Rivista Anarchica Online
"El Quico"
di R. Brosio
Francisco Sabater: sindacalista, rivoluzionario, espropriatore, guerrigliero - Un simbolo della
Spagna indomita
Quando il simpatizzante, o l'intellettuale, o il pavido, o comunque ogni
persona abituata ad avere, di
fronte alla storia, il ruolo passivo dello spettatore, si trova a leggere le imprese di qualche grande
rivoluzionario dei tempi addietro, l'alibi morale che gli permette di non provare rimorso per la propria
inerzia è rappresentato, in genere, dalla considerazione dell'estrema lontananza dei fatti in
questione,
dalla fiducia nell'irripetibilità delle situazioni passate. "Era un'altra epoca", si dice, e la coscienza
può
addormentarsi tranquillamente. Bene, la vicenda di Francisco Sabater, anarchico spagnolo e guerrigliero
antifranchista, (*) che qui ci accingiamo a raccontare, sta a dimostrazione del contrario, perché
è storia
di oggi, se pur già conclusa. La sua attività di militante iniziò pressappoco con
la guerra civile ed ebbe
fine solo nel 1960, in una Spagna che ormai pretendeva di far gola al turista con la sua immagine di
folklore e rassegnazione. Forse non tutto, di tale attività, fu accettabile, e, certamente, le sue
caratteristiche sembrano fatte apposta per spaventare i più. Sabater aveva scelto la difficile via
di quello
che in spagnolo si chiama accion directa. Mentre l'italiano medio si abituava a considerare
"Lascia o
Raddoppia" più importante dello sfruttamento, egli espropriava le banche di Barcellona, passava
la
frontiera con carichi di stampa clandestina, si scontrava, mitra in pugno, con gli uomini della
Guardia
Civil. Ma, al di là dei metodi e degli obiettivi immediati, la sua vita è prova che
la coerenza e l'impegno
personale, il coraggio e l'amore per la libertà non sono cose d'altri tempi, o di un imprecisato
futuro.
Provocatoria nella sua violenza, essa dice a tutti che, anche oggi, non si può stare alla finestra.
Bisogna
scendere in strada e partecipare alla lotta. Francisco Sabater Llopart nacque ad Hospitalet de
Llobregat, un sobborgo di Barcellona, il 30 marzo
1914. Comunemente, veniva chiamato Quico: questo diminutivo Catalano
proseguì per tutta la vita, ma
perse ben presto il suo significato originario di affettuosa confidenza, per diventare una specie di terribile
biglietto di presentazione nelle imprese più rischiose. "Sono il Quico!, diceva
Sabater, e chi gli stava di
fronte sapeva che era meglio filare dritto, a scanso di guai. Ancora giovane, poco prima che in
Spagna venisse proclamata la Repubblica, entrò nella Confederacion
Nacional de Trabajo, il sindacato anarchico che tanta parte avrebbe avuto, poi, nella guerra civile
e nella
sua esistenza. Nelle file della C.N.T. prese parte attiva all'ondata di scioperi e agitazioni che travolse il
paese, quando la Repubblica neonata rivelò agli sfruttati il proprio vero volto, assai simile,
almeno in
materia sociale, a quello della Monarchia che l'aveva preceduta. A Hospitalet, in occasione di uno
sciopero di contadini, dimostrò subito la sua decisione e il suo modo di intendere la lotta di
classe: per
finanziare lo sciopero, che minacciava di interrompersi a causa dell'estrema miseria dei partecipanti,
svaligiò, con un gruppo di compagni, la casa di un ricco proprietario terriero. Fu il suo primo
passo su
di un "terreno" che gli sarebbe stato congeniale per quasi trent'anni. Nello stesso periodo (siamo nel
1932), entrò a far parte del gruppo d'azione "Los Novatos", aderente alla Federacion Anarquista
Iberica
(F.A.I.), insieme ad altri giovani, fra cui suo fratello maggiore Josè. Questo gruppo fu uno dei
principali
protagonisti di tutti i tentativi insurrezionali che si ebbero nella zona, dopo che le destre vinsero le
elezioni del novembre 1933. Con esso, il Quico ebbe il suo battesimo del fuoco.
La guerra civile
Il 18 luglio 1936, con la sollevazione fascista dei generali, scoppiava la guerra civile. I militanti della
C.N.T.-F.A.I. se l'aspettavano da tempo, e si erano preparati. A Hospitalet, Francisco e Josè
Sabater,
con grande previdenza, già da qualche giorno avevano sequestrato, di forza, tutte le armi in
possesso
dei possibili sostenitori della rivolta, dimodochè, il 18, essa fu facilmente stroncata. Il giorno
dopo, il
gruppo accorse in aiuto ai compagni di Barcellona. In tutta la Catalogna, comunque, il
"golpe" fascista
venne soffocato abbastanza facilmente, tanto che il 24 luglio, il Quico e la maggior parte dei suoi
compagni si diressero verso il fronte aragonese, con la Colonna Durruti. Durante la guerra, Sabater
combattè come tanti altri oscuri militanti. Senonché, ben presto, il suo
temperamento deciso, la sua incapacità a subire gli eventi, la sua tendenza ad impegnarsi
personalmente
senza eccessiva considerazione per le conseguenze a lunga scadenza, ebbero a rivelarsi ancora una volta.
In questo periodo uno dei sistemi che il partito comunista usava, nel suo tentativo autoritario di
monopolizzare la lotta contro Franco, era quello di mandare allo sbaraglio gli avversari politici (se pur
compagni di lotta), lasciando cinicamente che venissero macellati dai fascisti. In questo modo, molti
militanti anarchici persero la vita, anche prima che si arrivasse allo scontro diretto tra CNT e stalinisti,
permettendo a questi ultimi di realizzare il duplice successo di liberarsi di scomodi "concorrenti" e di
salvare la faccia (almeno nelle intenzioni). Verso la metà del 1937, a causa di una di queste
manovre,
una compagnia formata da uomini della Confederazione, ma sotto il controllo di ufficiali e commissari
politici comunisti, perse l'80% degli effettivi. La cosa fece una grande impressione, tanto che il capitano
e il commissario politico vennero messi sotto inchiesta. Ma il Quico non era tipo da
attendere le
deliberazioni dello Stato Maggiore. Attese il commissario, tal Aviño, al suo ritorno, e lo uccise
a
rivoltellate senza tanti complimenti. Nonostante fosse stata pienamente giustificata, l'azione poteva
avere serie conseguenze per i suoi
partecipanti. Quico ed i compagni che erano con lui correvano il rischio di venire fucilati,
se fossero
tornati al battaglione. Così disertarono e si rifugiarono a Barcellona, presso il Comitato
Regionale della
C.N.T., per essere aggregati ad un'altra unità confederale dove l'aria fosse più salubre.
Per ragioni di
sicurezza la cosa non poteva essere attuata subito, dimodoché Sabater fu costretto a restare
nascosto
nella capitale catalana, in attesa del momento buono. La lontananza dal fronte, comunque, venne
impiegata utilmente. Approfittando del fatto che "ufficialmente" non esisteva, perlomeno a Barcellona,
il Quico accettò di compiere diverse rischiose operazioni, per conto del Comitato
di Difesa della
Gioventù Libertaria. Sono di questo periodo, infatti alcune audaci liberazioni di compagni
detenuti, oltre
che l'eliminazione del fascista Justo Oliveras, di Hospitalet. La fisionomia di Sabater, come uomo tutto
dedito all'azione, andava delineandosi sempre più. Ben presto la sua attività
cominciò a dar fastidio alle forze controrivoluzionarie. Il SIM (Servizio di
Informazioni Militare), organo di controspionaggio controllato dai comunisti, filosovietico e nettamente
antilibertario, si mise a dargli la caccia, anche in relazione all'omicidio di Aviño, finché,
un giorno, riuscì
ad identificarlo all'uscita di un cinema. Sabater fu accolto da numerose pistole spianate, e dovette
arrendersi senza opporre resistenza.
La galera "rossa"
Venne internato nel cosiddetto Carcere Modello di Barcellona, il che fu una grande fortuna, visto
che
gli agenti del SIM avevano la brutta abitudine di fare la pelle agli anarchici, senza processo. Comunque,
appena arrivato in galera, il Quico si mise al lavoro per restarci il meno possibile. Per ben
due volte
scavò una galleria, per raggiungere, dalla sua cella, l'esterno del carcere, e il secondo tentativo
quasi
andò in porto: fu pescato dalla ronda quando già si trovava fuori dalle mura della
prigione. Il lavoro che
aveva fatto era veramente incredibile, e perfino il direttore lo riconobbe, complimentandosi con lui.
Dopodiché lo sbatté nel carcere di punizione di Vich. Ma nemmeno qui Sabater aveva
intenzione di
rimanere. Riuscì, con l'aiuto dei soldi che gli arrivavano dall'esterno, a farsi amici i secondini.
Distribuiva
mance generose per il minimo servizio, e i sorveglianti si abituarono, poco a poco, a considerarlo una
mammella da mungere, più che un pericoloso sovversivo. Stimolati dai quattrini, cominciarono
ad avere
considerazione anche per le esigenze sentimentali del prigioniero, e non ebbero difficoltà, col
passare
del tempo, a permettergli di rivedere la sua donna, Leonor Castells Martì. Al punto da
concedergli (un
uomo non è di legno, perdio) di passare qualche ora con lei, da solo, in una cella appartata. Ma
fu una
concessione che doveva costare cara ai guardiani-prosseneti. Sfruttando la confidenza e la mancanza
di
controllo (alla fine era, come si suol dire, "di casa"). Leonor portò al Quico una
pistola e una bomba a
mano. Cosicché Sabater, dopo essere stato forse l'unico galeotto di Barcellona ad avere una vita
sessuale
quasi normale, ebbe anche l'opportunità di evadere. Non che fosse una cosa facile, se pur con
le armi.
Ma, è certo, nessuno se l'aspettava e forse questo ebbe la sua importanza.
L'evasione
Il giorno fissato per la fuga, Sabater, d'accordo con i compagni di prigione, chiamò il
secondino di turno,
un marocchino di nome Alì. Questi, senza timore, entrò in cella, e fu subito steso a terra
con una scarica
di cazzotti. Un ufficiale, che era accorso al rumore, quando vide la pistola si lasciò disarmare,
legare e
imbavagliare senza resistenza. Ma il peggio doveva ancora venire, perché adesso si trattava di
uscire
all'esterno. I quattro evasi raggiunsero gli uffici, immobilizzarono altre due guardie e un ufficiale, e di
qui arrivarono dal direttore del carcere. Armi alla mano, gli chiesero di stilare e firmare lo speciale
permesso che il regolamento prevedeva, senza il quale nessuno poteva oltrepassare i cancelli dell'uscita.
Il direttore capì che aveva a che fare con gente decisa a tutto, ed eseguì. Quindi venne
anche lui
impacchettato e rinchiuso in uno stanzino. Col cuore in gola, Sabater e gli altri raggiunsero i cancelli
e
mostrarono la carta firmata al picchetto di guardia. Tutto regolare. Come detenuti che avessero
completamente scontato la pena, i quattro riacquistarono la libertà. Quando la fuga
rocambolesca venne scoperta, Sabater era ormai al sicuro a Barcellona. "Al sicuro" è
un termine relativamente esatto, in quanto doveva stare ben nascosto, se non voleva tornare da dove
era
tanto fortunosamente scappato. Ma la clandestinità era una situazione che il Quico
aveva già
sperimentato, ed alla quale era destinato a doversi abituare. Da questo punto di vista, ebbe assai rari
momenti di tranquillità, nella sua vita. Fu quasi sempre braccato dalla polizia, quasi sempre
costretto a
stare sul chi vive per sfuggire alle trappole che gli venivano tese, per sviare le indagini, per evitare i posti
di blocco, per salvare la pelle. Ma era il prezzo da pagare per il ruolo che si era dato, e Sabater lo
pagò
(come tanti altri, d'altronde) senza recriminazioni. Perché, tutto sommato, era lui che conduceva
il gioco.
Che attaccava. Gli altri, la polizia, il regime, si difendevano. Dopo diverse peripezie (vissute, come
al solito, con la pistola in pugno) il Quico poté entrare nella 121a
Brigata, 26a divisione, ex Colonna Durruti. La clandestinità, con i suoi
inconvenienti, si interrompeva
momentaneamente, ma solo per far posto alla dura vita di guerra. Con gli altri compagni
combattè fino
all'ultimo, nel disperato tentativo di fronteggiare le forze franchiste, che ormai stavano prendendo il
sopravvento in tutta la Spagna. Il 10 febbraio 1939 la 26a Divisione raggiungeva la
Francia. Erano le
ultime unità organizzate che abbandonavano la Catalogna. La guerra, ormai, era finita.
Incominciava la
resistenza.
La resistenza
In Francia, seconda guerra mondiale permettendo, Sabater rimase relativamente tranquillo fino al
maggio
1945. In questo periodo si tenne a Parigi il primo congresso del Movimento Libertario Spagnolo in
esilio, che stabilì di intensificare la lotta contro Franco, per abbattere la dittatura. Nei mesi che
seguirono, varie delegazioni furono mandate in Spagna, a prendere contatto con i compagni rimasti
nell'interno, e la prima di esse venne condotta a Barcellona da Sabater. Questi infatti aveva preso in
affitto una fattoria, Casenove Loubette, ad un chilometro appena dal confine, ed era diventato oltre che
agricoltore, una abilissima guida. Conosceva la zona molto bene, ed era quindi la persona più
adatta a
fare entrare clandestinamente in Spagna i compagni, senza incappare nei fucili della polizia. Era
l'occasione che il Quico aspettava per ritornare alla milizia attiva, così come lui
la concepiva. Approfittò
così del viaggio a Barcellona per gettare le basi della sua futura "attività". Per prima
cosa serviva denaro.
Il sistema per procurarselo fu quello già sperimentato tempo addietro, l'espropriazione. Juan
Panellas
Torras e Manuel Garrigò Pujador, ricchi industriali, furono le vittime prescelte, e fornirono, se
pur di
malavoglia, un gruzzolo di 90.000 pesetas, che andò a costituire un fondo iniziale. Con questi
soldi,
Sabater tornò in Francia, per ricongiungersi al gruppo d'azione che aveva precedentemente
costituito,
e che lo aspettava alla frontiera. Insieme ai suoi compagni, in meno di una settimana, era di nuovo a
Barcellona, pronto all'azione. E azione fu, nel senso più completo e drammatico del termine.
La leggenda, se così si può chiamarla,
di Francisco Sabater, l'uomo col mitra sotto l'impermeabile, che affrontava la Guardia Civil
gridando
"Io sono il Quico!" il nemico pubblico numero uno della dittatura franchista, nasce
soprattutto in questo
periodo. Dall'ottobre 1945 al giugno 1949, Sabater fu quasi costantemente a Barcellona, impegnato in
una serie continua di operazioni partigiane, che sarebbe troppo lungo enumerare tutte: espropriazioni,
attentati, liberazione di prigionieri politici, contrabbando di armi. Una ridda di appostamenti, fughe,
conflitti a fuoco per le strade. Tanti morti, da entrambe le parti. Chi crede che, finita la guerra, il
franchismo abbia potuto imporsi d'un sol colpo, col solo deterrente della vittoria militare, sbaglia di
grosso. E chi si domanda se tutto ciò valeva la pena, visto che Franco è ancora Franco,
non dimentichi
che il popolo spagnolo (quello Catalano in particolare) aveva imparato, durante la guerra civile, a
considerarsi arbitro del proprio destino, anche se contrastato. La libertà, l'uguaglianza, le aveva
guardate
da presso, e non poteva scordarsene come se niente fosse stato. Sabater e gli altri anarchici
continuavano
da soli una lotta che era stata di tutti. La loro presenza, le loro azioni, dicevano alla gente che il regime
non era un dato di fatto, mettevano in discussione lo status quo, insegnavano che
bisognava resistere. L'attività del Quico ebbe una brusca interruzione nel
giugno '49, e non per colpa della polizia franchista,
ma di quella francese. Sabater era rientrato alla sua fattoria di Casenove Loubette, per trascorrere
qualche giorno con la sua compagna (Leonor, di cui abbiamo già parlato a proposito della fuga
dal
carcere). I gendarmi circondarono la casa, con gran spiegamento di forze, e, dopo un'inutile tentativo
di fuga, lo arrestarono. Sulla sua testa, infatti, pendeva una condanna in contumacia: tempo addietro,
durante una perquisizione fatta alle Casenove in sua assenza, la polizia aveva scoperto un grosso
deposito di dinamite, micce, ecc. Inoltre era stato accusato di aver partecipato ad una rapina (fallita)
perpetrata circa un anno prima contro una fabbrica di Peage de Roussillon, in territorio francese.
Quest'ultimo reato non venne provato. Sta di fatto, comunque, che tra carcere preventivo e condanna
per detenzione di esplosivi, restò in prigione, a Montpellier, per circa un anno, e dovette poi
scontarne
cinque di confino a Digione.
L'uccisione dei fratelli
La forzata inerzia fu una tortura vera e propria, per Sabater. Tanto più che durante la
detenzione, la
polizia spagnola era riuscita ad uccidere la maggior parte dei militanti anarchici che operavano a
Barcellona. Tra l'agosto e il novembre del '49 i franchisti liquidarono una ventina di compagni, tra i
quali
Josè e Manolo Sabater, rispettivamente fratello maggiore e minore del Quico. La
durezza della
repressione, il clima da guerra aperta e la paura che questi uomini incutevano agli sbirri, sono dimostrati
dal fatto che quasi nessuno di essi venni fucilato dopo un processo. I più caddero crivellati di
colpi in
vere e proprie battaglie per le strade o assassinati freddamente dopo l'arresto. Oltre all'angoscia per
i fratelli e gli amici uccisi, mentre lui non poteva far niente per vendicarli, un altro
problema angustiava Sabater. Col passare del tempo, la combattività dell'organizzazione in esilio
si era
andata assai affievolendo. Molti compagni preferivano fare propaganda e proselitismo in Francia,
dimenticando l'azione diretta che al Quico stava tanto a cuore. L'esilio tendeva ad
impigrire le persone,
e d'altro canto le mille difficoltà della vita quotidiana, le noie continue che anche la polizia
francese (che
lavorava d'accordo con quella spagnola) dava agli emigrati, il pesante numero di caduti, erano tutte cose
che non facilitavano certo un'intensa attività. Ma Sabater non era uomo che potesse vedere le
cose da
un punto di vista rinunciatario e passivo. Agli inizi del 1955, ultimato il periodo di confino, il
Quico, con
alcuni compagni che la pensavano come lui, decise di agire sotto la propria responsabilità, al
di fuori dell'Organizzazione. Costituì i cosiddetti Gruppi Anarco-sindacalisti, che vennero
"scomunicati" dal
movimento in esilio, in quanto non ne accettavano le deliberazioni in materia di intervento diretto. Chi
delle due parti avesse ragione, se i Gruppi o il MLE-CNT, è un problema di assai difficile
soluzione. Da
una parte, c'è da notare il rischio, che Sabater e i suoi facevano correre agli altri compagni
dell'interno,
compiendo azioni non coordinate con l'attività generale. Non era una storia del tutto nuova:
sempre,
dopo ogni impresa clandestina, la repressione del regime si abbatteva feroce su tutti i militanti che era
possibile scovare, e colpiva, generalmente, proprio quelli non direttamente implicati, che non si erano
rifugiati oltre il confine o in qualche "base" sicura. Era una conseguenza che non avrebbe mai potuto
essere completamente eliminata, ma adesso il pericolo era certamente maggiore. D'altro canto, l'eccesso
di prudenza, l'abitudine ad azioni sempre più "platoniche", rischiava di indebolire la lotta. Man
mano che
il tempo passava, l'Organizzazione in esilio si staccava dalla realtà spagnola, perdeva i contatti,
tendeva
ad assumere l'aspetto di una associazione di "reduci". Invece di essere la rappresentazione attiva della
volontà di emancipazione degli spagnoli, rischiava di impersonare la sconfitta. Sabater sentiva
profondamente questo dilemma, e, se da un lato era convinto che bisognasse agire a tutti costi, dall'altro
l'incomprensione dei compagni lo angustiava. Comunque, il 29 aprile del 1955 era di nuovo nella sua
Barcellona, col Thompson 45 sotto l'impermeabile, a giocare la sua partita. Il 1° maggio inondò
la città
di fogli antifranchisti, che aveva portato dalla Francia. Il 3 maggio entrò da un grossista di
tessuti e si
fece consegnare la cassa. Bastò, come al solito, che dicesse "Sono il Quico". Il
6 maggio espropriò il
Banco de Vizcaya di più di un milione di pesetas, (circa cinque milioni di lire), sotto gli occhi
dei
"civiles" di guardia, senza che si accorgessero di nulla. Il 28 settembre, in occasione della
visita di Franco
a Barcellona, sparò volantini antifranchisti sulla città, da un taxi guidato da un ignaro
autista, con una
specie di mortaio che si era appositamente costruito. La sua attività continuò
così, sull'unico terreno che
concepiva, per circa un anno e mezzo.
Un milione di pesetas
Verso la fine del dicembre '56, dopo un ennesimo colpo, audacissimo, che fruttò un milione
di pesetas,
la polizia si mise a braccarlo con accanimento terribile, decisa a farla finita una volta per tutte. Nei giorni
dal 22 al 31 dicembre, Sabater sfuggì più volte, grazie alla prudenza, all'esperienza e
alla fortuna alle
trappole che gli avevano tese per catturarlo, mentre la polizia setacciava le case della zona, alla ricerca
dei suoi nascondigli. Ben 43 compagni furono il bottino degli sbirri in quell'occasione, anche se il pesce
più grosso riuscì a trovare un buco nella rete e filarsela. (Tutti vennero condannati, in
seguito, a pesanti
pene detentive). Il terreno scottava sotto i piedi, e il Quico dovette tornarsene in Francia
per non correre
rischi. Portava con sé uno zaino pieno di denaro, buona parte del frutto dell'ultima rapina, e
questo fatto,
unitamente alla presenza di un compagno disonesto, che avrebbe preferito destinare i soldi alle proprie
tasche, piuttosto che all'attività antifranchista, complicò alquanto il viaggio per passare
la frontiera. Ma
alla fine, dopo non poche peripezie, tutto andò per il meglio. In Francia, lo aspettava di
nuovo la galera. In sua assenza, e su segnalazione della polizia spagnola, i
gendarmi francesi avevano trovato un altro deposito di armi, la cui proprietà gli venne attribuita.
Risultato: 8 mesi di carcere e 5 anni di confino. Fu una brutta batosta. Uscì dal carcere molto
malato,
tanto che dovette essere operato di ulcera. Ma non aveva intenzione di mollare. Sprezzante del confino,
si mise a viaggiare, per riallacciare i contatti coi compagni, con la segreta speranza di riconciliarsi con
l'Organizzazione, di essere chiamato per qualche impresa, come un tempo.
L'ultimo viaggio
Ma era come una pecora segnata. La polizia francese non lo perdeva d'occhio e teneva informati
costantemente i colleghi spagnoli dei suoi movimenti. Nonostante Sabater cercasse di usare tutti gli
accorgimenti possibili per fare le cose nella massima segretezza, non aveva scampo. I suoi nemici
aspettavano solo che passasse la frontiera, per fargli la pelle. E forse Sabater lo sapeva. Eppure non
seppe trattenersi. Verso la fine del dicembre '59 con quattro compagni fidati, era di nuovo in Spagna,
in marcia per Barcellona. Domenica 3 gennaio 1960, i cinque anarchici vennero bloccati in una
masseria da un imponente
schieramento di Guardie Civili e fatti segno di una pioggia di pallottole. Sabater venne ferito ad una
gamba e uno dei suoi compagni ucciso. Il ricevimento in grande stile, che il franchismo aveva
preparato per il Quico, era cominciato. La
resistenza degli assediati durò per tutto il giorno, poi, al cader della notte, tentarono una sortita.
I tre
compagni vennero subito colpiti a morte, e rimasero sul terreno. Sabater, con uno stratagemma pur
ferito in più parti, riuscì a portarsi fuori tiro e, piano piano, metro per metro,
superò l'accerchiamento.
Ancora una volta il Quico era stato degno della sua fama. All'alba del 5 gennaio, non
si sa bene come arrivò al paese di Fomells de la Selva. Alle sei e mezza
"prese" il treno per Massenet, in un estremo tentativo di raggiungere Barcellona: pistole in pugno,
salì
accanto al macchinista e gli intimò di non fare fermate fino alla capitale catalana. Ma non era
così
semplice. A Massenet il conducente terminava il turno e abbandonò la macchina: Sabater sapeva
che
sarebbe subito corso a denunciarlo, per cui capì che il viaggio non sarebbe durato a lungo. A
San Celoni
saltò giù, anche per cercare un medico: le ferite si facevano sentire, aveva la febbre,
quasi non si reggeva
in piedi. In via Josè Antonio lo sorprese la Guardia Civil. Fu l'ultima battaglia del
Quico. Crivellato di
pallottole, morì come probabilmente aveva sempre desiderato, con le armi in pugno. Il
giorno dopo la C.N.T., di fronte alla stampa prezzolata che parlava della morte del "bandito" Sabater,
emise un comunicato in cui lo rivendicava come "militante d'azione anarco-sindacalista" e "gladiatore
della libertà". L'Organizzazione si riconciliava con il Quico: il più
bell'omaggio postumo.
R. Brosio
(*) Antonio Tellez, La guerriglia urbana in Spagna: Sabate, Ed. La Fiaccola, Ragusa,
1972.
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