23) Queste ultime sono
respinte a priori come assolutamente inammissibili , eccezion fatta
per alcuni casi cui si è accennato sopra (che possono ricondursi
alla necessità ammessa da Mill della garanzia della sicurezza fisica
dei membri della società). Mill non soltanto reputa illecita
l'azione dello Stato quando questa significhi restrizione della
libertà degli individui, ma reputa dannosa tale azione anche quando
essa non ostacoli il movimento degli individui, bensì lo promuova.
L'azione dello Stato è ritenuta dannosa, in questa prospettiva, sia
quando attacca o restringe la libertà negativa, sia anche quando
tende a sostituirsi alla libertà positiva dei singoli, surrogandola
o manipolandola. Questa azione di intervento dello Stato è ritenuta
essenziale innanzitutto - è questa la prima obiezione - perché
quando si tratta di fare qualcosa è probabile che questo sia fatto
meglio dagli individui che dal governo. Ciò perché si ritiene che
il più adatto a condurre un certo affare sia colui che è
personalmente interessato ad esso. Tale principio implica il rifiuto
dell'interferenza dell'amministrazione e del potere legislativo con i
processi ordinari della produzione e della distribuzione dei beni. La seconda
obiezione mossa da Mill all'intervento governativo negli affari della
società è la seguente. In molti casi - scrive Mill -, anche se gli
individui non sono in grado di fare quella particolare cosa meglio
degli agenti del governo, è nondimeno auspicabile che essa sia fatta
dagli individui piuttosto che dal governo, allo scopo di educare e
rafforzare le facoltà e la capacità d'iniziativa dei singoli membri
del corpo sociale. Ecco perché ad esempio Mill raccomanda
l'introduzione delle giurie popolari al posto dei tribunali composti
da magistrati professionisti e lo sviluppo delle istituzioni locali
al posto dell'amministrazione centrale dello Stato. Egli annette
all'associazionismo volontario un'importanza per certi versi pari a
quella che gli attribuiscono pensatori anarchici come Kropotkin e
Malatesta.(24)
Il ruolo delle
associazioni volontarie
Da più parti si
assume che uno dei caratteri distintivi della teoria politica
liberale sia quello di preconizzare una società in cui l'unico ente
collettivo sia il
governo, e nella
quale tra il governo e gli individui non si frapponga alcuna "società
intermedia". Ciò è certamente vero per una versione del
liberalismo, ma non è un principio costitutivo, e pertanto
irrinunciabile, di questo pensiero. Mill, pur mantenendosi
nell'ambito del liberalismo ed anzi rappresentando una delle versioni
più note di questo, caldeggia la creazione del numero più ampio
possibile di associazioni volontarie, di "società intermedie"
cioè, ed a queste attribuisce un ruolo fondamentale nella sua
concezione della società libera. La rivalutazione
dell'associazionismo volontario a me pare piuttosto un'applicazione
conseguente dei principi liberali. Una volta, infatti, che
l'intervento del governo è ritenuto comunque sospetto e sempre
foriero di implicazioni autoritarie, l'iniziativa spontanea degli
individui e la loro associazione divengono il modello alternativo per
la cura degli affari comuni al gruppo sociale. Mill d'altronde non è
il solo, nell'ambito dei pensatori liberali, a puntare in maniera
decisa sull'associazionismo volontario come alternativa all'invadenza
statale. Humboldt sosteneva che "il vero scopo dello Stato deve
essere quello di condurre gli uomini, per mezzo della libertà, alla
associazione la cui attività possa in mille casi sostituirsi a
quella dello Stato".(25) Hayek, in tempi più recenti, così ha
scritto in proposito: "L'idea dannosa che tutti i bisogni pubblici
devono essere soddisfatti da organizzazioni obbligatorie e che tutti
i mezzi che gli individui sono disposti a devolvere per scopi
pubblici devono essere sotto il controllo del governo è
completamente estraneo ai principi fondamentali di una società
libera. Il vero liberale deve al contrario augurarsi quanto più
possibili di quelle "società particolari dentro lo Stato",
organizzazioni volontarie tra l'individuo e il governo, che il falso
individualismo di Rousseau e la rivoluzione francese volevano
sopprimere". (26)
La terza e più
cogente ragione per restringere l'interferenza del governo negli
affari della società risiede - secondo Mill - nel pericolo di
eccessi e deviazioni sempre insito nell'esercizio del potere
politico. Dietro questo argomento si intravvede il pregiudizio tipico
del liberale per cui "il governo è un male necessario",
dimodoché il governo, se pure accettato come "necessario",
rimane tuttavia per sua natura un "male" ed è pertanto
sempre visto con sospetto. È certo che Mill avrebbe concordato con
la formula per la quale "il governo migliore è quello che
governa di meno".(27) Se il governo è di per sé un pericolo -
argomenta Mill - l'intensità di tale pericolo è direttamente
proporzionale all'estensione delle competenze governative. Ogni funzione
aggiunta a quelle già esercitate dal governo accresce - secondo Mill
- l'influenza governativa sulle paure e le speranze dei cittadini e
li converte in "clienti" (hangers-on (28)
) del governo o di qualche partito politico che mira a insediarsi al
governo. Questo scriveva Mill nell'Inghilterra del 1859, dove e
quando l'apparato statale, se paragonato a quelli contemporanei, era
poca cosa. Si pensi solo al numero ridottissimo di ministeri che
allora formavano il governo britannico, ed in genere i governi
europei. Si confronti quella situazione, nell'Inghilterra del
1859, e la nostra, l'italiana in particolare, degli anni
Ottanta, e ci si renderà conto del fondamento dei timori che Mill
manifestava alla metà del secolo scorso. La corruzione della
nostra società - che risulta non solo dalla diffusione davvero
formidabile di reati come l'appropriazione indebita e il peculato, ma
anche e soprattutto dal desiderio, che oggi ciascuno nutre, di voler
vivere delle elargizioni dell'erario, di denaro pubblico, - segnala
la qualità di "cliente" (nel significato che i latini
davano a questo vocabolo) o di postulante cui si è ridotto quello
che prima si faceva orgogliosamente chiamare "cittadino".(29)
Attenzione alla
burocrazia
Come aveva temuto
Mill, la crescita delle dimensioni dello Stato è fattore
profondamente diseducativo per il costume e le capacità
dell'individuo. La dilatazione del potere politico produce la
corruzione innanzitutto di se stesso oltre ogni limite e poi quella
dell'intero tessuto sociale. Questo, a sua volta, riproduce la
corruzione e la ritrasmette all'istanza politica. "Infatti -
come ha scritto un noto commentatore politico a proposito
dell'odierna situazione italiana - anche il "basso" si
collega sempre all'"alto" perché rientra a sua volta
nell'oligarchia politica che muove ogni cosa: essendo affidato alla
"consulenza delle forze politiche" tutto o quasi tutto: la
vita di quartiere e le sorti di governo, le soluzioni legislative o i
salvataggi industriali, la distribuzione dei posti per lottizzazione,
la stessa sorte e la rispettabilità delle persone".(30). Seguiamo ancora
l'argomentazione di Mill in On Liberty, e ci renderemo conto
della natura perversa degli Stati democratici contemporanei, e del
vasto e profondo processo di statalizzazione che ha avuto luogo negli
oltre cento anni che ci separano dalla prima edizione del libro del
filosofo inglese. Se le strade, le ferrovie, le banche , le
assicurazioni, le università e l'assistenza pubblica, fossero tutti
delle branche dello Stato; se, in più, le istituzioni locali con
tutte le loro competenze divenissero parte dell'amministrazione
centrale; se gli impiegati di tutti questi differenti enti fossero
assunti e pagati dal governo e attendessero dal governo il
miglioramento del loro tenore di vita; ebbene - conclude Mill - la
libertà della stampa e l'elezione da parte del popolo delle
assemblee legislative non basterebbero a fare di un tale paese una
nazione libera se non solo di nome.(31). Il pericolo sarebbe
ancora maggiore - aggiunge il nostro autore - quanto più
scientificamente fosse costruita la macchina amministrativa, e quanto
più efficace fosse la maniera di ottenere per tale amministrazione
del personale abile e qualificato. Se ogni settore
dell'amministrazione della società che richiede il concerto di
grandi sforzi fosse nelle mani del governo, e se gli uffici
governativi fossero ricoperti dagli uomini più capaci, Mill ritiene
che tutta la cultura e l'intelligenza del paese finirebbero per
concentrarsi in una enorme burocrazia, a cui il resto della comunità
sarebbe costretto a rivolgersi per ogni cosa. Mill è ben lontano
dalle concezioni che assumono la politica (e il diritto) come
"tecnologia sociale". Non credo che Mill
condividerebbe a questo proposito le tesi ad esempio di Hans Kelsen e
di Hans Albert, i quali pure si richiamano entrambi al pensiero
liberal-democratico. Una concezione strumentalista della politica e
del diritto, visti per l'appunto come strumenti di "ingegneria
sociale", contrasta - come nota Isaiah Berlin - con l'umanesimo
che ispira il pensiero liberale(32) quantomeno a partire da Kant. Una
concezione strumentalista della politica collide con l'attribuzione
al soggetto umano di un valore assoluto, tale che esso debba essere
sempre trattato secondo la famosa massima kantiana(33) - sempre come
fine e mai come mezzo. Una tale concezione presuppone una
antropologia per la quale l'uomo agisce essenzialmente per via di
stimoli esterni e d'imitazione. Questa non è l'antropologia di John
Stuart Mill. "Colui - scrive questi - che lascia che il mondo, o la
sua porzione di esso, scelga per lui il suo programma di vita non ha
bisogno di nessun'altra facoltà se non quella scimmiesca
dell'imitazione".(34) Ma la natura umana - secondo Mill - è ben
diversa da quella delle scimmie. "La natura umana non è una
macchina che va costruita secondo un modello, e che va messa a fare
esattamente il lavoro prescritto per essa, bensì è un albero, che
ha l'esigenza di crescere e svilupparsi per ogni lato, secondo la
tendenza delle forze interne che fanno di lui una cosa vivente".(35)
Si potrebbe forse avanzare l'ipotesi che Mill pone a fondamento della
politica più che una razionalità di tipo strumentale (centrata sul
rapporto mezzo-fine) una razionalità "comunicativa" o
"discorsiva" (basata sull'eguale possibilità delle parti
di farsi intendere) di un tipo vicino a quella teorizzata ai giorni
nostri da Karl-Otto Apel e da Jürgen
Habermas.(36) Come si è visto,
la lettura di Mill ci rende palese l'enorme distanza che separa la
nostra società da quelle liberali del secolo scorso, per ciò che
riguarda il rapporto tra Stato e individuo. Mill auspicava che gli
affari della società continuassero ad essere regolati al di fuori
dell'intervento statale, e che i più capaci non impiegassero il loro
ingegno entro gli organici dell'amministrazione pubblica. A questo
auspicio faceva riscontro, nella società civile ottocentesca, un
diffuso sentimento per cui l'impiego pubblico era visto, rispetto
all'attività privata, come un'occupazione di rango inferiore. "Non
c'è un giovane d'ingegno che studi legge per entrare in una
"Amministrazione"; tutti aspirano all'avvocatura, agli
affari, alla vita politica. Non c'è allievo-ingegnere capace che non
aspiri all'industria, o alla carriera indipendente. Al "Genio
Civile", alle "Ferrovie di Stato", ai "Servizi
elettrici" vanno generalmente gli scarti, i timidi che non osano
lanciarsi nella vita, i ragazzi senza carattere e senza personalità,
gli sgobboni, i "primi della classe", che non sanno
concepire l'entrata nella vita altrimenti che attraverso la porta
santa del concorso".(37) Così poteva ancora scrivere un
liberale come Armando Zanetti nel 1937. Ma chi potrebbe oggi ripetere
le sue parole in una società dove l'impiego pubblico è la
principale (e spesso l'unica) occasione di lavoro, ed è quindi
divenuto la massima aspirazione di capaci e meno capaci? Nella
società italiana degli anni Ottanta "un giovane d'ingegno che
studi legge" preferisce di gran lunga la carriera sicura e ben
remunerata del giudice a quella incertissima dell'avvocato, e per un
qualsiasi posto pubblico messo a concorso, sia pure il più umile, si
presentano migliaia di candidati carichi di lauree e di diplomi.
Libertà
negativa e libertà positiva
Qual è
l'organizzazione politica che più si confà all'ideale di una
società libera? Mill risponde a tale questione facendo ricorso alla
sua principale tesi epistemologica, che può riassumersi
nell'affermazione, molti anni prima di Karl Popper e di Hans Albert,
della fallibilità della conoscenza. Dalla constatazione
della "debolezza" delle facoltà conoscitive dell'uomo John
Stuart Mill fa discendere la necessità, perché si giunga ad un
grado accettabile di probabile certezza della conoscenza, di
procedere a molteplici e divergenti tentativi, ed alla formulazione
di più ipotesi in conflitto tra loro. Mill riprende qui un'idea che
è già in nuce nell'Aeropagitica di John Milton,(38) e
che circola nel pensiero illuministico. Questa idea aveva trovato,
durante la rivoluzione francese, una sintesi assai efficace nel motto
che accompagnava talvolta, nei manifesti rivoluzionari, l'appello a
partecipare ad una assemblea: Du choques des idées jaillit la
lumière (dallo scontro delle idee sprizza la luce).(39) Con
questa tesi, del pluralismo come fondamento della conoscenza, Mill
nel secondo capitolo di On Liberty giustifica la
rivendicazione della libertà di pensiero.(40) Mill utilizza
quattro argomenti per "giustificare" la libertà di
opinione e di espressione di questa: a) un'opinione può sempre
essere vera, considerato che noi esseri umani non possediamo un
parametro assoluto di verità. Costringerla al silenzio
significherebbe assumere la nostra infallibilità;(41) b) anche se
un'opinione è fallace, essa può tuttavia contenere delle parti di
verità. E poiché l'opinione prevalente mai o molto di rado ci dà su
una certa materia l'intera verità, la possibilità di ottenere la
parte rimanente di verità può darsi solo attraverso il confronto
dell'opinione prevalente con altre opinioni dissenzienti; c) anche
ammesso che l'opinione dominante esprima su una certa materia
l'intera verità, è probabile che essa sia vissuta da coloro che la
affermano come un pregiudizio del quale non si intendono la portata
né i fondamenti razionali, a meno che la contestazione di quella
verità non costringa i suoi sostenitori ad indagarne il significato
e le basi scientifiche; d) infine, una opinione dominante vera ma non
contestata corre il rischio di trasformarsi in un dogma, in una mera
professione di fede, inabile a promuovere lo sviluppo ulteriore della
conoscenza, che solo è possibile mediante l'esercizio non
conformista della ragione e il libero dispiegarsi dell'esperienza
personale. (42) Mediante la tesi
della fallibilità della conoscenza umana John Stuart Mill
"giustifica" anche la libertà di azione.(43) "L'argomento
di Mill - scrive uno studioso del pensiero di questo filosofo - per
la libertà di azione, la più grande espressione possibile
dell'individuabilità, era esattamente parallelo al suo argomento per
la libertà di discussione /.../ Proprio come assumeva che la verità
sarebbe emersa dalla libertà, così egli assumeva che ogni sorte di
bene, lo sviluppo più pieno dell'individuo, la virtù, il vigore,
perfino il genio, sarebbe emerso dal coltivare l'individualità".(44) Parimenti, Mill
costruisce il suo modello di democrazia sulla necessità del
pluralismo delle conoscenze e delle esperienze. Poiché le operazioni
del governo - scrive Mill - tendono ad essere dappertutto le
medesime, e poiché, al contrario, per ciò che concerne gli
individui e le associazioni volontarie, vi è una grande varietà di
esperienze e diversità di sperimentazioni, ciò che l'organizzazione
politica di un paese può fare utilmente è innanzitutto costituirsi
come un ufficio centrale che raccolga e poi diffonda il sapere
risultante dalle molteplici esperienze dei singoli e dei gruppi.
Questa è una concezione dell'istanza politica centrale che ricorda
molto quella "commissione di statistica" che nei programmi
di riorganizzazione sociale degli internazionalisti era pensata come
alternativa all'amministrazione centrale dello Stato.(45) Mill ritiene che,
poiché non ci è dato di conoscere a priori quale sia la
conoscenza più certa, quale sia l'esperienza più fruttuosa, è
necessario far sì che più conoscenze e più esperienze si
confrontino tra loro al fine di stabilire quella che di esse è la
più felice. Ciò che vale nel campo della conoscenza vale ancor più
nel campo della pratica sociale.(46) Pertanto, secondo Mill, compito
dello Stato deve essere quello di permettere ad ogni esperimento di
pratica e di organizzazione sociale di profittare dell'esperienza
degli altri, invece di non tollerare altre attività che non siano
quelle promananti dai suoi organi. A giudizio di Mill, il principio
pratico che deve ispirare l'organizzazione politica di una società
libera è, perciò, quello della più grande disseminazione del
potere politico compatibile con l'efficienza, e al tempo stesso la
più estesa centralizzazione possibile e la più capillare diffusione
dell'informazione dal centro alla periferia.(47) Per intendere
meglio il carattere dell'organizzazione politica auspicata da Mill
bisogna rivolgere l'attenzione alla concezione che il filosofo
inglese ha di un popolo libero. Qual è, secondo Mill, il tipo
antropologico del cittadino libero? Mill stabilisce una connessione
tra civiltà progredita e vigenza di uno "spirito
insurrezionale".(48) Se il popolo di un paese - scrive il
filosofo inglese - o una gran parte di esso è capace (e cita come
esempio i francesi) di improvvisare e condurre efficaci piani di
azione in una insurrezione; se un popolo è capace (e cita gli
americani) di portare avanti, senza l'intervento del governo e con
sufficiente intelligenza la gestione della cosa pubblica; allora quel
popolo potrà dirsi libero. Questo è il modello di un popolo libero:
un popolo capace di difendersi militarmente e di gestirsi
economicamente da sé, senza l'aiuto (o l'impaccio) del
governo. Un tale popolo difficilmente si farà rendere schiavo, per
due ragioni: a) perché è capace di lottare efficacemente contro
ogni minaccia armata dello Stato; b) perché è capace di gestire le
attività sociali ed economiche e di prendere nelle proprie mani
l'amministrazione degli affari pubblici. Va contestato a questo
proposito un luogo comune intorno al pensiero politico liberale. Da più parti, ma
specialmente da parte marxista, si è raffigurato il tipo
antropologico preconizzato dalla teoria politica liberale come quello
del borghese, del commerciante, il quale in cambio della sicurezza
assicurata ai suoi traffici, e più in generale alla sua sfera
privata, cede ad altri l'esercizio del potere politico.(49) Questa
immagine dello homo liberalis è tracciata un
po' sul modello del borghese rinascimentale nei comuni italiani che
di buon grado affida alle compagnie di ventura la gravosa difesa
della sua città e restringe progressivamente i suoi interessi dalla
vita pubblica a quella economica, accelerando così il tramonto del
comune e il sorgere della signoria. Questa
interpretazione del tipo antropologico preconizzato dal liberalismo
prende spunto dalla famosa distinzione operata da Benjamin Constant
tra libertà positiva (o "libertà degli antichi") e libertà
negativa (o "libertà dei moderni"). Constant prende partito,
come è noto, per la libertà negativa, la libertà cioè che
consiste non nella partecipazione al potere politico, bensì
nell'astensione da parte del potere da ogni arbitraria invasione
della sfera privata del cittadino e nella difesa di quest'ultimo
contro quella eventualità (l'arbitrio del potere politico). In questa
posizione qualcuno ha visto l'esaltazione del riflusso nel "privato"
e la raccomandazione all'individuo di astenersi da ogni attività
pubblica, l'invito a spogliarsi delle vesti di "cittadino" per
assumere quelle più comode di "proprietario" o di
"padre".(50) Non intendo, nello spazio di questo scritto, entrare
nel merito di tale interpretazione; fare ciò richiederebbe
un'analisi accurata dei testi di Constant che esula dal tema (il
pensiero di Mill sulla libertà) che qui si tratta. Mi preme,
comunque, affermare che, se anche Constant avesse predicato
l'astensionismo politico nel senso sopra precisato (del che dubito
fortemente), la posizione "astensionista" non potrebbe
essere attribuita all'intero pensiero liberale. A tale indebita
attribuzione ostano tra l'altro le idee di Mill al riguardo.
Le istituzioni
libere
D'altra parte non
si vede perché l'affermazione della cosiddetta libertà negativa
dovrebbe collidere col riconoscimento della libertà "positiva".
In merito, io condivido l'opinione di Claude Lefort secondo cui "la
dichiarazione che la libertà consista nel poter fare tutto ciò che
non nuoce ad altri non implica il ripiegarsi dell'individuo nella
propria sfera di attività. La formula negativa: "ciò che non
nuoce a...", alla quale si arresta Marx, - continua Lefort è
indissociabile dalla forma positiva: "fare tutto ciò
che...".(51) Mi azzardo a proporre la tesi seguente. La libertà
negativa è la condizione necessaria, anche se non sufficiente,
condicio sine qua non ma non condicio per quam, della
libertà positiva. Pensare ad una libertà positiva in una situazione
nella quale non è garantita la libertà negativa è, a mio avviso,
una assurdità. Per partecipare liberamente alla gestione
della cosa pubblica - sottolineo il "liberamente", ché il mero
partecipare non ci dà ancora la libertà positiva - è necessario
innanzitutto potersi muovere liberamente, dunque non trovarsi in
stato di cattività, e poi poter stare in casa propria senza il
timore di un'irruzione di chicchessia ed a maggior ragione delle
forze che dovrebbero vegliare sulla sicurezza dei cittadini, poter
uscire di casa senza la minaccia di un'aggressione. Inoltre, al
medesimo fine (la libera partecipazione politica, o libertà
positiva), è necessario poter discutere liberamente, e per far ciò
è necessario potere liberamente incontrarsi, scambiarsi le proprie
opinioni, e dunque poter inviare e ricevere corrispondenza senza che
questa sia intercettata e censurata, ed infine poter rendere
pubbliche (mediante l'impiego dei media e riunioni in luogo
pubblico) le proprie idee. Andrea Caffi ha
scritto sulla libertà parole semplici e essenziali. "Dovunque
si abbia vita in comune (e dove non si ha vita in comune con gli
altri?) la libertà è che mi si lasci in pace il più possibile,
sicché io non abbia a scervellarmi sulla famosa scelta fra "libertà
astratta" e "libertà concreta", democrazia "formale"
e democrazia "sostanziale". Se non ho paura di essere
svegliato alle sei di mattina dalla NKVD o dalla Gestapo, sono
libero; se no, non lo sono, e non c'è altro da dire".(51) Qui
Caffi si riferisce più che alla coppia libertà negativa/libertà
positiva a quell'altra libertà astratta/libertà concreta, con cui
talvolta si tende a confondere la prima coppia. Questa seconda coppia
(libertà astratta/libertà concreta) è introdotta nella teoria
politica dalla dottrina marxista. Il marxismo ci insegna, infatti,
che la libertà negativa è libertà "astratta", e che la
libertà "concreta" (la quale non consiste nemmeno nella
libertà positiva, almeno nel significato attribuito a questa da
Constant) risulta dal combinarsi della collettivizzazione della
proprietà con la dittatura proletaria. Così, la libertà "concreta"
si risolve: a) in una certa organizzazione dell'economia, e b) in una
qualche forma di partecipazione all'organizzazione politica del
paese, per il tramite organico della avanguardia proletaria. Può
concludersi che nella dottrina marxista la libertà politica si
risolve da un lato in uno status economico, e dall'altra nella
mobilitazione del corpo sociale interessato (del soggetto
della "libertà"). Uno dei saggi di
teoria politica più interessanti scritti da John Stuart Mill è
quello dedicato all'opera di Alexis de Tocqueville, La Démocratie
en Amerique. In questo lungo saggio, ad un certo punto, seguendo
l'argomentazione di Tocqueville, Mill affronta la questione
dell'astensionismo politico e del riflusso nel privato del cittadino
nelle società democratiche. "Il signor de Tocqueville - scrive
Mill - è dell'opinione che una delle tendenze di uno stato
democratico è di far sì che ciascuno, in qualche modo, si ritiri in
se stesso e si concentri nei propri interessi, desideri ed obiettivi
all'interno dei propri affari e della propria casa".(53) Per
Mill, come per Tocqueville, tale tendenza è perniciosa. "Perciò,
poiché lo stato della società diviene più democratico, è sempre
necessario nutrire il patriottismo(54) per via di mezzi artificiali;
e di questi nessuno è tanto efficace quanto le istituzioni libere,
ovvero un ampio e frequente intervento dei cittadini nella gestione
degli affari pubblici".(55) Così, per evitare proprio quel
riflusso nella sfera privata che secondo taluni costituirebbe la
quintessenza del pensiero liberale, Mill - sulla scia di Tocqueville
- raccomanda l'adozione sempre più ampia di free institutions,
di istituzioni politiche libere che si basino sulla diffusa e
spontanea partecipazione dei cittadini. Le "istituzioni libere"
sono concepite da Mill come un correttivo alla tendenza, insita nelle
società democratiche (qui nel senso di società di massa),
ad isolare l'individuo dai propri simili, il cittadino dagli altri
consociati. A tali libere istituzioni Mill assegna la funzione di
costituire una scuola di cooperazione e di solidarietà. "Non è
soltanto l'amore del proprio paese che richiede questo
incoraggiamento, bensì ogni sentimento che leghi sia per interesse
sia, per simpatia gli uomini ai loro vicini e compagni".(56) Mill è però -
come si è visto sopra - ben conscio dell'insufficienza della sola
partecipazione al potere politico là dove questa non sia
accompagnata dalla libertà negativa, ed anzi delle tentazioni
autoritarie che sono insite in una partecipazione che non tenga conto
dello statuto autonomo dell'individuo. Ciò non vuol dire che la
partecipazione, la libertà positiva, sia a sua volta trascurata. Né
Mill cade nel vizio tipico della teoria politica liberale di limitare
il raggio di azione della libertà positiva alla sola sfera politica.
La partecipazione è, secondo Mill, non soltanto partecipazione alla
vita delle istituzioni politiche, ma anche a quelle delle istituzioni
economiche, della fabbrica, in primo luogo. A questo proposito il
filosofo inglese giunge ad auspicare "l'associazione dei
lavoratori stessi su un piede di eguaglianza, i quali possiedano
collettivamente il capitale necessario per le loro operazioni e
lavorino alle direttive di manager eletti e revocabili
da loro stessi".(57) Va sottolineato, inoltre, che Mill ritiene
che il principio del "libero scambio" non si basa sui medesimi
fondamenti sui quali, a suo avviso, posa il principio della libertà
individuale. "La dottrina del libero scambio - scrive - non
implica il principio della libertà individuale".(58) Mill, cioè,
distingue nettamente tra liberismo, dottrina del mercato libero, e
liberalismo. Sotto questo aspetto non Nozick ma Rawls è più vicino
alla filosofia politica di Mill.
Liberalismo e
anarchismo
Qual è, infine, il
nocciolo del pensiero politico di John stuart Mill espresso in On
Liberty? Il "grande principio direttivo" (come Mill lo
definisce, riprendendo le parole di Wilhelm von Humboldt) che guida
il filosofo nel suo saggio sulla libertà è, fondamentalmente,
quello per cui la coercizione in tutte le sue forme soffoca le
energie dell'uomo e genera ogni sorta di meschinità. Vale Per Mill
quanto scrive in proposito von Humboldt: "La coazione mortifica la
forza ed eccita tutti i desideri egoistici, e i più bassi artifici
della debolezza. La coazione può forse impedire qualche errore, ma
toglie bellezza anche alle azioni più giuste. La libertà produce
forse qualche errore, ma dà al vizio stesso un'apparenza meno
ignobile".(59) La libertà è così definita da Mill: "La sola
libertà degna di questo nome è quella di perseguire il nostro
proprio bene secondo la nostra propria maniera, fintantoché non
tentiamo di privare gli altri della loro o di intralciare i loro
sforzi per ottenerla".(60) Nella condanna della coercizione e
nell'affermazione rigorosa della libertà come autonomia
dell'individuo il liberalismo conseguente e radicale di John Stuart
Mill giunge - a me pare - fino ai limiti dell'anarchismo.(61) L'attribuzione di
una valenza anarchica al pensiero politico di Mill, almeno così come
questo è espresso in On Liberty, potrà sembrare forse una
forzatura.(62) Credo, però, che un argomento a favore di questa
tesi si possa trovare nell'Autobiografia di Mill (pubblicata a
cura di Helen Taylor nel 1873), là dove l'autore espone le fonti
teoriche del suo saggio sulla libertà e rende espliciti alcuni
riferimenti che possono già leggersi tra le righe di quel saggio.
Ebbene, uno di questi riferimenti, oltre Wilhelm von Humboldt (una
cui frase sta ad epigrafe di On Liberty), è il pensiero di
Josiah Warren.(63) Josiah Warren era un anarchico individualista
americano, animatore di un'esperienza comunitaria (Modern Times)
che si svolse a Long Island all'incirca dal 1850 al 1860.(64) D'altra
parte, nell'opera di pensatori anarchici successivi possono
rinvenirsi riconoscimenti del debito teorico da essi contratto nei
confronti di Mill, ed in special modo del Mill di On Liberty.
Così, ed esempio, ci imbattiamo nella seguente affermazione di Luigi
Fabbri, teorico assai influente dell'anarchismo italiano, quando
questi redige una sorta di elenco di fonti del pensiero anarchico:
"L'esposizione del concetto di libertà, c'è già tutto quanto
in un libricino di Stuart Mill".(65) E d'ispirazione milliana -
nella sua condanna del conformismo e nella sua interpretazione del
socialismo come teoria individualista - è una delle più belle opere
della letteratura anarchica: The Soul of Man under
Socialism di Oscar Wilde.(66) Nico Berti, in un
tentativo di ricostruzione storico-teorica dell'anarchismo, ha di
recente sostenuto che questa corrente di pensiero è in qualche modo
l'esito teorico conseguente del processo di secolarizzazione del
quale il liberalismo costituirebbe una prima tappa(67). L'opera di
Mill, che del liberalismo è una delle interpretazioni più coerenti
ed avanzate, sembra confermare l'ipotesi di una connessione tra
pensiero liberale e pensiero anarchico. In particolare On Liberty,
per le sue radici teoriche, sembra provarci che tale connessione non
vale soltanto in una direzione, dal liberalismo all'anarchismo, nel
senso cioè che dal liberalismo l'anarchismo tragga sviluppandoli
alcuni suoi principi fondamentali. La connessione si dà anche in
direzione opposta, dall'anarchismo al liberalismo, come ci indica lo
stesso Mill il quale riconosce di aver tratto motivi di riflessione e
di ispirazione dall'opera di Warren. L'anarchico Luigi Fabbri rimanda
al liberale John Stuart Mill, il liberale John Stuart Mill rimanda
all'anarchico Josiah Warren. A suo modo, nell'ambito dei legami
impalpabili esistenti tra diversi mondi di pensiero, il cerchio si
chiude.
(1) Per una analisi
recente di questo godibilissimo classico della filosofia politica,
cfr. J. GRAY, Mill on Liberty. A Defence. Routledge &
Kegan Paul, London 1983.
(2) Riguardo
all'impatto di quest'ultima traduzione di On Liberty
sul dibattito attuale della sinistra italiana, cfr. gli interventi
apparsi in "Pagina', maggio-giugno 1981, pp. 30-33, e N. BOBBIO,
Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del
gioco, Einaudi, Torino 1984, p. 120 ss.
(3) Quest'ultimo è
ad esempio il significato attribuito alla locuzione "anarchismo"
da un filosofo come Höffe.
Cfr. O. Höffe, Political
Justice. Outline of a Philosophical Theory, in "Archiv für
Rechts- und Sozialphilosophie", 1985, p. 146 ss.
(4) cfr. J. S. MILL,
A System of Logic Ratiocinative and lnductive Being a Connect View
of the Principle of Evidence and the Methods of Scientific
lnvestigation, Longmans, Green, and Co., London 1884, Book lll,
Ch. V, 11, p. 232 ss.
(5) J. S. MILL, On
Liberty, edited with an introduction by G. Himmelfarb, Penguin,
Harmondsworth 1976, p. 59.
(6) cfr. J. S. MILL,
op. ult. cit., p. 163.
(7) lvi, p.74. Cfr.
anche p. 119.
(8) cfr. H. L. A.
HART, Between Utility and Rights, in "Columbia Law
Review" 1979, ora in H. L. A. HART, Essay in Jurisprudence
and Philosophy, Clarendon, Oxford 1983. Su questo tema, cfr.
anche il recente Utility and Rights, edited by R.G. Frey, Basil
Blackwell, Oxford 1985.
(9) Si pensi, per
ciò che concerne la questione dei limiti delle competenze dello
Stato moderno, al pensiero di Ronald Dworkin, ed in particolare alla
sua opera più nota Taking Rights Seriously (Harvard
University Press, Cambridge/Mass. 1977). Per la ricerca di un
equilibrio tra libertà dell'individuo e giustizia sociale è
d'obbligo il riferimento al confronto tra A Theory of Justice
di John Rawls (Harward University Press, Cambridge/Mass. 1971) e
Anarchy, State and Utopia di
Robert Nozick (Basic Books, New York 1974). Anche rispetto al
dibattito contemporaneo sui diritti dell'uomo, Mill costituisce un
costante punto di riferimento; cfr. ad esempio D. N. MACCORMICK,
Legal Rights and Social Democracy. Essay in Legal and Pol itical
Phi losophy, ll ed., Clarendon, Oxford 1984, p.23 ss. In
una prospettiva milliana si muove anche il tentativo di E. PATTARO,
On Rights and Duties: Notes for a Normative Ethics, in "Archiv
für Rechts- und
Sozialphilosophie", 1986, 1, p. 67 ss.
(10) H. L. A. HART,
Utilitarianism and Natural Rights, in "Tulane Law
Review", 1979, ora in H. L. A. HART, Essay in
Jurisprudence and Philisophy, cit., p. 183.
Di Parere opposto sembra essere Norberto Bobbio che invece sottolinea
la continuità tra l'utilitarismo rigoroso di Bentham e la filosofia
di Mill: cfr. N. BOBBIO, Liberalismo e democrazia, Angeli,
Milano 1985, pp. 45-46.
(11) J. S. MILL, On
Liberty, cit., p. 70.
(12) cfr. H. L. A.
HART, op. ult. cit., pp. 188-191.
(13) Mill, però,
sostiene che il sentimento di giustizia negli uomini è un effetto
dell'opera condizionante e repressiva del diritto. La morale positiva
deriverebbe così, storicamente, dal diritto positivo, dalla legge.
Parimenti, l'idea dei diritti fondamentali dell'uomo, di diritti cioè
che preesistono all'ordinamento giuridico positivo, avrebbe avuto
origine dal concetto di diritto soggettivo conferito dalla legge. "l
giusti diritti dell'uomo significavano i diritti che la legge gli
dava; un uomo giusto era colui che non aveva mai violato, né
intendeva violare, i diritti legali degli altri individui, come per
esempio la proprietà. La nozione di una giustizia superiore, a cui
le leggi stesse si potrebbero ricondurre, e dalla quale la coscienza
sarebbe vincolata senza una positiva prescrizione di legge,
costituisce un'estensione successiva dell'idea che è suggerita dalla
giustizia legale e ne segue l'analogia, mantenendo una direzione
parallela ad essa attraverso tutte le sfumature e le varietà del
sentimento, e prendendo a prestito da essa quasi tutta la
terminologia. Le stesse parole iustus e justitia
derivano da ius, legge" (J.S. MILL, Saggi sulla
religione, trad. it. a cura di L. Geymonat, ll ed., Feltrinelli,
Milano 1972, P. 44).
(14) cfr. J. S.
MILL, On Liberty, cit., p. 76.
(15) G. KONRAD,
Antipolitik. Mitteleuropäische
Meditationen, Suhrkamp, Frankfurt/Main 1985, p. 219.
(16) cfr. J. S.
MILL, On Liberty, cit., p.61 ss.
(17) lvi, p. 61.
(18) Cfr. ivi, p.
62. A questo proposito, per un confronto tra il pensiero di Mill e
quello di Rousseau, cfr. A. RYAN, Mill and Rousseau:
utility and rights, in Democratic theory and
practice, edited by G. Duncan, Cambridge University Press,
Cambridge 1983, p. 39 ss.
(19) H. L. A. HART,
Law, Liberty and Morality, Oxford University Press, Oxford
1971, p. 79.
(20) T. PAINE,
Common Sense, edited with an introduction by l. Kramnick,
Penguin, Harmondsworth 1983, p. 65.
(21) J. S. MILL, On
Liberty, cit. p.73.
(22) J. S. MILL,
Autobiography, edited by J. Stillinger, Oxford University
Press, Oxford 1971, pp. 127-128. Un altro motivo di dissenso tra Mill
e Comte è che quest'ultimo teorizza, nell'ambito di una visione
organicistica della società, l'inferiorità naturale (e quindi, ad
avviso di Comte, anche sociale) della donna rispetto all'uomo. Mill,
convinto difensore della causa dell'emancipazione della donna (cui
egli dedica uno dei suoi saggi più celebri,The Subjection of
Women, 1869), non poteva non insorgere dinanzi a questa posizione
di Comte. La questione dell'oppressione delle donne è trattata,
seppure assai marginalmente, anche in On Liberty: cfr. J. S.
MILL, On Liberty, cit., p. 175.
(23) cfr. J. S.
MILL, On Liberty, cit., p 180 ss.
(24) Cfr. ad esempio
E. MALATESTA, L'anarchia, La Fiaccola, Ragusa 1973, p. 94 ss.
(25) G. HUMBOLDT,
Saggio sui limiti dell'attività dello Stato, trad. it.
a cura di G. Perticone, Giuffrè, Milano 1965, p. 106.
(26) F. A. HAYEK,
Law, Legistation and Liberty, vol. 2, The Mirage of Social
Justice, Routledge & Kegan Paul, London 1976, pp. 150-151.
(27) cfr. H. D.
THOREAU, On the Duty of Civil Disobedience, in H. D.
THOUREAU, Walden or Life in the Woods and On the Duty of Civil
Disobedience, Harper & Row, New York 1965, p.251.
(28) cfr. J. S.
MILL, On Liberty, cit., p. 182.
(29) A questo
proposito Nicola Matteucci parla di scomparsa del "cittadino,
portatore di una volontà generale, quella della civitas" (N.
MATTEUCCl, Individuo, società, stato, in "Nuova
civiltà delle macchine", anno l, n. 2, primavera 1983, p. 19).
(30) A. CAVALLARI,
L'Italia che ho visto in quei tre anni, in "La
Repubblica" del 5 ottobre 1984. Sulla natura di "cliente"
dell'italiano contemporaneo, efficaci sono le pagine di I. SILONE,
Uscita di sicurezza, Mondadori, Milano 1980, pp. 168-174.
Sulla recente configurazione dei rapporti politici come relazioni tra
un "patrono" e un "cliente", che è un ulteriore
segnale dell'attuale processo di privatizzazione e feudalizzazione
della sfera pubblica nei paesi occidentali e in special modo in
Italia, cfr. N. BOBBIO, La crisi della democrazia e la lezione dei
classici, in AA. VV., Crisi della democrazia e
neocontrattualismo, Editori riuniti, Roma 1984, pp.25-27.
(31) cfr. J. S.
MILL, On Liberty, cit., p. 182. Non è certo per caso che uno
dei capitoli di un altro "classico" del pensiero liberale (La
ribellione delle masse di Ortega Y Gasset) si intitoli "Il
pericolo maggiore: lo Stato" (cfr. J. ORTEGA Y GASSET, La
rebelión de las masas, V ed., Espasa - Calpe, S.A., Madrid 1984,
p. 144 ss.).
(32) Cfr. l. BERLIN,
Due concetti di libertà, trad. it. in AA. VV., La libertà
politica, a cura di A. Passerin d'Entrèves, Comunità, Milano
1974, p. 121.
(33) cfr. l. KANT,
Fondazione della metafisica dei
costumi, trad. it. a cura di R. Assunto, Laterza, Bari 1980, p.
61.
(34) J. S. MILL, On
Liberty, cit., p. 123.
(35) lbidem. Cfr.
anche J. M. MILL On Liberty, cit., p. 121. Sull'antropologia
umanistica, cfr. inoltre B. RUSSEL in collaborazione con D. RUSSEL,
The Prospects of lndustrial Civilization, The Century Company,
New York, London 1923, pp.274-275.
(36) Per un primo
contatto con questi temi, cfr. Rationalität,
Philosophische Beiträge,
Herausgegeben von H. Schnädelbach,
Suhrkamp, Frankfurt/Main 1984.
(37) A. ZANETTI, Il
nemico, II ed., La Fiaccola, Ragusa 1981, p. 88.
(38) J. MlLTON,
Aeropagitica. A Speech for the Liberty of Unlicensed Printing, to the
Parliament of England, in J. MILTON, Prose Writings, with
an introduction by K. M. Burton, Everyman's Library, London-New York
1974, p. 177.
(39) Carlo Cattaneo
parafrasa quel motto quando scrive che "dall'attrito perpetuo delle
idee s'accende ancora oggi la fiamma del genio europeo" (C.
CATTANEO, Scritti letterari, Le Monnier, Firenze 1925, p.292).
(40) Sulla
connessione tra crescita della conoscenza e libertà di opinione,
cfr. G. GIORELLO, M. MONDADORI, Prefazione, in J. S. MILL,
Saggio sulla libertà, trad. it. di S. Magistretti, Il
Saggiatore, Milano 1981, pp.14-18.
(41) Un argomento
analogo è utilizzato da J. MILTON, Aeropagitica, cit., p.
160. L'affermazione della libertà individuale come "deduzione"
dalla "fallibilità" delle conoscenze umane è una tesi
centrale in W. GODWIN, Enquiry Conceming Political Justice and its
lnfluence on modern morals and Happiness, edited by l. Kramnick,
Penguin, Harmondsworth 1976, p. 198 ss.
(42) Anche questo
argomento di Mill trova un corrispondente in J. MILTON, Aeropagitica,
cit., p. 172.
(43) Su tale
fallibilità spinta fino all'estremo del relativismo conoscitivo e
del cosiddetto "anarchismo metodologico", fonda la sua
filosofia politica Paul K. Feyerabend, il quale ritiene che "una
società libera è una società relativistica" (P. K. FEYERABEND,
La scienza in una società libera, trad. it. di L. Sosio,
Feltrinelli, Milano 1981, p. 33. Contra P. STRASSER, Ist
eine freie Gesellschaft eine relativistische Gesellschaft?,
in "Grazer Philosophische Studien", vol. 11, 1980, p. 141
ss. Ricorrente è la tentazione per i filosofi politici di fondare i
loro enunciati normativi su una qualche teoria della conoscenza. Un
tentativo recente in questo senso è quello di M. ZIRK-SADOWSKI,
Democracy as Hermeneutics, in "Archiv für
Rechts - und Sozialphilosophie", 1985, 2, p. 159.
(44) G. HIMMELFARB,
Introduction, in J. S. MILL, On Liberty, cit.,
pp.32-33.
(45) Cfr. ad esempio
J. GUILLAUME, ldées sur l'organisation sociale, Courvoisier,
La Chraux de Fonds, 1876.
(46) Il relativismo
conoscitivo e il pluralismo delle conoscenze e della sperimentazione
che ne discende sono parimenti la "giustificazione" adottata da
Mill per la difesa dell'emancipazione femminile e di un regime di
parità tra i sessi. Cfr. J. S. MILL, The Subjection of Women,
in J. S. MILL, On Liberty, Representative Government, The
Subjection of Women, with an introduction by G. Fawcett, Oxford
University Press, Oxford 1954, p. 431.
(47) cfr. J. S.
MILL, On Liberty, cit., p. 185. Sulla compatibilità tra
centralizzazione e democrazia intesa come auto-organizzazione della
società, cfr. C. CASTORIADIS, Democrazia e centralizzazione,
in AA. VV., Dissenso e democrazia nei paesi dell'Est. Dagli atti
del convegno internazionale di Firenze - Gennaio 1979, a
cura di P. Nadin, Vallecchi, Firenze 1980, p.41 ss.
(48) cfr. J. S.
MILL, On Liberty, cit., p. 183. All'insurrezionalismo di Mill
fa rimando nella sua reinterpretazione del liberalismo Carlo
Rosselli, cfr. C. ROSSELLI, Socialismo liberale, a cura
di J. Rosselli, Einaudi, Torino 1979, p. 103.
(49) Per una
interpretazione di questo tipo, cfr. D. NERI, Le libertà
dell'uomo, Editori riuniti, Roma 1980, pp.75-76.
(50) Di opinione
contraria è Mauro Barberis che così conclude un suo studio sul
pensiero di Constant: "Stando così le cose, bisognerà cancellare
da un'immagine cosiffatta del liberalismo taluni connotati che
nell'opera di Constant non abbiamo trovato: il classismo, per
esempio, o il partito preso filo-proprietario o il pregiudizio
antidemocratico, o il moderatismo, o il conservatorismo" (M.
BARBERIS, Il liberalismo empirico di Benjamin Constant.
Saggio di storiografia analitica, ECIG, Genova 1984, p. 199,
sottolineatura nel testo).
(51) C. LEFORT, Les
droits de l'homme en question, in "Revue interdisciplinaire
d'études juridiques" ,1984, 13, pp. 28-29.
(52) A. CAFFl,
Critica della violenza, Bompiani, Milano 1966, p. 169.
(53) J. S. MILL, M.
de Tocqueville on Democracy in America, in J. S.
MILL, DÃssertations and Discussion Political, Philosophical, and
Historical, vol. 2, ll ed., Longmans, Green & Co., London
1867, p.46. Che il "privato" tendesse a costituire il centro
di gravità della vita politica della società borghese era stato già
acutamente osservato da Heinrich Heine. Di questo cfr. gli Englische
Fragmente (1828), in H. HEINE, Reisebilder, Aufban Verlag,
Berlin und Weimar 1983, p.396 ss.
(54) Con patriotism
Mill intende esprimere il sentimento di appartenenza alla comunità,
e non una qualche forma di ideologia nazionalista.
(55) J. S. MILL, op.
ult. cit., pp.47-48.
(56) Ivi, p. 48. La
migliore forma di governo è per Mill quella per cui "l'intero
aggregato della comunità" è investito di un potere sovrano,
vale a dire è "chiamato a prendere parte effettiva nel governo"
(J. S. MILL, Considerations on Representative Government,
in J. S. MILL, Utilitarianism on Liberty and Considerations on
Representative Government, edited by H. B. Acton, J. M. Dent &
Sons, E. P. Dutton, London-New York 1977, p. 2O7. Mill non restringe
il valore e l'operatività dello spirito di cooperazione soltanto
alla sfera politica. Egli ritiene, invece, che la cooperazione sia
benefica e necessaria anche nell'ambito economico, dove dovrebbe
affiancare e limitare il principio opposto della concorrenza (cfr. J.
S. MILL, Civilization, in J. S. MILL, Dissertations and
Discussion Political, Philosophical, and Historical, vol. 1, ll
ed., Longmans, Green & Co., London 1867, p. 189). Sul valore che
Mill attribuisce alla cooperazione in campo economico, cfr. H.
JACOBS, Rechtsphilosophie und Politische Philosophie beiJohn
Stuart Mill,H. Bouvier u. Co. Verlag, Bonn 1965, p. 136 ss.).
(57) J. S. MILL,
Principles of Potitical Economy, III ed. (1852),
Book lV, Ch. Vlll, par. 6. La costante preoccupazione nell'opera di
J. S. Mill di affermare il principio dell'autogoverno è sottolineata
da A. RYAN, Mill and Rousseau: utility and practice, cit., p.
53.
(58) J. S. MILL, On
Liberty, cit., p. 164. Che Mill non intendesse il liberalismo
come dottrina della libertà da applicarsi solo alle classi
privilegiate ed entro lo spazio di movimento della borghesia è
colto, tra gli altri, da Dino Cofrancesco: cfr. D. COFRANCESCO, J.S.
Mill e Tocqueville nell'Ottocento liberale, in J. S. MILL, Sulla
"Democrazia in America" in Tocqueville, trad.
it. a cura di D. Cofrancesco, Guida, Napoli 1971, p. 86.
(59) G. HUMBOLDT,
Saggio sui limiti dell'attività
dello Stato, trad. it. cit., pp. 90-91. Che la condanna della
coazione espressa da Humboldt sia condivisa appieno da Mill è
sostenuto tra gli altri anche da H. B. ACTON, lntroduction, in
J. S. MILL, Utilitarianism, On Liberty and
Consideration on Representative Government, edited
bY H. B. Acton, J. M. Dent & Sons - E. P. Dutton, London-New York
1977, P. ii.
(60) J. S. MILL, On
Liberty, cit., p. 72.
(61) Che la
concezione individualistica della società e della storia sia il
punto in cui liberalismo e anarchismo si intersecano, o comunque
entrano in contatto, è segnalato da N. BOBBIO, Il futuro
della democrazia, cit., p. 123.
(62) Non è
superfluo ricordare che On Liberty venne recepito da settori
conservatori dell'opinione pubblica inglese come libro "anarchico".
Il liberalismo di Mill fu aspramente criticato da Matthew Arnold nel
secondo capitolo ("Doing as One Likes") di Culture and
Anarchy (1869). Secondo Arnold la rivendicazione di una completa
libertà di parola conteneva un incitamento all'"anarchia" ed
alla "sovversione".
(63) cfr. J. S.
MILL, Autobiography, cit., p. 152.
(64) Su Warren, e in
generale sulla connessione tra anarchismo e tradizione liberale
americana, cfr. R. ROCKER, Pionieri della libertà, trad. it.
di Rossella Di Leo, Antistato, Milano 1982, in particolare p. 71 ss.
Su Warren, cfr. anche G. WOODCOCK, Anarchism. A history of
libertarian ideas and movements, the World
Publishing/Company, Cleveland and New York 1962, p.456 ss., e in
particolare R. CREAGH, Laboratori d'utopia, trad. it. di
F.Bizzozzero, Antistato, Milano 1985, p. 59 ss. Un esempio recente di
contiguità tra anarchismo e liberalismo nell'ambito del pensiero
politico statunitense è il bel libro di P. GOODMAN, La società
vuota, trad. it. di M. L. Mazzini, Rizzoli, Milano 1970.
(65) L. FABBRI,
L'anarchismo nella dottrina e nel movimento, in
"Pagine libere", Lugano 1 giugno 1907, anno l, n. 12, p.761.
(66) cfr. O, WILDE,
The soul of man under Socialism (1891), ora in O. WILDE, De
Profundis and other Writings, with an introduction
bY H. Pearson, Penguin, Harmondsworth 1984, P. 19 ss.
(67) N. BERTI, Per
un bilancio storico e ideologico dell'anarchismo, in "Volontà",
1984, n. 3, p.43 ss.
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