Rivista Anarchica Online
La rivolta
dimenticata
di Patrizio Biagi / Louis Mercier Vega
Prepotentemente
(e strumentalmente) assurta agli onori della cronaca politica, la
rivolta ungherese del '56 è qualcosa di ben più serio ed importante
di un semplice argomento per alimentare le solite oziose polemiche. Riportiamo
l'efficace sintesi di quegli avvenimenti scritta da Louis Mercier
Vega. Vogliamo così ricordare i protagonisti dell'ultima grande
rivoluzione proletaria europea, nel segno dell'antimperialismo.
"Nel 1917
gridammo: non toccate la Russia niente dittatura viva i soviet -
Oggi: viva la Rivoluzione ungherese, abbasso chi la diffama e chi
l'esalta per losche manovre" così titolava il settimanale
anarchico Umanità Nova del 4 novembre 1956. Titolo ancora attuale
perché, se è vero che oggi più nessuno, o quasi, diffama la
rivoluzione ungherese, esiste tuttavia ancora chi, a trent'anni di
distanza, continua ad esaltarla per losche manovre. Ne è un
chiaro esempio la polemica che da un po' di tempo rimbalza sui grandi
giornali. Da una parte troviamo chi, come Ghino di Tacco (da non
confondere con l'omonimo brigante senese del XIV secolo, perché
quello rubava ai ricchi per dare, forse, ai poveri) e altri, vorrebbe
una "riabilitazione", da parte del PCI, del leader
comunista ungherese Imre Nagy più che della rivoluzione in se
stessa, forse in un tentativo di spingere i comunisti a recidere i
legami col proprio passato e a dare così un colpo di acceleratore
nel senso della loro evoluzione o involuzione (ma queste sono due
angolazioni diverse da cui osservare un problema che come anarchici
non ci interessa) in senso socialdemocratico. Dall'altra troviamo
chi, come il PCI, nella sua "lunga marcia" dal leninismo
alla socialdemocrazia può oggi disinvoltamente abbracciare,
per mezzo di qualche suo esponente, Lech Walesa durante la sua
tournée in occidente, ma non può certo rivisitare
criticamente il proprio passato senza dover recidere la proprie
radici culturali e politiche e sconfessare le proprie scelte passate
e i propri dirigenti di allora, alcuni dei quali (Pajetta, Ingrao,
ecc.) sono tuttora viventi e operanti. L'atteggiamento attuale dei
comunisti sembra quello di chi ritiene di aver già concesso troppo
alla sua mutazione culturale, per cui chi ha avuto, ha avuto, chi ha
dato, ha dato, "scurdammuce o passato simme 'e Napule paisà". La rivoluzione
ungherese è stata qualcosa di più di un semplice argomento col
quale alimentare oziose polemiche. È
stata l'ultima grande rivoluzione europea, se si eccettua quella
portoghese (che, per la preminenza delle forze militari al suo
interno, ha avuto più la connotazione del colpo di stato che della
rivoluzione vera e propria), rivoluzione operaia e popolare,
fortemente caratterizzata in senso antimperialista (anche l'URSS era
ed è una potenza imperialista) e tendenzialmente libertaria come
accade nella prima fase di ogni rivoluzione. Il proletariato magiaro
era sicuramente antiURSS, ma questo non vuol dire che fosse in favore
delle democrazie occidentali né tantomeno della reazione di destra. Ma al di là delle
strumentalizzazioni politiche di una parte e delle reticenze,
altrettanto politiche, dell'altra, non c'è nessun bisogno né di
chiedere la "riabilitazione" né di "riabilitare"
persone e fatti che nella coscienza di ogni uomo libero, a qualsiasi
tendenza egli appartenga, non sono mai stati né infangati né
strumentalmente esaltati.
Patrizio Biagi
Una sintesi
efficace dei fatti d'Ungheria, dal punto di vista libertario, è
racchiusa nelle pagine ad essi dedicate da Louis Mercier Vega ne La
pratica dell'utopia ( Edizioni Antistato, Milano 1978,
pagg. 24-29). Ci pare interessante proporle ai nostri lettori.
Vi è un altro
caso, più vicino nel tempo, in cui le manifestazioni di una corrente
libertaria rivelano più che il risultato di uno sforzo
propagandistico, una volontà operaia collettiva. Si tratta
dell'insurrezione ungherese del 1956. L'influenza
anarchica non è mai stata profonda in terra magiara. In un
libriccino consacrato a questo soggetto pubblicato nel 1929 da
Achille Dauphin-Meunier, la lista dei gruppi e delle personalità
rilevanti del movimento è corta. Qualche anarchico pacifista di tipo
tolstoiano, alcuni militanti operai, intellettuali d'avanguardia. Un
movimento insomma senza vere radici. Sono le magre
radici in un suolo che sarà gelato per venti anni da una ferrea
dittatura di tipo fascista. Dopo la seconda guerra mondiale, in un
periodo di vita politica in cui i partiti abbozzano i loro programmi
e saggiano le loro tecniche, l'occupazione militare dei sovietici
pone fine a ogni esperimento trasformando il paese in semplice
protettorato dell'URSS. Coi diritti di un
paese vincitore l'Unione Sovietica fa smontare le installazioni
industriali ungheresi e le trasporta nel suo territorio. Essa esige
un ammontare di duecento milioni di dollari di riparazioni. Nello
stesso tempo impone una consegna di prodotti e di materiale la cui
qualità è controllata dagli ispettori sovietici installati
permanentemente nei centri industriali ungheresi. Si dichiara
proprietaria dei beni italiani e tedeschi, non solamente quelli che
prima appartenevano a dei privati o a delle società nemiche, ma
anche di capitali, imprese e costruzioni accaparrate dai nazisti con
la violenza, e specialmente i beni degli ebrei. L'Unione Sovietica
impone la creazione di "società miste", mezze russe -
mezze ungheresi, di cui essa però si assicura in effetti il
controllo. Praticamente le fabbriche, i pozzi di petrolio, i
trasporti fluviali e aerei passano sotto l'amministrazione sovietica. Per imporre delle
condizioni così draconiane, bisognava installare un'amministrazione
e un governo ungherese ciecamente devoto alle autorità russe. Gli
sforzi congiunti della Armata rossa, della polizia politica e del
Partito comunista locale distruggono, frantumano, liquidano qualsiasi
organizzazione che rifletta delle opinioni o rappresenti degli
interessi ungheresi. Non solamente il partito socialista e quello dei
"piccoli proprietari" sono messi al bando, ma anche le
Chiese, cattolica e protestante, la fra-massoneria sono proibite o ne
vengono lasciate solo le "facciate". Quanto ai sindacati
sono trasformati in servizi del governo per assicurare la
trasmissione delle consegne ufficiali. La gerarchia costituita nei
centri di produzione è di una semplicità rara: "Il direttore è
l'unico capo responsabile dell'impresa nazionalizzata. È
solo lui che, nel quadro delle funzioni giuridiche, prende le
decisioni che riguardano la gestione dell'impresa", così
sottolinea una dichiarazione del Consiglio dei Ministri, nel
settembre 1954. La classe operaia
ungherese che, nel 1945, era il trenta per cento della popolazione
attiva, nel 1953 ne rappresenta il trentanove per cento; essa è
totalmente ingabbiata da una serie di leggi e di decreti, condannata
a produrre e a tacere, o meglio a produrre e applaudire quello che
non condivide, perché l'applauso e l'entusiasmo pubblico in favore
dei funzionari dell'apparato sono diventati obbligatori. Poco prima del 1950
la forma dello sfruttamento sovietico viene modificata, così da
renderlo meno evidente e presentarlo non più come una taglia di
guerra, ma come il risultato di un accordo fra paesi socialisti. Se
l'orientamento generale dell'economia non è modificato, nel senso
che rimane sottoposto ai bisogni dell'Unione Sovietica, le società
miste vengono trasferite all'autorità ungherese. D'altra parte
nell'insieme del complesso sovietico è diventato evidente il
fallimento dei piani di industrializzazione, e le equipe governative
sono rimaneggiate in funzione dei nuovi orientamenti che i partigiani
della priorità dell'industria pesante e i difensori del
miglioramento delle industrie di consumo cercano di imporre
contraddittoriamente. La morte di Stalin
ha lasciato intatto l'apparato dittatoriale, ma il suo pugno non c'è
più. In URSS e nei paesi satelliti cominciano i "tempi dei
turbamenti". Il discorso pronunciato da Krusciov al XX Congresso
del PC russo significa per l'uomo della strada che non è più
obbligato ad adorare il dio morto. È
ammettere che il potere supremo non è infallibile. Da allora i
poteri locali, che esistevano solamente per volontà del potere
assoluto, non sono più tabù né garantiti. Allora le popolazioni,
buone solo a lavorare e a tacere e a votare al cento per cento in
favore dei padroni, riacquistano una straordinaria importanza. Le popolazioni
infatti cominciano a muoversi, a scioperare, a pensare ad alta voce a
Berlino-Est come a Vorkuta, a Kinguir come a Poznan. Quando i segni di
incrinatura del potere si fanno evidenti, quando gli scrittori e i
giornalisti si azzardano a pubblicare degli attacchi contro gli
ideali burocratici e polizieschi di ieri, quando la rivalità fra i
candidati staliniani e post-staliniani diventa di dominio pubblico,
l'atmosfera cambia. Il regime, il partito, lo Stato, da una parte
all'altra dell'Ungheria sono messi in discussione. All'ondata di
malcontento che dilaga, agli scioperi che si moltiplicano, alle
grandi assemblee pubbliche, ad un popolo lungamente schiacciato e
irreggimentato che ritorna alla vita non può rispondere un semplice
cambio di governo. Imre Nagy, nominato
Presidente del Consiglio, può sembrare ai russi come l'uomo capace
in questo momento di sostenere la rabbia della marea popolare, pur
salvaguardando ciò che, per essi, è essenziale: i legami militari
ed economici tra l'Ungheria ed il sistema sovietico, in breve il
mantenimento del patto di Varsavia e il funzionamento del Comecon. Per gli stessi
ungheresi, Imre Nagy è il simbolo di una trasformazione totale della
loro condizione servile, la fine dell'occupazione sovietica, la fine
della dipendenza economica, il ritorno alla libertà di parola, di
associazione, di intervento e di responsabilità dei produttori,
operai e contadini. Non è dal governo
che i comitati rivoluzionari si aspettano dei miglioramenti, pur
essendoci nei programmi delle organizzazioni popolari delle frasi
favorevoli ad un governo Nagy. Ad agire sono gli organismi sorti
spontaneamente dalle imprese, dai quartieri e dai villaggi per
riempire il vuoto lasciato dal crollo dell'edificio totalitario.
Senza aspettare un qualsiasi decreto i contadini liquidano i kolchoz,
le "cooperative" di Stato. Senza sperare nell'autorità
ufficiale gli operai rimettono in funzione i trasporti, le industrie
alimentari, i servizi di rifornimento. La lotta armata, i servizi
sanitari, l'edizione dei giornali sono organizzati da gruppi di
lavoratori in cui i giovani sono in maggioranza. L'organizzazione
nasce in funzione dei bisogni e questo succede nelle fabbriche come
nelle borgate, nei servizi amministrativi o nelle caserme. I manifesti ed i
proclami lanciati in diversi punti del paese dimostrano che esistono
dei comitati rivoluzionari nelle province di Borsod, Baranya,
Szatmar, Vezsprem, Szabolc; che dei comitati detti "nazionali"
agiscono nelle province di Vas, Zala, Györ,
Sopron; e inoltre degli altri comitati funzionano nella maggioranza
delle città e nei diversi quartieri di Budapest e dei suoi dintorni.
Questi comitati, la sera del 28 ottobre, cercano di coordinare i loro
sforzi creando un comitato nazionale. Di rimando nelle province e nei
distretti si manifesta la stessa tendenza ad articolare gli organi
popolari nati spontaneamente dall'insufficienza e dall'impotenza del
potere centrale per far fronte alle necessità essenziali della vita
sociale e della lotta armata. Radio-Kossuth
annuncia il 27 ottobre che l'associazione nazionale dei sindacati ha
preso la decisione di affidare le imprese ai consigli operai. Lo
stesso giorno la radio segnala la formazione di comitati operai di
fabbriche in tutte le regioni. Un articolo del 24
novembre riassume molto bene lo spirito e la volontà delle
organizzazioni operaie ungheresi nel momento in cui il potere
staliniano è caduto, e prima che i carri armati sovietici riportino
l'ordine post-staliniano. Il testo è apparso sul quotidiano
Nepakart. Esso dice: "Il Consiglio
della presidenza ha promulgato un decreto sui consigli operai, lungo
parecchie pagine. Noi diamo il benvenuto a questo decreto anche se
dobbiamo fare certe osservazioni. I consigli operai
nati dalla rivoluzione hanno per missione di realizzare la democrazia
nel vero senso della parola: la gestione delle imprese che
appartengono al popolo. A più riprese il decreto esprime questo
principio. Tuttavia, sotto certi aspetti, non lo riconosce. Ci
riferiamo in particolare alla nomina e alla destituzione dei
direttori. Sono i sindacati
liberi che hanno lanciato l'idea della necessità di creare dei
consigli operai, e i sindacati liberi sono degli organismi che devono
difendere gli interessi degli operai. Hanno anche elaborato un
progetto che tratta i metodi e le funzioni dei consigli operai e i
principi delle loro organizzazioni. È
da lamentare, e su questo punto i sindacati sono ugualmente da
biasimare, che questo progetto non sia stato pubblicato, poiché
differisce dal decreto su certi punti ed è molto più completo in
ciò che concerne i diritti dei consigli operai. Bisogna che gli
operai sentano che i consigli sono una loro espressione e che tutti i
problemi, e qui si intende anche la nomina e la destituzione dei
direttori, siano risolti in modo soddisfacente. La questione degli
scioperi è completamente diversa. Essa è di altra natura. Numerose
obiezioni sono state trasmesse ai sindacati liberi e anche alla
nostra redazione, perché il decreto sui consigli operai non
garantisce il diritto di sciopero. Queste proteste
partono dal fatto che non è stata chiarita una questione di
importanza capitale. Il decreto più perfetto e più democratico sui
consigli operai non garantirà mai il diritto di sciopero, e ciò per
la semplice ragione che il diritto in questione non ha nulla in
comune coi consigli operai. Questi rimpiazzano le funzioni della
direzione commerciale dell'impresa; il diritto di sciopero invece è
un mezzo specifico di difesa degli interessi dei lavoratori, è un
metodo sindacale. Da quando esiste e in qualsiasi paese del mondo,
l'idea di sciopero è sempre stata legata ai sindacati. Ciò risulta
vero anche quando lo sciopero è adoperato come mezzo politico. Vogliamo che i
salariati diventino, per mezzo dei consigli operai, non solamente in
apparenza, i veri padroni delle fabbriche. Vogliamo che siano dei
padroni più qualificati, più coscienti e più capaci dei
capitalisti di un tempo. Ma il mondo non ha mai visto nessun padrone,
capitalista o no, che abbia garantito il diritto di sciopero. È
importante però constatare che il padrone, cioè il proprietario
dell'impresa, anche se proprietari sono gli stessi operai, dovrebbe
essere controllato da un organismo con il compito principale di
proteggere gli interessi degli operai. Questa è la missione del
sindacato. Se i sindacati pensano che gli altri metodi di lotta sono
insufficienti allora devono ricorrere allo sciopero".
Louis Mercier Vega
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