Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 141
novembre 1986


Rivista Anarchica Online

La rivolta dimenticata
di Patrizio Biagi / Louis Mercier Vega

Prepotentemente (e strumentalmente) assurta agli onori della cronaca politica, la rivolta ungherese del '56 è qualcosa di ben più serio ed importante di un semplice argomento per alimentare le solite oziose polemiche. Riportiamo l'efficace sintesi di quegli avvenimenti scritta da Louis Mercier Vega. Vogliamo così ricordare i protagonisti dell'ultima grande rivoluzione proletaria europea, nel segno dell'antimperialismo.

"Nel 1917 gridammo: non toccate la Russia niente dittatura viva i soviet - Oggi: viva la Rivoluzione ungherese, abbasso chi la diffama e chi l'esalta per losche manovre" così titolava il settimanale anarchico Umanità Nova del 4 novembre 1956. Titolo ancora attuale perché, se è vero che oggi più nessuno, o quasi, diffama la rivoluzione ungherese, esiste tuttavia ancora chi, a trent'anni di distanza, continua ad esaltarla per losche manovre. Ne è un chiaro esempio la polemica che da un po' di tempo rimbalza sui grandi giornali. Da una parte troviamo chi, come Ghino di Tacco (da non confondere con l'omonimo brigante senese del XIV secolo, perché quello rubava ai ricchi per dare, forse, ai poveri) e altri, vorrebbe una "riabilitazione", da parte del PCI, del leader comunista ungherese Imre Nagy più che della rivoluzione in se stessa, forse in un tentativo di spingere i comunisti a recidere i legami col proprio passato e a dare così un colpo di acceleratore nel senso della loro evoluzione o involuzione (ma queste sono due angolazioni diverse da cui osservare un problema che come anarchici non ci interessa) in senso socialdemocratico. Dall'altra troviamo chi, come il PCI, nella sua "lunga marcia" dal leninismo alla socialdemocrazia può oggi disinvoltamente abbracciare, per mezzo di qualche suo esponente, Lech Walesa durante la sua tournée in occidente, ma non può certo rivisitare criticamente il proprio passato senza dover recidere la proprie radici culturali e politiche e sconfessare le proprie scelte passate e i propri dirigenti di allora, alcuni dei quali (Pajetta, Ingrao, ecc.) sono tuttora viventi e operanti. L'atteggiamento attuale dei comunisti sembra quello di chi ritiene di aver già concesso troppo alla sua mutazione culturale, per cui chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, "scurdammuce o passato simme 'e Napule paisà".
La rivoluzione ungherese è stata qualcosa di più di un semplice argomento col quale alimentare oziose polemiche. È stata l'ultima grande rivoluzione europea, se si eccettua quella portoghese (che, per la preminenza delle forze militari al suo interno, ha avuto più la connotazione del colpo di stato che della rivoluzione vera e propria), rivoluzione operaia e popolare, fortemente caratterizzata in senso antimperialista (anche l'URSS era ed è una potenza imperialista) e tendenzialmente libertaria come accade nella prima fase di ogni rivoluzione. Il proletariato magiaro era sicuramente antiURSS, ma questo non vuol dire che fosse in favore delle democrazie occidentali né tantomeno della reazione di destra.
Ma al di là delle strumentalizzazioni politiche di una parte e delle reticenze, altrettanto politiche, dell'altra, non c'è nessun bisogno né di chiedere la "riabilitazione" né di "riabilitare" persone e fatti che nella coscienza di ogni uomo libero, a qualsiasi tendenza egli appartenga, non sono mai stati né infangati né strumentalmente esaltati.

Patrizio Biagi


Una sintesi efficace dei fatti d'Ungheria, dal punto di vista libertario, è racchiusa nelle pagine ad essi dedicate da Louis Mercier Vega ne La pratica dell'utopia ( Edizioni Antistato, Milano 1978, pagg. 24-29). Ci pare interessante proporle ai nostri lettori.

Vi è un altro caso, più vicino nel tempo, in cui le manifestazioni di una corrente libertaria rivelano più che il risultato di uno sforzo propagandistico, una volontà operaia collettiva. Si tratta dell'insurrezione ungherese del 1956.
L'influenza anarchica non è mai stata profonda in terra magiara. In un libriccino consacrato a questo soggetto pubblicato nel 1929 da Achille Dauphin-Meunier, la lista dei gruppi e delle personalità rilevanti del movimento è corta. Qualche anarchico pacifista di tipo tolstoiano, alcuni militanti operai, intellettuali d'avanguardia. Un movimento insomma senza vere radici.
Sono le magre radici in un suolo che sarà gelato per venti anni da una ferrea dittatura di tipo fascista. Dopo la seconda guerra mondiale, in un periodo di vita politica in cui i partiti abbozzano i loro programmi e saggiano le loro tecniche, l'occupazione militare dei sovietici pone fine a ogni esperimento trasformando il paese in semplice protettorato dell'URSS.
Coi diritti di un paese vincitore l'Unione Sovietica fa smontare le installazioni industriali ungheresi e le trasporta nel suo territorio. Essa esige un ammontare di duecento milioni di dollari di riparazioni. Nello stesso tempo impone una consegna di prodotti e di materiale la cui qualità è controllata dagli ispettori sovietici installati permanentemente nei centri industriali ungheresi. Si dichiara proprietaria dei beni italiani e tedeschi, non solamente quelli che prima appartenevano a dei privati o a delle società nemiche, ma anche di capitali, imprese e costruzioni accaparrate dai nazisti con la violenza, e specialmente i beni degli ebrei. L'Unione Sovietica impone la creazione di "società miste", mezze russe - mezze ungheresi, di cui essa però si assicura in effetti il controllo. Praticamente le fabbriche, i pozzi di petrolio, i trasporti fluviali e aerei passano sotto l'amministrazione sovietica.
Per imporre delle condizioni così draconiane, bisognava installare un'amministrazione e un governo ungherese ciecamente devoto alle autorità russe. Gli sforzi congiunti della Armata rossa, della polizia politica e del Partito comunista locale distruggono, frantumano, liquidano qualsiasi organizzazione che rifletta delle opinioni o rappresenti degli interessi ungheresi. Non solamente il partito socialista e quello dei "piccoli proprietari" sono messi al bando, ma anche le Chiese, cattolica e protestante, la fra-massoneria sono proibite o ne vengono lasciate solo le "facciate". Quanto ai sindacati sono trasformati in servizi del governo per assicurare la trasmissione delle consegne ufficiali. La gerarchia costituita nei centri di produzione è di una semplicità rara: "Il direttore è l'unico capo responsabile dell'impresa nazionalizzata. È solo lui che, nel quadro delle funzioni giuridiche, prende le decisioni che riguardano la gestione dell'impresa", così sottolinea una dichiarazione del Consiglio dei Ministri, nel settembre 1954.
La classe operaia ungherese che, nel 1945, era il trenta per cento della popolazione attiva, nel 1953 ne rappresenta il trentanove per cento; essa è totalmente ingabbiata da una serie di leggi e di decreti, condannata a produrre e a tacere, o meglio a produrre e applaudire quello che non condivide, perché l'applauso e l'entusiasmo pubblico in favore dei funzionari dell'apparato sono diventati obbligatori.
Poco prima del 1950 la forma dello sfruttamento sovietico viene modificata, così da renderlo meno evidente e presentarlo non più come una taglia di guerra, ma come il risultato di un accordo fra paesi socialisti. Se l'orientamento generale dell'economia non è modificato, nel senso che rimane sottoposto ai bisogni dell'Unione Sovietica, le società miste vengono trasferite all'autorità ungherese. D'altra parte nell'insieme del complesso sovietico è diventato evidente il fallimento dei piani di industrializzazione, e le equipe governative sono rimaneggiate in funzione dei nuovi orientamenti che i partigiani della priorità dell'industria pesante e i difensori del miglioramento delle industrie di consumo cercano di imporre contraddittoriamente.
La morte di Stalin ha lasciato intatto l'apparato dittatoriale, ma il suo pugno non c'è più. In URSS e nei paesi satelliti cominciano i "tempi dei turbamenti". Il discorso pronunciato da Krusciov al XX Congresso del PC russo significa per l'uomo della strada che non è più obbligato ad adorare il dio morto. È ammettere che il potere supremo non è infallibile. Da allora i poteri locali, che esistevano solamente per volontà del potere assoluto, non sono più tabù né garantiti. Allora le popolazioni, buone solo a lavorare e a tacere e a votare al cento per cento in favore dei padroni, riacquistano una straordinaria importanza.
Le popolazioni infatti cominciano a muoversi, a scioperare, a pensare ad alta voce a Berlino-Est come a Vorkuta, a Kinguir come a Poznan.
Quando i segni di incrinatura del potere si fanno evidenti, quando gli scrittori e i giornalisti si azzardano a pubblicare degli attacchi contro gli ideali burocratici e polizieschi di ieri, quando la rivalità fra i candidati staliniani e post-staliniani diventa di dominio pubblico, l'atmosfera cambia. Il regime, il partito, lo Stato, da una parte all'altra dell'Ungheria sono messi in discussione.
All'ondata di malcontento che dilaga, agli scioperi che si moltiplicano, alle grandi assemblee pubbliche, ad un popolo lungamente schiacciato e irreggimentato che ritorna alla vita non può rispondere un semplice cambio di governo.
Imre Nagy, nominato Presidente del Consiglio, può sembrare ai russi come l'uomo capace in questo momento di sostenere la rabbia della marea popolare, pur salvaguardando ciò che, per essi, è essenziale: i legami militari ed economici tra l'Ungheria ed il sistema sovietico, in breve il mantenimento del patto di Varsavia e il funzionamento del Comecon.
Per gli stessi ungheresi, Imre Nagy è il simbolo di una trasformazione totale della loro condizione servile, la fine dell'occupazione sovietica, la fine della dipendenza economica, il ritorno alla libertà di parola, di associazione, di intervento e di responsabilità dei produttori, operai e contadini.
Non è dal governo che i comitati rivoluzionari si aspettano dei miglioramenti, pur essendoci nei programmi delle organizzazioni popolari delle frasi favorevoli ad un governo Nagy. Ad agire sono gli organismi sorti spontaneamente dalle imprese, dai quartieri e dai villaggi per riempire il vuoto lasciato dal crollo dell'edificio totalitario. Senza aspettare un qualsiasi decreto i contadini liquidano i kolchoz, le "cooperative" di Stato. Senza sperare nell'autorità ufficiale gli operai rimettono in funzione i trasporti, le industrie alimentari, i servizi di rifornimento. La lotta armata, i servizi sanitari, l'edizione dei giornali sono organizzati da gruppi di lavoratori in cui i giovani sono in maggioranza. L'organizzazione nasce in funzione dei bisogni e questo succede nelle fabbriche come nelle borgate, nei servizi amministrativi o nelle caserme.
I manifesti ed i proclami lanciati in diversi punti del paese dimostrano che esistono dei comitati rivoluzionari nelle province di Borsod, Baranya, Szatmar, Vezsprem, Szabolc; che dei comitati detti "nazionali" agiscono nelle province di Vas, Zala, Györ, Sopron; e inoltre degli altri comitati funzionano nella maggioranza delle città e nei diversi quartieri di Budapest e dei suoi dintorni. Questi comitati, la sera del 28 ottobre, cercano di coordinare i loro sforzi creando un comitato nazionale. Di rimando nelle province e nei distretti si manifesta la stessa tendenza ad articolare gli organi popolari nati spontaneamente dall'insufficienza e dall'impotenza del potere centrale per far fronte alle necessità essenziali della vita sociale e della lotta armata.
Radio-Kossuth annuncia il 27 ottobre che l'associazione nazionale dei sindacati ha preso la decisione di affidare le imprese ai consigli operai. Lo stesso giorno la radio segnala la formazione di comitati operai di fabbriche in tutte le regioni.
Un articolo del 24 novembre riassume molto bene lo spirito e la volontà delle organizzazioni operaie ungheresi nel momento in cui il potere staliniano è caduto, e prima che i carri armati sovietici riportino l'ordine post-staliniano. Il testo è apparso sul quotidiano Nepakart. Esso dice:
"Il Consiglio della presidenza ha promulgato un decreto sui consigli operai, lungo parecchie pagine. Noi diamo il benvenuto a questo decreto anche se dobbiamo fare certe osservazioni.
I consigli operai nati dalla rivoluzione hanno per missione di realizzare la democrazia nel vero senso della parola: la gestione delle imprese che appartengono al popolo. A più riprese il decreto esprime questo principio. Tuttavia, sotto certi aspetti, non lo riconosce. Ci riferiamo in particolare alla nomina e alla destituzione dei direttori.
Sono i sindacati liberi che hanno lanciato l'idea della necessità di creare dei consigli operai, e i sindacati liberi sono degli organismi che devono difendere gli interessi degli operai. Hanno anche elaborato un progetto che tratta i metodi e le funzioni dei consigli operai e i principi delle loro organizzazioni.
È da lamentare, e su questo punto i sindacati sono ugualmente da biasimare, che questo progetto non sia stato pubblicato, poiché differisce dal decreto su certi punti ed è molto più completo in ciò che concerne i diritti dei consigli operai.
Bisogna che gli operai sentano che i consigli sono una loro espressione e che tutti i problemi, e qui si intende anche la nomina e la destituzione dei direttori, siano risolti in modo soddisfacente.
La questione degli scioperi è completamente diversa. Essa è di altra natura. Numerose obiezioni sono state trasmesse ai sindacati liberi e anche alla nostra redazione, perché il decreto sui consigli operai non garantisce il diritto di sciopero.
Queste proteste partono dal fatto che non è stata chiarita una questione di importanza capitale. Il decreto più perfetto e più democratico sui consigli operai non garantirà mai il diritto di sciopero, e ciò per la semplice ragione che il diritto in questione non ha nulla in comune coi consigli operai. Questi rimpiazzano le funzioni della direzione commerciale dell'impresa; il diritto di sciopero invece è un mezzo specifico di difesa degli interessi dei lavoratori, è un metodo sindacale. Da quando esiste e in qualsiasi paese del mondo, l'idea di sciopero è sempre stata legata ai sindacati. Ciò risulta vero anche quando lo sciopero è adoperato come mezzo politico.
Vogliamo che i salariati diventino, per mezzo dei consigli operai, non solamente in apparenza, i veri padroni delle fabbriche. Vogliamo che siano dei padroni più qualificati, più coscienti e più capaci dei capitalisti di un tempo. Ma il mondo non ha mai visto nessun padrone, capitalista o no, che abbia garantito il diritto di sciopero. È importante però constatare che il padrone, cioè il proprietario dell'impresa, anche se proprietari sono gli stessi operai, dovrebbe essere controllato da un organismo con il compito principale di proteggere gli interessi degli operai. Questa è la missione del sindacato. Se i sindacati pensano che gli altri metodi di lotta sono insufficienti allora devono ricorrere allo sciopero".

Louis Mercier Vega