Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 141
novembre 1986


Rivista Anarchica Online

Sulla libertà
di Massimo La Torre

"On Liberty" è il titolo di un notissimo saggio pubblicato da John Stuart Mill 127 anni fa. In queste pagine Massimo La Torre analizza il controverso legame tra pensiero liberale ed anarchismo, alla luce del più recente dibattito culturale.

Nelle pagine che seguono intendo presentare, ovviamente senza alcuna pretesa di novità, e discutere argomenti e tesi del notissimo saggio sulla libertà di John stuart Mill (On Liberty, 1859), (1) del quale qualche anno fa è apparsa una nuova traduzione italiana introdotta da un'interessante e per certi versi provocatoria prefazione di Giulio Giorello e Marco Mondadori (Saggio sulla libertà, trad. it. di S. Magistretti, Il Saggiatore, Milano 1981) (2). In questo studio intendo, in particolare, trattare delle idee di Mill riguardo alla relazione ottimale tra società e individuo, e tra organizzazione politica e cittadino. Nel fare ciò non mi limiterò all'esposizione del pensiero del filosofo inglese. Confronterò anche, brevemente, il modello di Stato liberale preconizzato da Mill con le linee di sviluppo dello Stato democratico contemporaneo, e in special modo con alcune tendenze manifestatesi nell'Italia degli ultimi quarant'anni. Mi soffermerò poi a discutere e a criticare l'interpretazione assai diffusa secondo la quale la libertà preconizzata dalla teoria politica liberale sarebbe esclusivamente quella cosiddetta "negativa". In conclusione proporrò un'ipotesi sulle radici teoriche del liberalismo di Mill e sull'influenza di questo su altre successive dottrine politiche. Avanzerò allora la tesi di una connessione tra pensiero liberale e anarchismo, intendendo quest'ultimo come una filosofia politica storicamente datasi e non come un "tipo ideale" di atteggiamento dell'individuo rispetto allo Stato ed alla società(3). Una tale connessione può, a mio parere, cogliersi nelle idee espresse da Mill nel saggio di cui qui si tratta.

Governo del popolo e difesa delle minoranze
I temi del saggio sulla libertà di Mill sono essenzialmente tre: a) la questione della libertà di pensiero connessa allo sviluppo delle potenzialità intrinseche della personalità umana e delle sue conoscenze; b) la difesa dell'individuo rispetto alle possibili invadenze dello Stato e della collettività; c) la ristrutturazione delle istituzioni politiche volta a favorire la libertà di pensiero e d'azione degli individui (ciò che da Constant in poi si è soliti chiamare "libertà negativa"), ma anche la partecipazione attiva dei singoli agli affari comuni ed alla gestione della cosa pubblica (la "libertà positiva"). L'intento principale di Mill è, già dalle prime pagine del suo libro, assai chiaro. Egli vuole tracciare una zona di inviolabilità della persona umana, il "sacro recinto" (come egli lo chiama) entro il quale la collettività e l'apparato istituzionale della società non devono operare alcuna intrusione.
Prima di procedere, è bene riportare una puntualizzazione fatta dallo stesso Mill. L'oggetto delle argomentazioni svolte in On Liberty non è il cosiddetto libero arbitrio (che Mill, come è noto, nega (4)), argomento essenzialmente teorico e con implicazioni di carattere metafisico. Il tema principale del libro è invece la libertà politica e sociale, un tema cioè eminentemente pratico. La libertà che interessa al nostro autore nel saggio di cui trattiamo non è tanto quella dell'essere umano rispetto a Dio ed alle leggi dell'universo, quanto la libertà del cittadino rispetto alla comunità ed alle sue istituzioni, ossia "la natura e i limiti del potere che può essere legittimamente esercitato dalla società sull'individuo" (5).
Due sono i principi che costituiscono la base giustificativa della filosofia politica di Mill. Il primo è che l'individuo non è responsabile nei confronti della società per ciò che concerne quelle azioni le quali non mettono in gioco interessi diversi da quelli dell'agente, vale a dire interessi altrui. Il secondo è che, per ciò che concerne le azioni che sono pregiudizievoli per gli interessi altrui (che cioè costituiscono un danno o una minaccia di danno per l'altro), l'individuo è pienamente responsabile rispetto alla società. In tal caso, il soggetto può essere sottoposto a sanzioni sia sociali che legali, là dove la società ritenga che l'una o l'altra (o ambedue) siano necessarie alla sua difesa (6).
In tutti gli affari che riguardano le relazioni esterne dell'individuo, questo è responsabile - secondo Mill - verso coloro i cui interessi sono in gioco e, se necessario, verso la società come ente protettore di tali interessi. Tuttavia - sostiene il filosofo inglese - c'è una sfera di azione rispetto alla quale la società, in quanto realtà distinta dagli individui che la compongono, ha solo un interesse indiretto. Questa sfera è quella porzione della vita e della condotta di una persona che concerne soltanto la persona stessa, o, nel caso in cui concerna anche altri, che fa ciò con il libero e volontario consenso di questi ultimi.
Questa sfera - secondo Mill - costituisce il campo della libertà umana. Esso comprende, in primo luogo, il foro interno della coscienza e quindi implica la libertà di coscienza nel suo senso più ampio, come libertà di pensare e sentire, come libertà di opinione in ogni materia, sia essa pratica o speculativa, scientifica, morale o teologica. Si noti che per Mill la libertà di esprimere e di rendere pubbliche le proprie opinioni è conseguenza immediata del principio della libertà di coscienza. Egli afferma a chiare lettere, infatti, che la libertà di esprimere la propria opinione non è nient'altro che la libertà di pensiero in azione, vale a dire l'esercizio concreto di tale libertà. Dalla libertà di pensiero - scrive Mill - "è impossibile separare l'apparentata libertà di parlare e di scrivere" (7). Come si vede, Mill è ben lontano dal liberalismo conservatore e legalista che interpreta restrittivamente la libertà di coscienza esclusivamente come libertà di pensiero, e che influenza soprattutto i sistemi giuridici degli Stati liberali della prima metà dell'Ottocento.
Il campo della libertà umana - secondo l'autore inglese - comprende, in secondo luogo, la libertà dei gusti e delle inclinazioni, vale a dire la libertà di progettare la propria vita in accordo col proprio carattere e con le proprie aspirazioni, di fare ciò che si preferisce per ciò che concerne il proprio stile di vita. Tale libertà è affermata, anch'essa, in maniera assoluta, almeno fintantoché essa non arrechi un danno all'altro. Mill ritiene quindi ingiustificato ogni intervento altrui che limiti questa libertà, qualora essa non noccia agli interessi materiali dell'altro anche se l'altro dovesse per caso ritenere che quella condotta o quello stile di vita sono stupidi, perversi, o sbagliati.
In terzo luogo, dalla libertà di coscienza e di gusti riconosciuta all'individuo Mill fa discendere la libertà di entrare in relazione con altri individui, e parimenti la libertà di associarsi per ogni fine che non comporti un danno per gli altri, entro i limiti sopra enunciati e nella presunzione che le persone che si associano non vi sono costrette e non sono ingannate in alcun modo. In questa concezione, la libertà di pensiero e della sua espressione, la libertà di condotta, e la libertà di associazione sono i tre pilastri di ciò che il filosofo inglese retoricamente definisce "il sacro recinto" (the sacred precinct) dell'individualità.
Per garantire l'effettiva vigenza di queste tre fondamentali libertà, la questione più urgente è di determinare e fissare istituzionalmente limiti all'enorme potere dello Stato contemporaneo, di ogni Stato a prescindere dal colore della sua bandiera. Un'altra questione assai importante, connessa a questa prima, è quella di trovare un equilibrio su due versanti: a) da un lato tra la giustizia sociale e la libertà individuale, tra le esigenze della società e il valore dell'autonomia, o - per usare una terminologia in voga fra i filosofi anglosassoni - "tra utilità e diritti"(8); b) e dall'altro lato tra la volontà della maggioranza e quella delle minoranze (9).

I diritti dell'individuo
Il filosofo inglese concepisce i diritti dell'individuo in due significati principali: da un verso come affermazione di uno statuto proprio dell'individuo, distinto da quello della società; d'altro verso come protezione offerta all'individuo contro eventuali - ed anzi probabili (ché Mill accoglie il pessimismo del pensiero liberale sulla natura del potere politico) - sconfinamenti del governo - e non solo di questo ma anche della società nel suo complesso - nelle aree in cui si svolge la libera attività degli individui. Mill afferma senza riserve il valore dei diritti dell'uomo, e facendo ciò opera una rielaborazione dell'etica utilitaristica che egli aveva mutuato da Bentham. L'ispirazione individualista del pensiero di Mill si ripercuote sulla sua interpretazione della filosofia utilitaristica con effetti assai rilevanti. L'utilitarismo di Mill - come scrive Hart - "manteneva solo lettera nel mentre cambiava lo spirito dell'originaria dottrina utilitaristica in molti importanti rispetti". (10) Infatti, Mill tempera il principio utilitaristico della "massima felicità per il maggior numero" con l'accettazione di taluni inalienabili diritti dell'uomo. Così, nel notissimo saggio Utilitarianism (1863), Mill afferma che il rispetto dei diritti fondamentali costituisce una specie o branca dell'utilità generale, reinterpretando il principio di utilità in termini di libertà individuale. E nel saggio sulla libertà scrive che l'utilità che egli considera come il criterio ultimo di ogni questione morale è "l'utilità nel senso più ampio, fondata sugli interessi permanenti dell'uomo come essere progressista". (11)
I diritti dell'uomo sono ricostruiti da Mill come un tipo speciale di utilità, che - come nota Hart - in caso di conflitto avrà la meglio sull'utilità concepita come massimo bene del maggior numero. (12) Inoltre, la giustizia consiste - secondo Mill - nel riconoscimento dei diritti fondamentali che spettano a ciascun uomo a prescindere dal fatto che tali diritti siano attribuiti dal diritto positivo o dalla prassi di una determinata società. (13)
Partendo dall'affermazione senza riserve dei diritti dell'uomo,(14) Mill sottolinea le possibilità d'involuzione autoritaria del principio di maggioranza e del concetto di sovranità popolare. Come è noto, molti teorici della democrazia, a cominciare da Rousseau, ritengono che là dove gli organi dello Stato sono espressione della volontà popolare (ovvero "l'avanguardia della classe operaia", nella versione organicista della teoria della rappresentanza popolare fornitaci dal marxismo), il potere di governo di questi organi (o di quella "avanguardia") non potrà essere fonte di abusi né potrà essere impiegata a detrimento degli interessi del popolo (o della "classe operaia"). Come scrive Giörgy Konrad, a proposito delle cosiddette "avanguardie rivoluzionarie" ma sviluppando considerazioni che possono applicarsi anche al ceto politico dei regimi democratici, "i rivoluzionari di professione e, più tardi, burocrati di partito sono i diffusori e le vittime dell'illusione per cui essi svolgerebbero il loro ruolo /.../ in rappresentanza degli altri, simbolizzerebbero gli altri e renderebbero superflua l'immediata partecipazione di questi al potere. Essi vogliono far credere di rappresentare una potente dignità impersonale che sta al di sopra di loro stessi". (15)
In una tale visione della democrazia i diritti dell'uomo (come garanzia data all'individuo contro lo strapotere dello Stato) perdono ogni loro significato e la loro stessa ragion d'essere, che è appunto la limitazione del potere statale. Ciò perché si è presupposta dapprima l'equivalenza tra la libertà del popolo e la volontà popolare, vale a dire si è intesa la libertà interamente come libertà positiva, libertà di partecipare alla gestione della società (e dello Stato) e niente affatto come libertà negativa, cioè come libertà di sottrarsi ai comandi o all'intervento della società (e dello Stato). E poi si è postulata l'equivalenza tra la volontà del popolo e la volontà dell'istituzione (sia questa sociale od anche statale). Se la volontà del governo equivale alla volontà del popolo, e finisce per coincidere con essa, se il governo può allora identificarsi col popolo stesso, dovrà concludersi, considerato che un soggetto (il popolo) non può "auto-opprimersi", che il governo democratico non può logicamente né praticamente risultare dispotico.
La nazione non ha bisogno di essere protetta contro la sua stessa volontà, sostengono - scrive Mill - taluni teorici della democrazia.(16) Non può esserci tirannia su se stessi - affermano questi. Lasciate - essi continuano - che i governi siano effettivamente responsabili di fronte alla nazione, e questa potrà arrischiarsi senza troppo temere a conferire loro quel potere il cui uso è la nazione stessa a dettare (mediante il meccanismo elettorale nel pensiero liberal-democratico, oppure in virtù di un nesso organico di identità di interessi nel pensiero marxista). Contro una tale argomentazione e un siffatto atteggiamento teorico si dirige in particolare la critica di Mill. "Questo modo di pensare - egli scrive -, o forse piuttosto di sentire, era comune all'ultima generazione del liberalismo europeo, e nel continente esso è ancora chiaramente predominante".(17)

Società, governo dispotismo
Secondo alcuni teorici liberali (tra i quali va ricordato James Mill, il padre di John Stuart Mill), il potere dei rappresentanti della nazione non era che il potere della nazione stessa concentrato in poche mani al fine di rendere efficace il suo esercizio. La replica di John Stuart Mill a questa interpretazione del liberalismo è secca. La realizzazione della volontà del popolo - scrive il filosofo inglese - non garantisce agli individui una sfera di libertà per due ragioni: a) innanzitutto perché il "popolo" che esercita il potere non è lo stesso (popolo) sul quale quel potere è esercitato; b) e poi perché il popolo potrebbe volere opprimere una parte dei propri membri.(18) Perciò, a giudizio di questo autore, la limitazione del potere del governo sugli individui non perde nulla della sua importanza, anche là dove i detentori del potere sono resi periodicamente responsabili nei confronti della comunità attraverso la verifica elettorale del loro mandato. Secondo Mill - come si è già detto - lo Stato, e non solo esso ma anche la società come realtà distinta dai singoli, implicano sempre per il fatto stesso di esistere una minaccia per la libertà degli uomini. L'attualità di questa minaccia è ribadita da H. L. A. Hart che, ricordando il monito di Mill, scrive come segue: "Sembra fatalmente facile credere che la lealtà ai principi democratici implichi l'accettazione di ciò che può essere definito populismo morale: l'opinione secondo cui la maggioranza ha un diritto morale a dettare come ciascuno deve vivere. Ciò è un equivoco della democrazia, che ancora minaccia la libertà individuale".(19)
Nel pensiero di Mill così come questo è espresso in On Liberty non è solo lo Stato come apparato istituzionale coercitivo a costituire un costante pericolo per la libertà individuale, così come invece accade nella tradizione liberale (si pensi ad esempio alla prima pagina di Common Sense di Paine).(20) Per Mill anche la comunità, in quanto entità ipostatizzata e posta al di sopra delle possibilità di azione e di verifica degli individui, e la società come luogo dell'interesse generale costituiscano una fonte di pericolo per le libertà dei singoli. Ecco perché questo pensatore prende le distanze dalle posizioni di Auguste Comte, al quale peraltro egli era stato molto vicino e dalla cui filosofia positivistica era stata influenzata in particolare la sua opera A System of Logic (1843). Mill si allontana dalle teorie di Comte, manifestando rispetto ad esse un esplicito dissenso, quando lo studioso francese preconizza un sistema sociale comunitario al quale l'individuo risulta essere totalmente subordinato, quella communauté contro cui si esercita tanta parte della critica di Proudhon. Mill dissente nettamente da Comte, "il cui sistema sociale, esposto nel suo Système de Politique Positive mira a stabilire (sebbene mediante dispositivi più morali che legali) un dispotismo della società sull'individuo che supera ogni altro dispotismo contemplato nell'ideale politico dei più rigidi autoritari (disciplinarian) tra i filosofi antichi".(21) Questo libro - scrive altrove Mill del Système de politique positive - "è un monumentale monito a coloro che pensano intorno alla società e sulla politica di ciò che accade una volta che gli uomini perdono di vista, nelle loro speculazioni, il valore della libertà e dell'individualità".(22)

La delimitazione del potere politico
Il governo di una società - avverte Mill - costituisce un potere di per sé già enorme perché sia conveniente caricarlo di ulteriori competenze. Non soltanto il governo inteso come l'emanazione di norme da parte di un gruppo ristretto di individui, ma la dimensione sociale come tale, se ipostatizzata, se intesa come norma emanata pure dall'insieme dai consociati (consciamente o inconsciamente) ma sottratta poi alla discussione e alla modifica da parte di questi, è fonte di oppressione e manifestazione di dominio politico, di "dispotismo".
Tre sono le obiezioni che il filosofo inglese solleva verso ogni forma di interferenza governativa che non comporti violazioni della libertà individuale.(23)
Queste ultime sono respinte a priori come assolutamente inammissibili , eccezion fatta per alcuni casi cui si è accennato sopra (che possono ricondursi alla necessità ammessa da Mill della garanzia della sicurezza fisica dei membri della società). Mill non soltanto reputa illecita l'azione dello Stato quando questa significhi restrizione della libertà degli individui, ma reputa dannosa tale azione anche quando essa non ostacoli il movimento degli individui, bensì lo promuova. L'azione dello Stato è ritenuta dannosa, in questa prospettiva, sia quando attacca o restringe la libertà negativa, sia anche quando tende a sostituirsi alla libertà positiva dei singoli, surrogandola o manipolandola. Questa azione di intervento dello Stato è ritenuta essenziale innanzitutto - è questa la prima obiezione - perché quando si tratta di fare qualcosa è probabile che questo sia fatto meglio dagli individui che dal governo. Ciò perché si ritiene che il più adatto a condurre un certo affare sia colui che è personalmente interessato ad esso. Tale principio implica il rifiuto dell'interferenza dell'amministrazione e del potere legislativo con i processi ordinari della produzione e della distribuzione dei beni.
La seconda obiezione mossa da Mill all'intervento governativo negli affari della società è la seguente. In molti casi - scrive Mill -, anche se gli individui non sono in grado di fare quella particolare cosa meglio degli agenti del governo, è nondimeno auspicabile che essa sia fatta dagli individui piuttosto che dal governo, allo scopo di educare e rafforzare le facoltà e la capacità d'iniziativa dei singoli membri del corpo sociale. Ecco perché ad esempio Mill raccomanda l'introduzione delle giurie popolari al posto dei tribunali composti da magistrati professionisti e lo sviluppo delle istituzioni locali al posto dell'amministrazione centrale dello Stato. Egli annette all'associazionismo volontario un'importanza per certi versi pari a quella che gli attribuiscono pensatori anarchici come Kropotkin e Malatesta.(24)

Il ruolo delle associazioni volontarie
Da più parti si assume che uno dei caratteri distintivi della teoria politica liberale sia quello di preconizzare una società in cui l'unico ente collettivo sia il governo, e nella quale tra il governo e gli individui non si frapponga alcuna "società intermedia". Ciò è certamente vero per una versione del liberalismo, ma non è un principio costitutivo, e pertanto irrinunciabile, di questo pensiero. Mill, pur mantenendosi nell'ambito del liberalismo ed anzi rappresentando una delle versioni più note di questo, caldeggia la creazione del numero più ampio possibile di associazioni volontarie, di "società intermedie" cioè, ed a queste attribuisce un ruolo fondamentale nella sua concezione della società libera.
La rivalutazione dell'associazionismo volontario a me pare piuttosto un'applicazione conseguente dei principi liberali. Una volta, infatti, che l'intervento del governo è ritenuto comunque sospetto e sempre foriero di implicazioni autoritarie, l'iniziativa spontanea degli individui e la loro associazione divengono il modello alternativo per la cura degli affari comuni al gruppo sociale. Mill d'altronde non è il solo, nell'ambito dei pensatori liberali, a puntare in maniera decisa sull'associazionismo volontario come alternativa all'invadenza statale. Humboldt sosteneva che "il vero scopo dello Stato deve essere quello di condurre gli uomini, per mezzo della libertà, alla associazione la cui attività possa in mille casi sostituirsi a quella dello Stato".(25) Hayek, in tempi più recenti, così ha scritto in proposito: "L'idea dannosa che tutti i bisogni pubblici devono essere soddisfatti da organizzazioni obbligatorie e che tutti i mezzi che gli individui sono disposti a devolvere per scopi pubblici devono essere sotto il controllo del governo è completamente estraneo ai principi fondamentali di una società libera. Il vero liberale deve al contrario augurarsi quanto più possibili di quelle "società particolari dentro lo Stato", organizzazioni volontarie tra l'individuo e il governo, che il falso individualismo di Rousseau e la rivoluzione francese volevano sopprimere". (26)
La terza e più cogente ragione per restringere l'interferenza del governo negli affari della società risiede - secondo Mill - nel pericolo di eccessi e deviazioni sempre insito nell'esercizio del potere politico. Dietro questo argomento si intravvede il pregiudizio tipico del liberale per cui "il governo è un male necessario", dimodoché il governo, se pure accettato come "necessario", rimane tuttavia per sua natura un "male" ed è pertanto sempre visto con sospetto. È certo che Mill avrebbe concordato con la formula per la quale "il governo migliore è quello che governa di meno".(27) Se il governo è di per sé un pericolo - argomenta Mill - l'intensità di tale pericolo è direttamente proporzionale all'estensione delle competenze governative.
Ogni funzione aggiunta a quelle già esercitate dal governo accresce - secondo Mill - l'influenza governativa sulle paure e le speranze dei cittadini e li converte in "clienti" (hangers-on (28) ) del governo o di qualche partito politico che mira a insediarsi al governo. Questo scriveva Mill nell'Inghilterra del 1859, dove e quando l'apparato statale, se paragonato a quelli contemporanei, era poca cosa. Si pensi solo al numero ridottissimo di ministeri che allora formavano il governo britannico, ed in genere i governi europei. Si confronti quella situazione, nell'Inghilterra del 1859, e la nostra, l'italiana in particolare, degli anni Ottanta, e ci si renderà conto del fondamento dei timori che Mill manifestava alla metà del secolo scorso.
La corruzione della nostra società - che risulta non solo dalla diffusione davvero formidabile di reati come l'appropriazione indebita e il peculato, ma anche e soprattutto dal desiderio, che oggi ciascuno nutre, di voler vivere delle elargizioni dell'erario, di denaro pubblico, - segnala la qualità di "cliente" (nel significato che i latini davano a questo vocabolo) o di postulante cui si è ridotto quello che prima si faceva orgogliosamente chiamare "cittadino".(29)

Attenzione alla burocrazia
Come aveva temuto Mill, la crescita delle dimensioni dello Stato è fattore profondamente diseducativo per il costume e le capacità dell'individuo. La dilatazione del potere politico produce la corruzione innanzitutto di se stesso oltre ogni limite e poi quella dell'intero tessuto sociale. Questo, a sua volta, riproduce la corruzione e la ritrasmette all'istanza politica. "Infatti - come ha scritto un noto commentatore politico a proposito dell'odierna situazione italiana - anche il "basso" si collega sempre all'"alto" perché rientra a sua volta nell'oligarchia politica che muove ogni cosa: essendo affidato alla "consulenza delle forze politiche" tutto o quasi tutto: la vita di quartiere e le sorti di governo, le soluzioni legislative o i salvataggi industriali, la distribuzione dei posti per lottizzazione, la stessa sorte e la rispettabilità delle persone".(30).
Seguiamo ancora l'argomentazione di Mill in On Liberty, e ci renderemo conto della natura perversa degli Stati democratici contemporanei, e del vasto e profondo processo di statalizzazione che ha avuto luogo negli oltre cento anni che ci separano dalla prima edizione del libro del filosofo inglese. Se le strade, le ferrovie, le banche , le assicurazioni, le università e l'assistenza pubblica, fossero tutti delle branche dello Stato; se, in più, le istituzioni locali con tutte le loro competenze divenissero parte dell'amministrazione centrale; se gli impiegati di tutti questi differenti enti fossero assunti e pagati dal governo e attendessero dal governo il miglioramento del loro tenore di vita; ebbene - conclude Mill - la libertà della stampa e l'elezione da parte del popolo delle assemblee legislative non basterebbero a fare di un tale paese una nazione libera se non solo di nome.(31).
Il pericolo sarebbe ancora maggiore - aggiunge il nostro autore - quanto più scientificamente fosse costruita la macchina amministrativa, e quanto più efficace fosse la maniera di ottenere per tale amministrazione del personale abile e qualificato. Se ogni settore dell'amministrazione della società che richiede il concerto di grandi sforzi fosse nelle mani del governo, e se gli uffici governativi fossero ricoperti dagli uomini più capaci, Mill ritiene che tutta la cultura e l'intelligenza del paese finirebbero per concentrarsi in una enorme burocrazia, a cui il resto della comunità sarebbe costretto a rivolgersi per ogni cosa.
Mill è ben lontano dalle concezioni che assumono la politica (e il diritto) come "tecnologia sociale".
Non credo che Mill condividerebbe a questo proposito le tesi ad esempio di Hans Kelsen e di Hans Albert, i quali pure si richiamano entrambi al pensiero liberal-democratico. Una concezione strumentalista della politica e del diritto, visti per l'appunto come strumenti di "ingegneria sociale", contrasta - come nota Isaiah Berlin - con l'umanesimo che ispira il pensiero liberale(32) quantomeno a partire da Kant. Una concezione strumentalista della politica collide con l'attribuzione al soggetto umano di un valore assoluto, tale che esso debba essere sempre trattato secondo la famosa massima kantiana(33) - sempre come fine e mai come mezzo. Una tale concezione presuppone una antropologia per la quale l'uomo agisce essenzialmente per via di stimoli esterni e d'imitazione. Questa non è l'antropologia di John Stuart Mill. "Colui - scrive questi - che lascia che il mondo, o la sua porzione di esso, scelga per lui il suo programma di vita non ha bisogno di nessun'altra facoltà se non quella scimmiesca dell'imitazione".(34) Ma la natura umana - secondo Mill - è ben diversa da quella delle scimmie. "La natura umana non è una macchina che va costruita secondo un modello, e che va messa a fare esattamente il lavoro prescritto per essa, bensì è un albero, che ha l'esigenza di crescere e svilupparsi per ogni lato, secondo la tendenza delle forze interne che fanno di lui una cosa vivente".(35) Si potrebbe forse avanzare l'ipotesi che Mill pone a fondamento della politica più che una razionalità di tipo strumentale (centrata sul rapporto mezzo-fine) una razionalità "comunicativa" o "discorsiva" (basata sull'eguale possibilità delle parti di farsi intendere) di un tipo vicino a quella teorizzata ai giorni nostri da Karl-Otto Apel e da Jürgen Habermas.(36)
Come si è visto, la lettura di Mill ci rende palese l'enorme distanza che separa la nostra società da quelle liberali del secolo scorso, per ciò che riguarda il rapporto tra Stato e individuo. Mill auspicava che gli affari della società continuassero ad essere regolati al di fuori dell'intervento statale, e che i più capaci non impiegassero il loro ingegno entro gli organici dell'amministrazione pubblica. A questo auspicio faceva riscontro, nella società civile ottocentesca, un diffuso sentimento per cui l'impiego pubblico era visto, rispetto all'attività privata, come un'occupazione di rango inferiore. "Non c'è un giovane d'ingegno che studi legge per entrare in una "Amministrazione"; tutti aspirano all'avvocatura, agli affari, alla vita politica. Non c'è allievo-ingegnere capace che non aspiri all'industria, o alla carriera indipendente. Al "Genio Civile", alle "Ferrovie di Stato", ai "Servizi elettrici" vanno generalmente gli scarti, i timidi che non osano lanciarsi nella vita, i ragazzi senza carattere e senza personalità, gli sgobboni, i "primi della classe", che non sanno concepire l'entrata nella vita altrimenti che attraverso la porta santa del concorso".(37) Così poteva ancora scrivere un liberale come Armando Zanetti nel 1937. Ma chi potrebbe oggi ripetere le sue parole in una società dove l'impiego pubblico è la principale (e spesso l'unica) occasione di lavoro, ed è quindi divenuto la massima aspirazione di capaci e meno capaci? Nella società italiana degli anni Ottanta "un giovane d'ingegno che studi legge" preferisce di gran lunga la carriera sicura e ben remunerata del giudice a quella incertissima dell'avvocato, e per un qualsiasi posto pubblico messo a concorso, sia pure il più umile, si presentano migliaia di candidati carichi di lauree e di diplomi.

Libertà negativa e libertà positiva
Qual è l'organizzazione politica che più si confà all'ideale di una società libera? Mill risponde a tale questione facendo ricorso alla sua principale tesi epistemologica, che può riassumersi nell'affermazione, molti anni prima di Karl Popper e di Hans Albert, della fallibilità della conoscenza.
Dalla constatazione della "debolezza" delle facoltà conoscitive dell'uomo John Stuart Mill fa discendere la necessità, perché si giunga ad un grado accettabile di probabile certezza della conoscenza, di procedere a molteplici e divergenti tentativi, ed alla formulazione di più ipotesi in conflitto tra loro. Mill riprende qui un'idea che è già in nuce nell'Aeropagitica di John Milton,(38) e che circola nel pensiero illuministico. Questa idea aveva trovato, durante la rivoluzione francese, una sintesi assai efficace nel motto che accompagnava talvolta, nei manifesti rivoluzionari, l'appello a partecipare ad una assemblea: Du choques des idées jaillit la lumière (dallo scontro delle idee sprizza la luce).(39) Con questa tesi, del pluralismo come fondamento della conoscenza, Mill nel secondo capitolo di On Liberty giustifica la rivendicazione della libertà di pensiero.(40)
Mill utilizza quattro argomenti per "giustificare" la libertà di opinione e di espressione di questa: a) un'opinione può sempre essere vera, considerato che noi esseri umani non possediamo un parametro assoluto di verità. Costringerla al silenzio significherebbe assumere la nostra infallibilità;(41) b) anche se un'opinione è fallace, essa può tuttavia contenere delle parti di verità. E poiché l'opinione prevalente mai o molto di rado ci dà su una certa materia l'intera verità, la possibilità di ottenere la parte rimanente di verità può darsi solo attraverso il confronto dell'opinione prevalente con altre opinioni dissenzienti; c) anche ammesso che l'opinione dominante esprima su una certa materia l'intera verità, è probabile che essa sia vissuta da coloro che la affermano come un pregiudizio del quale non si intendono la portata né i fondamenti razionali, a meno che la contestazione di quella verità non costringa i suoi sostenitori ad indagarne il significato e le basi scientifiche; d) infine, una opinione dominante vera ma non contestata corre il rischio di trasformarsi in un dogma, in una mera professione di fede, inabile a promuovere lo sviluppo ulteriore della conoscenza, che solo è possibile mediante l'esercizio non conformista della ragione e il libero dispiegarsi dell'esperienza personale. (42)
Mediante la tesi della fallibilità della conoscenza umana John Stuart Mill "giustifica" anche la libertà di azione.(43) "L'argomento di Mill - scrive uno studioso del pensiero di questo filosofo - per la libertà di azione, la più grande espressione possibile dell'individuabilità, era esattamente parallelo al suo argomento per la libertà di discussione /.../ Proprio come assumeva che la verità sarebbe emersa dalla libertà, così egli assumeva che ogni sorte di bene, lo sviluppo più pieno dell'individuo, la virtù, il vigore, perfino il genio, sarebbe emerso dal coltivare l'individualità".(44)
Parimenti, Mill costruisce il suo modello di democrazia sulla necessità del pluralismo delle conoscenze e delle esperienze. Poiché le operazioni del governo - scrive Mill - tendono ad essere dappertutto le medesime, e poiché, al contrario, per ciò che concerne gli individui e le associazioni volontarie, vi è una grande varietà di esperienze e diversità di sperimentazioni, ciò che l'organizzazione politica di un paese può fare utilmente è innanzitutto costituirsi come un ufficio centrale che raccolga e poi diffonda il sapere risultante dalle molteplici esperienze dei singoli e dei gruppi. Questa è una concezione dell'istanza politica centrale che ricorda molto quella "commissione di statistica" che nei programmi di riorganizzazione sociale degli internazionalisti era pensata come alternativa all'amministrazione centrale dello Stato.(45)
Mill ritiene che, poiché non ci è dato di conoscere a priori quale sia la conoscenza più certa, quale sia l'esperienza più fruttuosa, è necessario far sì che più conoscenze e più esperienze si confrontino tra loro al fine di stabilire quella che di esse è la più felice. Ciò che vale nel campo della conoscenza vale ancor più nel campo della pratica sociale.(46) Pertanto, secondo Mill, compito dello Stato deve essere quello di permettere ad ogni esperimento di pratica e di organizzazione sociale di profittare dell'esperienza degli altri, invece di non tollerare altre attività che non siano quelle promananti dai suoi organi. A giudizio di Mill, il principio pratico che deve ispirare l'organizzazione politica di una società libera è, perciò, quello della più grande disseminazione del potere politico compatibile con l'efficienza, e al tempo stesso la più estesa centralizzazione possibile e la più capillare diffusione dell'informazione dal centro alla periferia.(47)
Per intendere meglio il carattere dell'organizzazione politica auspicata da Mill bisogna rivolgere l'attenzione alla concezione che il filosofo inglese ha di un popolo libero. Qual è, secondo Mill, il tipo antropologico del cittadino libero? Mill stabilisce una connessione tra civiltà progredita e vigenza di uno "spirito insurrezionale".(48) Se il popolo di un paese - scrive il filosofo inglese - o una gran parte di esso è capace (e cita come esempio i francesi) di improvvisare e condurre efficaci piani di azione in una insurrezione; se un popolo è capace (e cita gli americani) di portare avanti, senza l'intervento del governo e con sufficiente intelligenza la gestione della cosa pubblica; allora quel popolo potrà dirsi libero. Questo è il modello di un popolo libero: un popolo capace di difendersi militarmente e di gestirsi economicamente da sé, senza l'aiuto (o l'impaccio) del governo. Un tale popolo difficilmente si farà rendere schiavo, per due ragioni: a) perché è capace di lottare efficacemente contro ogni minaccia armata dello Stato; b) perché è capace di gestire le attività sociali ed economiche e di prendere nelle proprie mani l'amministrazione degli affari pubblici. Va contestato a questo proposito un luogo comune intorno al pensiero politico liberale.
Da più parti, ma specialmente da parte marxista, si è raffigurato il tipo antropologico preconizzato dalla teoria politica liberale come quello del borghese, del commerciante, il quale in cambio della sicurezza assicurata ai suoi traffici, e più in generale alla sua sfera privata, cede ad altri l'esercizio del potere politico.(49) Questa immagine dello homo liberalis è tracciata un po' sul modello del borghese rinascimentale nei comuni italiani che di buon grado affida alle compagnie di ventura la gravosa difesa della sua città e restringe progressivamente i suoi interessi dalla vita pubblica a quella economica, accelerando così il tramonto del comune e il sorgere della signoria.
Questa interpretazione del tipo antropologico preconizzato dal liberalismo prende spunto dalla famosa distinzione operata da Benjamin Constant tra libertà positiva (o "libertà degli antichi") e libertà negativa (o "libertà dei moderni"). Constant prende partito, come è noto, per la libertà negativa, la libertà cioè che consiste non nella partecipazione al potere politico, bensì nell'astensione da parte del potere da ogni arbitraria invasione della sfera privata del cittadino e nella difesa di quest'ultimo contro quella eventualità (l'arbitrio del potere politico). In questa posizione qualcuno ha visto l'esaltazione del riflusso nel "privato" e la raccomandazione all'individuo di astenersi da ogni attività pubblica, l'invito a spogliarsi delle vesti di "cittadino" per assumere quelle più comode di "proprietario" o di "padre".(50) Non intendo, nello spazio di questo scritto, entrare nel merito di tale interpretazione; fare ciò richiederebbe un'analisi accurata dei testi di Constant che esula dal tema (il pensiero di Mill sulla libertà) che qui si tratta. Mi preme, comunque, affermare che, se anche Constant avesse predicato l'astensionismo politico nel senso sopra precisato (del che dubito fortemente), la posizione "astensionista" non potrebbe essere attribuita all'intero pensiero liberale. A tale indebita attribuzione ostano tra l'altro le idee di Mill al riguardo.

Le istituzioni libere
D'altra parte non si vede perché l'affermazione della cosiddetta libertà negativa dovrebbe collidere col riconoscimento della libertà "positiva". In merito, io condivido l'opinione di Claude Lefort secondo cui "la dichiarazione che la libertà consista nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri non implica il ripiegarsi dell'individuo nella propria sfera di attività. La formula negativa: "ciò che non nuoce a...", alla quale si arresta Marx, - continua Lefort è indissociabile dalla forma positiva: "fare tutto ciò che...".(51) Mi azzardo a proporre la tesi seguente. La libertà negativa è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, condicio sine qua non ma non condicio per quam, della libertà positiva. Pensare ad una libertà positiva in una situazione nella quale non è garantita la libertà negativa è, a mio avviso, una assurdità. Per partecipare liberamente alla gestione della cosa pubblica - sottolineo il "liberamente", ché il mero partecipare non ci dà ancora la libertà positiva - è necessario innanzitutto potersi muovere liberamente, dunque non trovarsi in stato di cattività, e poi poter stare in casa propria senza il timore di un'irruzione di chicchessia ed a maggior ragione delle forze che dovrebbero vegliare sulla sicurezza dei cittadini, poter uscire di casa senza la minaccia di un'aggressione. Inoltre, al medesimo fine (la libera partecipazione politica, o libertà positiva), è necessario poter discutere liberamente, e per far ciò è necessario potere liberamente incontrarsi, scambiarsi le proprie opinioni, e dunque poter inviare e ricevere corrispondenza senza che questa sia intercettata e censurata, ed infine poter rendere pubbliche (mediante l'impiego dei media e riunioni in luogo pubblico) le proprie idee.
Andrea Caffi ha scritto sulla libertà parole semplici e essenziali. "Dovunque si abbia vita in comune (e dove non si ha vita in comune con gli altri?) la libertà è che mi si lasci in pace il più possibile, sicché io non abbia a scervellarmi sulla famosa scelta fra "libertà astratta" e "libertà concreta", democrazia "formale" e democrazia "sostanziale". Se non ho paura di essere svegliato alle sei di mattina dalla NKVD o dalla Gestapo, sono libero; se no, non lo sono, e non c'è altro da dire".(51) Qui Caffi si riferisce più che alla coppia libertà negativa/libertà positiva a quell'altra libertà astratta/libertà concreta, con cui talvolta si tende a confondere la prima coppia. Questa seconda coppia (libertà astratta/libertà concreta) è introdotta nella teoria politica dalla dottrina marxista. Il marxismo ci insegna, infatti, che la libertà negativa è libertà "astratta", e che la libertà "concreta" (la quale non consiste nemmeno nella libertà positiva, almeno nel significato attribuito a questa da Constant) risulta dal combinarsi della collettivizzazione della proprietà con la dittatura proletaria. Così, la libertà "concreta" si risolve: a) in una certa organizzazione dell'economia, e b) in una qualche forma di partecipazione all'organizzazione politica del paese, per il tramite organico della avanguardia proletaria. Può concludersi che nella dottrina marxista la libertà politica si risolve da un lato in uno status economico, e dall'altra nella mobilitazione del corpo sociale interessato (del soggetto della "libertà").
Uno dei saggi di teoria politica più interessanti scritti da John Stuart Mill è quello dedicato all'opera di Alexis de Tocqueville, La Démocratie en Amerique. In questo lungo saggio, ad un certo punto, seguendo l'argomentazione di Tocqueville, Mill affronta la questione dell'astensionismo politico e del riflusso nel privato del cittadino nelle società democratiche. "Il signor de Tocqueville - scrive Mill - è dell'opinione che una delle tendenze di uno stato democratico è di far sì che ciascuno, in qualche modo, si ritiri in se stesso e si concentri nei propri interessi, desideri ed obiettivi all'interno dei propri affari e della propria casa".(53) Per Mill, come per Tocqueville, tale tendenza è perniciosa. "Perciò, poiché lo stato della società diviene più democratico, è sempre necessario nutrire il patriottismo(54) per via di mezzi artificiali; e di questi nessuno è tanto efficace quanto le istituzioni libere, ovvero un ampio e frequente intervento dei cittadini nella gestione degli affari pubblici".(55) Così, per evitare proprio quel riflusso nella sfera privata che secondo taluni costituirebbe la quintessenza del pensiero liberale, Mill - sulla scia di Tocqueville - raccomanda l'adozione sempre più ampia di free institutions, di istituzioni politiche libere che si basino sulla diffusa e spontanea partecipazione dei cittadini. Le "istituzioni libere" sono concepite da Mill come un correttivo alla tendenza, insita nelle società democratiche (qui nel senso di società di massa), ad isolare l'individuo dai propri simili, il cittadino dagli altri consociati. A tali libere istituzioni Mill assegna la funzione di costituire una scuola di cooperazione e di solidarietà. "Non è soltanto l'amore del proprio paese che richiede questo incoraggiamento, bensì ogni sentimento che leghi sia per interesse sia, per simpatia gli uomini ai loro vicini e compagni".(56)
Mill è però - come si è visto sopra - ben conscio dell'insufficienza della sola partecipazione al potere politico là dove questa non sia accompagnata dalla libertà negativa, ed anzi delle tentazioni autoritarie che sono insite in una partecipazione che non tenga conto dello statuto autonomo dell'individuo. Ciò non vuol dire che la partecipazione, la libertà positiva, sia a sua volta trascurata. Né Mill cade nel vizio tipico della teoria politica liberale di limitare il raggio di azione della libertà positiva alla sola sfera politica. La partecipazione è, secondo Mill, non soltanto partecipazione alla vita delle istituzioni politiche, ma anche a quelle delle istituzioni economiche, della fabbrica, in primo luogo. A questo proposito il filosofo inglese giunge ad auspicare "l'associazione dei lavoratori stessi su un piede di eguaglianza, i quali possiedano collettivamente il capitale necessario per le loro operazioni e lavorino alle direttive di manager eletti e revocabili da loro stessi".(57) Va sottolineato, inoltre, che Mill ritiene che il principio del "libero scambio" non si basa sui medesimi fondamenti sui quali, a suo avviso, posa il principio della libertà individuale. "La dottrina del libero scambio - scrive - non implica il principio della libertà individuale".(58) Mill, cioè, distingue nettamente tra liberismo, dottrina del mercato libero, e liberalismo. Sotto questo aspetto non Nozick ma Rawls è più vicino alla filosofia politica di Mill.

Liberalismo e anarchismo
Qual è, infine, il nocciolo del pensiero politico di John stuart Mill espresso in On Liberty? Il "grande principio direttivo" (come Mill lo definisce, riprendendo le parole di Wilhelm von Humboldt) che guida il filosofo nel suo saggio sulla libertà è, fondamentalmente, quello per cui la coercizione in tutte le sue forme soffoca le energie dell'uomo e genera ogni sorta di meschinità. Vale Per Mill quanto scrive in proposito von Humboldt: "La coazione mortifica la forza ed eccita tutti i desideri egoistici, e i più bassi artifici della debolezza. La coazione può forse impedire qualche errore, ma toglie bellezza anche alle azioni più giuste. La libertà produce forse qualche errore, ma dà al vizio stesso un'apparenza meno ignobile".(59) La libertà è così definita da Mill: "La sola libertà degna di questo nome è quella di perseguire il nostro proprio bene secondo la nostra propria maniera, fintantoché non tentiamo di privare gli altri della loro o di intralciare i loro sforzi per ottenerla".(60) Nella condanna della coercizione e nell'affermazione rigorosa della libertà come autonomia dell'individuo il liberalismo conseguente e radicale di John Stuart Mill giunge - a me pare - fino ai limiti dell'anarchismo.(61)
L'attribuzione di una valenza anarchica al pensiero politico di Mill, almeno così come questo è espresso in On Liberty, potrà sembrare forse una forzatura.(62) Credo, però, che un argomento a favore di questa tesi si possa trovare nell'Autobiografia di Mill (pubblicata a cura di Helen Taylor nel 1873), là dove l'autore espone le fonti teoriche del suo saggio sulla libertà e rende espliciti alcuni riferimenti che possono già leggersi tra le righe di quel saggio. Ebbene, uno di questi riferimenti, oltre Wilhelm von Humboldt (una cui frase sta ad epigrafe di On Liberty), è il pensiero di Josiah Warren.(63) Josiah Warren era un anarchico individualista americano, animatore di un'esperienza comunitaria (Modern Times) che si svolse a Long Island all'incirca dal 1850 al 1860.(64) D'altra parte, nell'opera di pensatori anarchici successivi possono rinvenirsi riconoscimenti del debito teorico da essi contratto nei confronti di Mill, ed in special modo del Mill di On Liberty. Così, ed esempio, ci imbattiamo nella seguente affermazione di Luigi Fabbri, teorico assai influente dell'anarchismo italiano, quando questi redige una sorta di elenco di fonti del pensiero anarchico: "L'esposizione del concetto di libertà, c'è già tutto quanto in un libricino di Stuart Mill".(65) E d'ispirazione milliana - nella sua condanna del conformismo e nella sua interpretazione del socialismo come teoria individualista - è una delle più belle opere della letteratura anarchica: The Soul of Man under Socialism di Oscar Wilde.(66)
Nico Berti, in un tentativo di ricostruzione storico-teorica dell'anarchismo, ha di recente sostenuto che questa corrente di pensiero è in qualche modo l'esito teorico conseguente del processo di secolarizzazione del quale il liberalismo costituirebbe una prima tappa(67). L'opera di Mill, che del liberalismo è una delle interpretazioni più coerenti ed avanzate, sembra confermare l'ipotesi di una connessione tra pensiero liberale e pensiero anarchico. In particolare On Liberty, per le sue radici teoriche, sembra provarci che tale connessione non vale soltanto in una direzione, dal liberalismo all'anarchismo, nel senso cioè che dal liberalismo l'anarchismo tragga sviluppandoli alcuni suoi principi fondamentali. La connessione si dà anche in direzione opposta, dall'anarchismo al liberalismo, come ci indica lo stesso Mill il quale riconosce di aver tratto motivi di riflessione e di ispirazione dall'opera di Warren. L'anarchico Luigi Fabbri rimanda al liberale John Stuart Mill, il liberale John Stuart Mill rimanda all'anarchico Josiah Warren. A suo modo, nell'ambito dei legami impalpabili esistenti tra diversi mondi di pensiero, il cerchio si chiude.


(1) Per una analisi recente di questo godibilissimo classico della filosofia politica, cfr. J. GRAY, Mill on Liberty. A Defence. Routledge & Kegan Paul, London 1983.

(2) Riguardo all'impatto di quest'ultima traduzione di On Liberty sul dibattito attuale della sinistra italiana, cfr. gli interventi apparsi in "Pagina', maggio-giugno 1981, pp. 30-33, e N. BOBBIO, Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Einaudi, Torino 1984, p. 120 ss.

(3) Quest'ultimo è ad esempio il significato attribuito alla locuzione "anarchismo" da un filosofo come Höffe. Cfr. O. Höffe, Political Justice. Outline of a Philosophical Theory, in "Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie", 1985, p. 146 ss.

(4) cfr. J. S. MILL, A System of Logic Ratiocinative and lnductive Being a Connect View of the Principle of Evidence and the Methods of Scientific lnvestigation, Longmans, Green, and Co., London 1884, Book lll, Ch. V, 11, p. 232 ss.

(5) J. S. MILL, On Liberty, edited with an introduction by G. Himmelfarb, Penguin, Harmondsworth 1976, p. 59.

(6) cfr. J. S. MILL, op. ult. cit., p. 163.

(7) lvi, p.74. Cfr. anche p. 119.

(8) cfr. H. L. A. HART, Between Utility and Rights, in "Columbia Law Review" 1979, ora in H. L. A. HART, Essay in Jurisprudence and Philosophy, Clarendon, Oxford 1983. Su questo tema, cfr. anche il recente Utility and Rights, edited
by R.G. Frey, Basil Blackwell, Oxford 1985.

(9) Si pensi, per ciò che concerne la questione dei limiti delle competenze dello Stato moderno, al pensiero di Ronald Dworkin, ed in particolare alla sua opera più nota Taking Rights Seriously (Harvard University Press, Cambridge/Mass. 1977). Per la ricerca di un equilibrio tra libertà dell'individuo e giustizia sociale è d'obbligo il riferimento al confronto tra A Theory of Justice di John Rawls (Harward University Press, Cambridge/Mass. 1971) e Anarchy, State and
Utopia di Robert Nozick (Basic Books, New York 1974). Anche rispetto al dibattito contemporaneo sui diritti dell'uomo, Mill costituisce un costante punto di riferimento; cfr. ad esempio D. N. MACCORMICK, Legal Rights and Social Democracy. Essay in Legal and Pol itical Phi losophy, ll ed., Clarendon, Oxford
1984, p.23 ss. In una prospettiva milliana si muove anche il tentativo di E. PATTARO, On Rights and Duties: Notes for a Normative Ethics, in "Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie", 1986, 1, p. 67 ss.

(10) H. L. A. HART, Utilitarianism and Natural Rights, in "Tulane Law Review", 1979, ora in H. L. A. HART, Essay in Jurisprudence and Philisophy, cit., p. 183. Di Parere opposto sembra essere Norberto Bobbio che invece sottolinea la continuità tra l'utilitarismo rigoroso di Bentham e la filosofia di Mill: cfr. N. BOBBIO, Liberalismo e democrazia, Angeli, Milano 1985, pp. 45-46.

(11) J. S. MILL, On Liberty, cit., p. 70.

(12) cfr. H. L. A. HART, op. ult. cit., pp. 188-191.

(13) Mill, però, sostiene che il sentimento di giustizia negli uomini è un effetto dell'opera condizionante e repressiva del diritto. La morale positiva deriverebbe così, storicamente, dal diritto positivo, dalla legge. Parimenti, l'idea dei diritti fondamentali dell'uomo, di diritti cioè che preesistono all'ordinamento giuridico positivo, avrebbe avuto origine dal concetto di diritto soggettivo conferito dalla legge. "l giusti diritti dell'uomo significavano i diritti che la legge gli dava; un uomo giusto era colui che non aveva mai violato, né intendeva violare, i diritti legali degli altri individui, come per esempio la proprietà. La nozione di una giustizia superiore, a cui le leggi stesse si potrebbero ricondurre, e dalla quale la coscienza sarebbe vincolata senza una positiva prescrizione di legge, costituisce un'estensione successiva dell'idea che è suggerita dalla giustizia legale e ne segue l'analogia, mantenendo una direzione parallela ad essa attraverso tutte le sfumature e le varietà del sentimento, e prendendo a prestito da essa quasi tutta la terminologia. Le stesse parole iustus e justitia derivano da ius, legge" (J.S. MILL, Saggi sulla religione, trad. it. a cura di L. Geymonat, ll ed., Feltrinelli, Milano 1972, P. 44).

(14) cfr. J. S. MILL, On Liberty, cit., p. 76.

(15) G. KONRAD, Antipolitik. Mitteleuropäische Meditationen, Suhrkamp, Frankfurt/Main 1985, p. 219.

(16) cfr. J. S. MILL, On Liberty, cit., p.61 ss.

(17) lvi, p. 61.

(18) Cfr. ivi, p. 62. A questo proposito, per un confronto tra il pensiero di Mill e quello di Rousseau, cfr. A. RYAN, Mill and Rousseau: utility and rights, in Democratic theory and practice, edited by G. Duncan, Cambridge University Press, Cambridge 1983, p. 39 ss.

(19) H. L. A. HART, Law, Liberty and Morality, Oxford University Press, Oxford 1971, p. 79.

(20) T. PAINE, Common Sense, edited with an introduction by l. Kramnick, Penguin, Harmondsworth 1983, p. 65.

(21) J. S. MILL, On Liberty, cit. p.73.

(22) J. S. MILL, Autobiography, edited by J. Stillinger, Oxford University Press, Oxford 1971, pp. 127-128. Un altro motivo di dissenso tra Mill e Comte è che quest'ultimo teorizza, nell'ambito di una visione organicistica della società, l'inferiorità naturale (e quindi, ad avviso di Comte, anche sociale) della donna rispetto all'uomo. Mill, convinto difensore della causa dell'emancipazione della donna (cui egli dedica uno dei suoi saggi più celebri,The Subjection of Women, 1869), non poteva non insorgere dinanzi a questa posizione di Comte. La questione dell'oppressione delle donne è trattata, seppure assai marginalmente, anche in On Liberty: cfr. J. S. MILL, On Liberty, cit., p. 175.

(23) cfr. J. S. MILL, On Liberty, cit., p 180 ss.

(24) Cfr. ad esempio E. MALATESTA, L'anarchia, La Fiaccola, Ragusa 1973, p. 94 ss.

(25) G. HUMBOLDT, Saggio sui limiti dell'attività dello Stato, trad. it. a cura di G. Perticone, Giuffrè, Milano 1965, p. 106.

(26) F. A. HAYEK, Law, Legistation and Liberty, vol. 2, The Mirage of Social Justice, Routledge & Kegan Paul, London 1976, pp. 150-151.

(27) cfr. H. D. THOREAU, On the Duty of Civil Disobedience, in H. D. THOUREAU, Walden or Life in the Woods and On the Duty of Civil Disobedience, Harper & Row, New York 1965, p.251.

(28) cfr. J. S. MILL, On Liberty, cit., p. 182.

(29) A questo proposito Nicola Matteucci parla di scomparsa del "cittadino, portatore di una volontà generale, quella della civitas" (N. MATTEUCCl, Individuo, società, stato, in "Nuova civiltà delle macchine", anno l, n. 2, primavera 1983, p. 19).

(30) A. CAVALLARI, L'Italia che ho visto in quei tre anni, in "La Repubblica" del 5 ottobre 1984. Sulla natura di "cliente" dell'italiano contemporaneo, efficaci sono le pagine di I. SILONE, Uscita di sicurezza, Mondadori, Milano 1980, pp. 168-174. Sulla recente configurazione dei rapporti politici come relazioni tra un "patrono" e un "cliente", che è un ulteriore segnale dell'attuale processo di privatizzazione e feudalizzazione della sfera pubblica nei paesi occidentali e in special modo in Italia, cfr. N. BOBBIO, La crisi della democrazia e la lezione dei classici, in AA. VV., Crisi della democrazia e neocontrattualismo, Editori riuniti, Roma 1984, pp.25-27.

(31) cfr. J. S. MILL, On Liberty, cit., p. 182. Non è certo per caso che uno dei capitoli di un altro "classico" del pensiero liberale (La ribellione delle masse di Ortega Y Gasset) si intitoli "Il pericolo maggiore: lo Stato" (cfr. J. ORTEGA Y GASSET, La rebelión de las masas, V ed., Espasa - Calpe, S.A., Madrid 1984, p. 144 ss.).

(32) Cfr. l. BERLIN, Due concetti di libertà, trad. it. in AA. VV., La libertà politica, a cura di A. Passerin d'Entrèves, Comunità, Milano 1974, p. 121.

(33) cfr. l. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it. a cura di R. Assunto, Laterza, Bari 1980, p. 61.

(34) J. S. MILL, On Liberty, cit., p. 123.

(35) lbidem. Cfr. anche J. M. MILL On Liberty, cit., p. 121. Sull'antropologia umanistica, cfr. inoltre B. RUSSEL in collaborazione con D. RUSSEL, The Prospects of lndustrial Civilization, The Century Company, New York, London 1923, pp.274-275.

(36) Per un primo contatto con questi temi, cfr. Rationalität, Philosophische Beiträge, Herausgegeben von H. Schnädelbach, Suhrkamp, Frankfurt/Main 1984.

(37) A. ZANETTI, Il nemico, II ed., La Fiaccola, Ragusa 1981, p. 88.

(38) J. MlLTON, Aeropagitica. A Speech for the Liberty of Unlicensed Printing, to the Parliament of England, in J. MILTON, Prose Writings, with an introduction by K. M. Burton, Everyman's Library, London-New York 1974, p. 177.

(39) Carlo Cattaneo parafrasa quel motto quando scrive che "dall'attrito perpetuo delle idee s'accende ancora oggi la fiamma del genio europeo" (C. CATTANEO, Scritti letterari, Le Monnier, Firenze 1925, p.292).

(40) Sulla connessione tra crescita della conoscenza e libertà di opinione, cfr. G. GIORELLO, M. MONDADORI, Prefazione, in J. S. MILL, Saggio sulla libertà, trad. it. di S. Magistretti, Il Saggiatore, Milano 1981, pp.14-18.

(41) Un argomento analogo è utilizzato da J. MILTON, Aeropagitica, cit., p. 160. L'affermazione della libertà individuale come "deduzione" dalla "fallibilità" delle conoscenze umane è una tesi centrale in W. GODWIN, Enquiry Conceming Political Justice and its lnfluence on modern morals and Happiness, edited by l. Kramnick, Penguin, Harmondsworth 1976, p. 198 ss.

(42) Anche questo argomento di Mill trova un corrispondente in J. MILTON, Aeropagitica, cit., p. 172.

(43) Su tale fallibilità spinta fino all'estremo del relativismo conoscitivo e del cosiddetto "anarchismo metodologico", fonda la sua filosofia politica Paul K. Feyerabend, il quale ritiene che "una società libera è una società relativistica" (P. K. FEYERABEND, La scienza in una società libera, trad. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1981, p. 33. Contra P. STRASSER, Ist eine freie Gesellschaft eine relativistische Gesellschaft?, in "Grazer Philosophische Studien", vol. 11, 1980, p. 141 ss. Ricorrente è la tentazione per i filosofi politici di fondare i loro enunciati normativi su una qualche teoria della conoscenza. Un tentativo recente in questo senso è quello di M. ZIRK-SADOWSKI, Democracy as Hermeneutics, in "Archiv für Rechts - und Sozialphilosophie", 1985, 2, p. 159.

(44) G. HIMMELFARB, Introduction, in J. S. MILL, On Liberty, cit., pp.32-33.

(45) Cfr. ad esempio J. GUILLAUME, ldées sur l'organisation sociale, Courvoisier, La Chraux de Fonds, 1876.

(46) Il relativismo conoscitivo e il pluralismo delle conoscenze e della sperimentazione che ne discende sono parimenti la "giustificazione" adottata da Mill per la difesa dell'emancipazione femminile e di un regime di parità tra i sessi. Cfr. J. S. MILL, The Subjection of Women, in J. S. MILL, On Liberty, Representative Government, The Subjection of Women, with an introduction by G. Fawcett, Oxford University Press, Oxford 1954, p. 431.

(47) cfr. J. S. MILL, On Liberty, cit., p. 185. Sulla compatibilità tra centralizzazione e democrazia intesa come auto-organizzazione della società, cfr. C. CASTORIADIS, Democrazia e centralizzazione, in AA. VV., Dissenso e democrazia nei paesi dell'Est. Dagli atti del convegno internazionale di Firenze - Gennaio 1979, a cura di P. Nadin, Vallecchi, Firenze 1980, p.41 ss.

(48) cfr. J. S. MILL, On Liberty, cit., p. 183. All'insurrezionalismo di Mill fa rimando nella sua reinterpretazione del liberalismo Carlo Rosselli, cfr. C. ROSSELLI, Socialismo liberale, a cura di J. Rosselli, Einaudi, Torino 1979, p. 103.

(49) Per una interpretazione di questo tipo, cfr. D. NERI, Le libertà dell'uomo, Editori riuniti, Roma 1980, pp.75-76.

(50) Di opinione contraria è Mauro Barberis che così conclude un suo studio sul pensiero di Constant: "Stando così le cose, bisognerà cancellare da un'immagine cosiffatta del liberalismo taluni connotati che nell'opera di Constant non abbiamo trovato: il classismo, per esempio, o il partito preso filo-proprietario o il pregiudizio antidemocratico, o il moderatismo, o il conservatorismo" (M. BARBERIS, Il liberalismo empirico di Benjamin Constant. Saggio di storiografia analitica, ECIG, Genova 1984, p. 199, sottolineatura nel testo).

(51) C. LEFORT, Les droits de l'homme en question, in "Revue interdisciplinaire d'études juridiques" ,1984, 13, pp. 28-29.

(52) A. CAFFl, Critica della violenza, Bompiani, Milano 1966, p. 169.

(53) J. S. MILL, M. de Tocqueville on Democracy in America, in J. S. MILL, Díssertations and Discussion Political, Philosophical, and Historical, vol. 2, ll ed., Longmans, Green & Co., London 1867, p.46. Che il "privato" tendesse a costituire il centro di gravità della vita politica della società borghese era stato già acutamente osservato da Heinrich Heine. Di questo cfr. gli Englische Fragmente (1828), in H. HEINE, Reisebilder, Aufban Verlag, Berlin und Weimar 1983, p.396 ss.

(54) Con patriotism Mill intende esprimere il sentimento di appartenenza alla comunità, e non una qualche forma di ideologia nazionalista.

(55) J. S. MILL, op. ult. cit., pp.47-48.

(56) Ivi, p. 48. La migliore forma di governo è per Mill quella per cui "l'intero aggregato della comunità" è investito di un potere sovrano, vale a dire è "chiamato a prendere parte effettiva nel governo" (J. S. MILL, Considerations on Representative Government, in J. S. MILL, Utilitarianism on Liberty and Considerations on Representative Government, edited by H. B. Acton, J. M. Dent & Sons, E. P. Dutton, London-New York 1977, p. 2O7. Mill non restringe il valore e l'operatività dello spirito di cooperazione soltanto alla sfera politica. Egli ritiene, invece, che la cooperazione sia benefica e necessaria anche nell'ambito economico, dove dovrebbe affiancare e limitare il principio opposto della concorrenza (cfr. J. S. MILL, Civilization, in J. S. MILL, Dissertations and Discussion Political, Philosophical, and Historical, vol. 1, ll ed., Longmans, Green & Co., London 1867, p. 189). Sul valore che Mill attribuisce alla cooperazione in campo economico, cfr. H. JACOBS, Rechtsphilosophie und Politische Philosophie beiJohn Stuart Mill,H. Bouvier u. Co. Verlag, Bonn 1965, p. 136 ss.).

(57) J. S. MILL, Principles of Potitical Economy, III ed. (1852), Book lV, Ch. Vlll, par. 6. La costante preoccupazione nell'opera di J. S. Mill di affermare il principio dell'autogoverno è sottolineata da A. RYAN, Mill and Rousseau: utility and practice, cit., p. 53.

(58) J. S. MILL, On Liberty, cit., p. 164. Che Mill non intendesse il liberalismo come dottrina della libertà da applicarsi solo alle classi privilegiate ed entro lo spazio di movimento della borghesia è colto, tra gli altri, da Dino Cofrancesco: cfr. D. COFRANCESCO, J.S. Mill e Tocqueville nell'Ottocento liberale, in J. S. MILL, Sulla "Democrazia in America" in Tocqueville, trad. it. a cura di D. Cofrancesco, Guida, Napoli 1971, p. 86.

(59) G. HUMBOLDT, Saggio sui limiti dell'attività dello Stato, trad. it. cit., pp. 90-91. Che la condanna della coazione espressa da Humboldt sia condivisa appieno da Mill è sostenuto tra gli altri anche da H. B. ACTON, lntroduction, in J. S. MILL, Utilitarianism, On Liberty and Consideration on Representative Government, edited bY H. B. Acton, J. M. Dent & Sons - E. P. Dutton, London-New York 1977, P. ii.

(60) J. S. MILL, On Liberty, cit., p. 72.

(61) Che la concezione individualistica della società e della storia sia il punto in cui liberalismo e anarchismo si intersecano, o comunque entrano in contatto, è segnalato da N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, cit., p. 123.

(62) Non è superfluo ricordare che On Liberty venne recepito da settori conservatori dell'opinione pubblica inglese come libro "anarchico". Il liberalismo di Mill fu aspramente criticato da Matthew Arnold nel secondo capitolo ("Doing as One Likes") di Culture and Anarchy (1869). Secondo Arnold la rivendicazione di una completa libertà di parola conteneva un incitamento all'"anarchia" ed alla "sovversione".

(63) cfr. J. S. MILL, Autobiography, cit., p. 152.

(64) Su Warren, e in generale sulla connessione tra anarchismo e tradizione liberale americana, cfr. R. ROCKER, Pionieri della libertà, trad. it. di Rossella Di Leo, Antistato, Milano 1982, in particolare p. 71 ss. Su Warren, cfr. anche G. WOODCOCK, Anarchism. A history of libertarian ideas and movements, the World Publishing/Company, Cleveland and New York 1962, p.456 ss., e in particolare R. CREAGH, Laboratori d'utopia, trad. it. di F.Bizzozzero, Antistato, Milano 1985, p. 59 ss. Un esempio recente di contiguità tra anarchismo e liberalismo nell'ambito del pensiero politico statunitense è il bel libro di P. GOODMAN, La società vuota, trad. it. di M. L. Mazzini, Rizzoli, Milano 1970.

(65) L. FABBRI, L'anarchismo nella dottrina e nel movimento, in "Pagine libere", Lugano 1 giugno 1907, anno l, n. 12, p.761.

(66) cfr. O, WILDE, The soul of man under Socialism (1891), ora in O. WILDE, De Profundis and other Writings, with an introduction bY H. Pearson, Penguin, Harmondsworth 1984, P. 19 ss.

(67) N. BERTI, Per un bilancio storico e ideologico dell'anarchismo, in "Volontà", 1984, n. 3, p.43 ss.