Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 2 nr. 14
estate 1972


Rivista Anarchica Online

"El Quico"
di R. Brosio

Francisco Sabater: sindacalista, rivoluzionario, espropriatore, guerrigliero - Un simbolo della Spagna indomita

Quando il simpatizzante, o l'intellettuale, o il pavido, o comunque ogni persona abituata ad avere, di fronte alla storia, il ruolo passivo dello spettatore, si trova a leggere le imprese di qualche grande rivoluzionario dei tempi addietro, l'alibi morale che gli permette di non provare rimorso per la propria inerzia è rappresentato, in genere, dalla considerazione dell'estrema lontananza dei fatti in questione, dalla fiducia nell'irripetibilità delle situazioni passate. "Era un'altra epoca", si dice, e la coscienza può addormentarsi tranquillamente. Bene, la vicenda di Francisco Sabater, anarchico spagnolo e guerrigliero antifranchista, (*) che qui ci accingiamo a raccontare, sta a dimostrazione del contrario, perché è storia di oggi, se pur già conclusa. La sua attività di militante iniziò pressappoco con la guerra civile ed ebbe fine solo nel 1960, in una Spagna che ormai pretendeva di far gola al turista con la sua immagine di folklore e rassegnazione. Forse non tutto, di tale attività, fu accettabile, e, certamente, le sue caratteristiche sembrano fatte apposta per spaventare i più. Sabater aveva scelto la difficile via di quello che in spagnolo si chiama accion directa. Mentre l'italiano medio si abituava a considerare "Lascia o Raddoppia" più importante dello sfruttamento, egli espropriava le banche di Barcellona, passava la frontiera con carichi di stampa clandestina, si scontrava, mitra in pugno, con gli uomini della Guardia Civil. Ma, al di là dei metodi e degli obiettivi immediati, la sua vita è prova che la coerenza e l'impegno personale, il coraggio e l'amore per la libertà non sono cose d'altri tempi, o di un imprecisato futuro. Provocatoria nella sua violenza, essa dice a tutti che, anche oggi, non si può stare alla finestra. Bisogna scendere in strada e partecipare alla lotta.
Francisco Sabater Llopart nacque ad Hospitalet de Llobregat, un sobborgo di Barcellona, il 30 marzo 1914. Comunemente, veniva chiamato Quico: questo diminutivo Catalano proseguì per tutta la vita, ma perse ben presto il suo significato originario di affettuosa confidenza, per diventare una specie di terribile biglietto di presentazione nelle imprese più rischiose. "Sono il Quico!, diceva Sabater, e chi gli stava di fronte sapeva che era meglio filare dritto, a scanso di guai.
Ancora giovane, poco prima che in Spagna venisse proclamata la Repubblica, entrò nella Confederacion Nacional de Trabajo, il sindacato anarchico che tanta parte avrebbe avuto, poi, nella guerra civile e nella sua esistenza. Nelle file della C.N.T. prese parte attiva all'ondata di scioperi e agitazioni che travolse il paese, quando la Repubblica neonata rivelò agli sfruttati il proprio vero volto, assai simile, almeno in materia sociale, a quello della Monarchia che l'aveva preceduta. A Hospitalet, in occasione di uno sciopero di contadini, dimostrò subito la sua decisione e il suo modo di intendere la lotta di classe: per finanziare lo sciopero, che minacciava di interrompersi a causa dell'estrema miseria dei partecipanti, svaligiò, con un gruppo di compagni, la casa di un ricco proprietario terriero. Fu il suo primo passo su di un "terreno" che gli sarebbe stato congeniale per quasi trent'anni. Nello stesso periodo (siamo nel 1932), entrò a far parte del gruppo d'azione "Los Novatos", aderente alla Federacion Anarquista Iberica (F.A.I.), insieme ad altri giovani, fra cui suo fratello maggiore Josè. Questo gruppo fu uno dei principali protagonisti di tutti i tentativi insurrezionali che si ebbero nella zona, dopo che le destre vinsero le elezioni del novembre 1933. Con esso, il Quico ebbe il suo battesimo del fuoco.

La guerra civile

Il 18 luglio 1936, con la sollevazione fascista dei generali, scoppiava la guerra civile. I militanti della C.N.T.-F.A.I. se l'aspettavano da tempo, e si erano preparati. A Hospitalet, Francisco e Josè Sabater, con grande previdenza, già da qualche giorno avevano sequestrato, di forza, tutte le armi in possesso dei possibili sostenitori della rivolta, dimodochè, il 18, essa fu facilmente stroncata. Il giorno dopo, il gruppo accorse in aiuto ai compagni di Barcellona. In tutta la Catalogna, comunque, il "golpe" fascista venne soffocato abbastanza facilmente, tanto che il 24 luglio, il Quico e la maggior parte dei suoi compagni si diressero verso il fronte aragonese, con la Colonna Durruti.
Durante la guerra, Sabater combattè come tanti altri oscuri militanti. Senonché, ben presto, il suo temperamento deciso, la sua incapacità a subire gli eventi, la sua tendenza ad impegnarsi personalmente senza eccessiva considerazione per le conseguenze a lunga scadenza, ebbero a rivelarsi ancora una volta. In questo periodo uno dei sistemi che il partito comunista usava, nel suo tentativo autoritario di monopolizzare la lotta contro Franco, era quello di mandare allo sbaraglio gli avversari politici (se pur compagni di lotta), lasciando cinicamente che venissero macellati dai fascisti. In questo modo, molti militanti anarchici persero la vita, anche prima che si arrivasse allo scontro diretto tra CNT e stalinisti, permettendo a questi ultimi di realizzare il duplice successo di liberarsi di scomodi "concorrenti" e di salvare la faccia (almeno nelle intenzioni). Verso la metà del 1937, a causa di una di queste manovre, una compagnia formata da uomini della Confederazione, ma sotto il controllo di ufficiali e commissari politici comunisti, perse l'80% degli effettivi. La cosa fece una grande impressione, tanto che il capitano e il commissario politico vennero messi sotto inchiesta. Ma il Quico non era tipo da attendere le deliberazioni dello Stato Maggiore. Attese il commissario, tal Aviño, al suo ritorno, e lo uccise a rivoltellate senza tanti complimenti.
Nonostante fosse stata pienamente giustificata, l'azione poteva avere serie conseguenze per i suoi partecipanti. Quico ed i compagni che erano con lui correvano il rischio di venire fucilati, se fossero tornati al battaglione. Così disertarono e si rifugiarono a Barcellona, presso il Comitato Regionale della C.N.T., per essere aggregati ad un'altra unità confederale dove l'aria fosse più salubre. Per ragioni di sicurezza la cosa non poteva essere attuata subito, dimodoché Sabater fu costretto a restare nascosto nella capitale catalana, in attesa del momento buono. La lontananza dal fronte, comunque, venne impiegata utilmente. Approfittando del fatto che "ufficialmente" non esisteva, perlomeno a Barcellona, il Quico accettò di compiere diverse rischiose operazioni, per conto del Comitato di Difesa della Gioventù Libertaria. Sono di questo periodo, infatti alcune audaci liberazioni di compagni detenuti, oltre che l'eliminazione del fascista Justo Oliveras, di Hospitalet. La fisionomia di Sabater, come uomo tutto dedito all'azione, andava delineandosi sempre più.
Ben presto la sua attività cominciò a dar fastidio alle forze controrivoluzionarie. Il SIM (Servizio di Informazioni Militare), organo di controspionaggio controllato dai comunisti, filosovietico e nettamente antilibertario, si mise a dargli la caccia, anche in relazione all'omicidio di Aviño, finché, un giorno, riuscì ad identificarlo all'uscita di un cinema. Sabater fu accolto da numerose pistole spianate, e dovette arrendersi senza opporre resistenza.

La galera "rossa"

Venne internato nel cosiddetto Carcere Modello di Barcellona, il che fu una grande fortuna, visto che gli agenti del SIM avevano la brutta abitudine di fare la pelle agli anarchici, senza processo. Comunque, appena arrivato in galera, il Quico si mise al lavoro per restarci il meno possibile. Per ben due volte scavò una galleria, per raggiungere, dalla sua cella, l'esterno del carcere, e il secondo tentativo quasi andò in porto: fu pescato dalla ronda quando già si trovava fuori dalle mura della prigione. Il lavoro che aveva fatto era veramente incredibile, e perfino il direttore lo riconobbe, complimentandosi con lui. Dopodiché lo sbatté nel carcere di punizione di Vich. Ma nemmeno qui Sabater aveva intenzione di rimanere. Riuscì, con l'aiuto dei soldi che gli arrivavano dall'esterno, a farsi amici i secondini. Distribuiva mance generose per il minimo servizio, e i sorveglianti si abituarono, poco a poco, a considerarlo una mammella da mungere, più che un pericoloso sovversivo. Stimolati dai quattrini, cominciarono ad avere considerazione anche per le esigenze sentimentali del prigioniero, e non ebbero difficoltà, col passare del tempo, a permettergli di rivedere la sua donna, Leonor Castells Martì. Al punto da concedergli (un uomo non è di legno, perdio) di passare qualche ora con lei, da solo, in una cella appartata. Ma fu una concessione che doveva costare cara ai guardiani-prosseneti. Sfruttando la confidenza e la mancanza di controllo (alla fine era, come si suol dire, "di casa"). Leonor portò al Quico una pistola e una bomba a mano. Cosicché Sabater, dopo essere stato forse l'unico galeotto di Barcellona ad avere una vita sessuale quasi normale, ebbe anche l'opportunità di evadere. Non che fosse una cosa facile, se pur con le armi. Ma, è certo, nessuno se l'aspettava e forse questo ebbe la sua importanza.

L'evasione

Il giorno fissato per la fuga, Sabater, d'accordo con i compagni di prigione, chiamò il secondino di turno, un marocchino di nome Alì. Questi, senza timore, entrò in cella, e fu subito steso a terra con una scarica di cazzotti. Un ufficiale, che era accorso al rumore, quando vide la pistola si lasciò disarmare, legare e imbavagliare senza resistenza. Ma il peggio doveva ancora venire, perché adesso si trattava di uscire all'esterno. I quattro evasi raggiunsero gli uffici, immobilizzarono altre due guardie e un ufficiale, e di qui arrivarono dal direttore del carcere. Armi alla mano, gli chiesero di stilare e firmare lo speciale permesso che il regolamento prevedeva, senza il quale nessuno poteva oltrepassare i cancelli dell'uscita. Il direttore capì che aveva a che fare con gente decisa a tutto, ed eseguì. Quindi venne anche lui impacchettato e rinchiuso in uno stanzino. Col cuore in gola, Sabater e gli altri raggiunsero i cancelli e mostrarono la carta firmata al picchetto di guardia. Tutto regolare. Come detenuti che avessero completamente scontato la pena, i quattro riacquistarono la libertà.
Quando la fuga rocambolesca venne scoperta, Sabater era ormai al sicuro a Barcellona. "Al sicuro" è un termine relativamente esatto, in quanto doveva stare ben nascosto, se non voleva tornare da dove era tanto fortunosamente scappato. Ma la clandestinità era una situazione che il Quico aveva già sperimentato, ed alla quale era destinato a doversi abituare. Da questo punto di vista, ebbe assai rari momenti di tranquillità, nella sua vita. Fu quasi sempre braccato dalla polizia, quasi sempre costretto a stare sul chi vive per sfuggire alle trappole che gli venivano tese, per sviare le indagini, per evitare i posti di blocco, per salvare la pelle. Ma era il prezzo da pagare per il ruolo che si era dato, e Sabater lo pagò (come tanti altri, d'altronde) senza recriminazioni. Perché, tutto sommato, era lui che conduceva il gioco. Che attaccava. Gli altri, la polizia, il regime, si difendevano.
Dopo diverse peripezie (vissute, come al solito, con la pistola in pugno) il Quico poté entrare nella 121a Brigata, 26a divisione, ex Colonna Durruti. La clandestinità, con i suoi inconvenienti, si interrompeva momentaneamente, ma solo per far posto alla dura vita di guerra. Con gli altri compagni combattè fino all'ultimo, nel disperato tentativo di fronteggiare le forze franchiste, che ormai stavano prendendo il sopravvento in tutta la Spagna. Il 10 febbraio 1939 la 26a Divisione raggiungeva la Francia. Erano le ultime unità organizzate che abbandonavano la Catalogna. La guerra, ormai, era finita. Incominciava la resistenza.

La resistenza

In Francia, seconda guerra mondiale permettendo, Sabater rimase relativamente tranquillo fino al maggio 1945. In questo periodo si tenne a Parigi il primo congresso del Movimento Libertario Spagnolo in esilio, che stabilì di intensificare la lotta contro Franco, per abbattere la dittatura. Nei mesi che seguirono, varie delegazioni furono mandate in Spagna, a prendere contatto con i compagni rimasti nell'interno, e la prima di esse venne condotta a Barcellona da Sabater. Questi infatti aveva preso in affitto una fattoria, Casenove Loubette, ad un chilometro appena dal confine, ed era diventato oltre che agricoltore, una abilissima guida. Conosceva la zona molto bene, ed era quindi la persona più adatta a fare entrare clandestinamente in Spagna i compagni, senza incappare nei fucili della polizia. Era l'occasione che il Quico aspettava per ritornare alla milizia attiva, così come lui la concepiva. Approfittò così del viaggio a Barcellona per gettare le basi della sua futura "attività". Per prima cosa serviva denaro. Il sistema per procurarselo fu quello già sperimentato tempo addietro, l'espropriazione. Juan Panellas Torras e Manuel Garrigò Pujador, ricchi industriali, furono le vittime prescelte, e fornirono, se pur di malavoglia, un gruzzolo di 90.000 pesetas, che andò a costituire un fondo iniziale. Con questi soldi, Sabater tornò in Francia, per ricongiungersi al gruppo d'azione che aveva precedentemente costituito, e che lo aspettava alla frontiera. Insieme ai suoi compagni, in meno di una settimana, era di nuovo a Barcellona, pronto all'azione.
E azione fu, nel senso più completo e drammatico del termine. La leggenda, se così si può chiamarla, di Francisco Sabater, l'uomo col mitra sotto l'impermeabile, che affrontava la Guardia Civil gridando "Io sono il Quico!" il nemico pubblico numero uno della dittatura franchista, nasce soprattutto in questo periodo. Dall'ottobre 1945 al giugno 1949, Sabater fu quasi costantemente a Barcellona, impegnato in una serie continua di operazioni partigiane, che sarebbe troppo lungo enumerare tutte: espropriazioni, attentati, liberazione di prigionieri politici, contrabbando di armi. Una ridda di appostamenti, fughe, conflitti a fuoco per le strade. Tanti morti, da entrambe le parti. Chi crede che, finita la guerra, il franchismo abbia potuto imporsi d'un sol colpo, col solo deterrente della vittoria militare, sbaglia di grosso. E chi si domanda se tutto ciò valeva la pena, visto che Franco è ancora Franco, non dimentichi che il popolo spagnolo (quello Catalano in particolare) aveva imparato, durante la guerra civile, a considerarsi arbitro del proprio destino, anche se contrastato. La libertà, l'uguaglianza, le aveva guardate da presso, e non poteva scordarsene come se niente fosse stato. Sabater e gli altri anarchici continuavano da soli una lotta che era stata di tutti. La loro presenza, le loro azioni, dicevano alla gente che il regime non era un dato di fatto, mettevano in discussione lo status quo, insegnavano che bisognava resistere.
L'attività del Quico ebbe una brusca interruzione nel giugno '49, e non per colpa della polizia franchista, ma di quella francese. Sabater era rientrato alla sua fattoria di Casenove Loubette, per trascorrere qualche giorno con la sua compagna (Leonor, di cui abbiamo già parlato a proposito della fuga dal carcere). I gendarmi circondarono la casa, con gran spiegamento di forze, e, dopo un'inutile tentativo di fuga, lo arrestarono. Sulla sua testa, infatti, pendeva una condanna in contumacia: tempo addietro, durante una perquisizione fatta alle Casenove in sua assenza, la polizia aveva scoperto un grosso deposito di dinamite, micce, ecc. Inoltre era stato accusato di aver partecipato ad una rapina (fallita) perpetrata circa un anno prima contro una fabbrica di Peage de Roussillon, in territorio francese. Quest'ultimo reato non venne provato. Sta di fatto, comunque, che tra carcere preventivo e condanna per detenzione di esplosivi, restò in prigione, a Montpellier, per circa un anno, e dovette poi scontarne cinque di confino a Digione.

L'uccisione dei fratelli

La forzata inerzia fu una tortura vera e propria, per Sabater. Tanto più che durante la detenzione, la polizia spagnola era riuscita ad uccidere la maggior parte dei militanti anarchici che operavano a Barcellona. Tra l'agosto e il novembre del '49 i franchisti liquidarono una ventina di compagni, tra i quali Josè e Manolo Sabater, rispettivamente fratello maggiore e minore del Quico. La durezza della repressione, il clima da guerra aperta e la paura che questi uomini incutevano agli sbirri, sono dimostrati dal fatto che quasi nessuno di essi venni fucilato dopo un processo. I più caddero crivellati di colpi in vere e proprie battaglie per le strade o assassinati freddamente dopo l'arresto.
Oltre all'angoscia per i fratelli e gli amici uccisi, mentre lui non poteva far niente per vendicarli, un altro problema angustiava Sabater. Col passare del tempo, la combattività dell'organizzazione in esilio si era andata assai affievolendo. Molti compagni preferivano fare propaganda e proselitismo in Francia, dimenticando l'azione diretta che al Quico stava tanto a cuore. L'esilio tendeva ad impigrire le persone, e d'altro canto le mille difficoltà della vita quotidiana, le noie continue che anche la polizia francese (che lavorava d'accordo con quella spagnola) dava agli emigrati, il pesante numero di caduti, erano tutte cose che non facilitavano certo un'intensa attività. Ma Sabater non era uomo che potesse vedere le cose da un punto di vista rinunciatario e passivo. Agli inizi del 1955, ultimato il periodo di confino, il Quico, con alcuni compagni che la pensavano come lui, decise di agire sotto la propria responsabilità, al di fuori dell'Organizzazione. Costituì i cosiddetti Gruppi Anarco-sindacalisti, che vennero "scomunicati" dal movimento in esilio, in quanto non ne accettavano le deliberazioni in materia di intervento diretto. Chi delle due parti avesse ragione, se i Gruppi o il MLE-CNT, è un problema di assai difficile soluzione. Da una parte, c'è da notare il rischio, che Sabater e i suoi facevano correre agli altri compagni dell'interno, compiendo azioni non coordinate con l'attività generale. Non era una storia del tutto nuova: sempre, dopo ogni impresa clandestina, la repressione del regime si abbatteva feroce su tutti i militanti che era possibile scovare, e colpiva, generalmente, proprio quelli non direttamente implicati, che non si erano rifugiati oltre il confine o in qualche "base" sicura. Era una conseguenza che non avrebbe mai potuto essere completamente eliminata, ma adesso il pericolo era certamente maggiore. D'altro canto, l'eccesso di prudenza, l'abitudine ad azioni sempre più "platoniche", rischiava di indebolire la lotta. Man mano che il tempo passava, l'Organizzazione in esilio si staccava dalla realtà spagnola, perdeva i contatti, tendeva ad assumere l'aspetto di una associazione di "reduci". Invece di essere la rappresentazione attiva della volontà di emancipazione degli spagnoli, rischiava di impersonare la sconfitta. Sabater sentiva profondamente questo dilemma, e, se da un lato era convinto che bisognasse agire a tutti costi, dall'altro l'incomprensione dei compagni lo angustiava. Comunque, il 29 aprile del 1955 era di nuovo nella sua Barcellona, col Thompson 45 sotto l'impermeabile, a giocare la sua partita. Il 1° maggio inondò la città di fogli antifranchisti, che aveva portato dalla Francia. Il 3 maggio entrò da un grossista di tessuti e si fece consegnare la cassa. Bastò, come al solito, che dicesse "Sono il Quico". Il 6 maggio espropriò il Banco de Vizcaya di più di un milione di pesetas, (circa cinque milioni di lire), sotto gli occhi dei "civiles" di guardia, senza che si accorgessero di nulla. Il 28 settembre, in occasione della visita di Franco a Barcellona, sparò volantini antifranchisti sulla città, da un taxi guidato da un ignaro autista, con una specie di mortaio che si era appositamente costruito. La sua attività continuò così, sull'unico terreno che concepiva, per circa un anno e mezzo.

Un milione di pesetas

Verso la fine del dicembre '56, dopo un ennesimo colpo, audacissimo, che fruttò un milione di pesetas, la polizia si mise a braccarlo con accanimento terribile, decisa a farla finita una volta per tutte. Nei giorni dal 22 al 31 dicembre, Sabater sfuggì più volte, grazie alla prudenza, all'esperienza e alla fortuna alle trappole che gli avevano tese per catturarlo, mentre la polizia setacciava le case della zona, alla ricerca dei suoi nascondigli. Ben 43 compagni furono il bottino degli sbirri in quell'occasione, anche se il pesce più grosso riuscì a trovare un buco nella rete e filarsela. (Tutti vennero condannati, in seguito, a pesanti pene detentive). Il terreno scottava sotto i piedi, e il Quico dovette tornarsene in Francia per non correre rischi. Portava con sé uno zaino pieno di denaro, buona parte del frutto dell'ultima rapina, e questo fatto, unitamente alla presenza di un compagno disonesto, che avrebbe preferito destinare i soldi alle proprie tasche, piuttosto che all'attività antifranchista, complicò alquanto il viaggio per passare la frontiera. Ma alla fine, dopo non poche peripezie, tutto andò per il meglio.
In Francia, lo aspettava di nuovo la galera. In sua assenza, e su segnalazione della polizia spagnola, i gendarmi francesi avevano trovato un altro deposito di armi, la cui proprietà gli venne attribuita. Risultato: 8 mesi di carcere e 5 anni di confino. Fu una brutta batosta. Uscì dal carcere molto malato, tanto che dovette essere operato di ulcera. Ma non aveva intenzione di mollare. Sprezzante del confino, si mise a viaggiare, per riallacciare i contatti coi compagni, con la segreta speranza di riconciliarsi con l'Organizzazione, di essere chiamato per qualche impresa, come un tempo.

L'ultimo viaggio

Ma era come una pecora segnata. La polizia francese non lo perdeva d'occhio e teneva informati costantemente i colleghi spagnoli dei suoi movimenti. Nonostante Sabater cercasse di usare tutti gli accorgimenti possibili per fare le cose nella massima segretezza, non aveva scampo. I suoi nemici aspettavano solo che passasse la frontiera, per fargli la pelle. E forse Sabater lo sapeva. Eppure non seppe trattenersi. Verso la fine del dicembre '59 con quattro compagni fidati, era di nuovo in Spagna, in marcia per Barcellona.
Domenica 3 gennaio 1960, i cinque anarchici vennero bloccati in una masseria da un imponente schieramento di Guardie Civili e fatti segno di una pioggia di pallottole. Sabater venne ferito ad una gamba e uno dei suoi compagni ucciso.
Il ricevimento in grande stile, che il franchismo aveva preparato per il Quico, era cominciato. La resistenza degli assediati durò per tutto il giorno, poi, al cader della notte, tentarono una sortita. I tre compagni vennero subito colpiti a morte, e rimasero sul terreno. Sabater, con uno stratagemma pur ferito in più parti, riuscì a portarsi fuori tiro e, piano piano, metro per metro, superò l'accerchiamento. Ancora una volta il Quico era stato degno della sua fama.
All'alba del 5 gennaio, non si sa bene come arrivò al paese di Fomells de la Selva. Alle sei e mezza "prese" il treno per Massenet, in un estremo tentativo di raggiungere Barcellona: pistole in pugno, salì accanto al macchinista e gli intimò di non fare fermate fino alla capitale catalana. Ma non era così semplice. A Massenet il conducente terminava il turno e abbandonò la macchina: Sabater sapeva che sarebbe subito corso a denunciarlo, per cui capì che il viaggio non sarebbe durato a lungo. A San Celoni saltò giù, anche per cercare un medico: le ferite si facevano sentire, aveva la febbre, quasi non si reggeva in piedi. In via Josè Antonio lo sorprese la Guardia Civil. Fu l'ultima battaglia del Quico. Crivellato di pallottole, morì come probabilmente aveva sempre desiderato, con le armi in pugno.
Il giorno dopo la C.N.T., di fronte alla stampa prezzolata che parlava della morte del "bandito" Sabater, emise un comunicato in cui lo rivendicava come "militante d'azione anarco-sindacalista" e "gladiatore della libertà". L'Organizzazione si riconciliava con il Quico: il più bell'omaggio postumo.

R. Brosio

(*) Antonio Tellez, La guerriglia urbana in Spagna: Sabate, Ed. La Fiaccola, Ragusa, 1972.