Rivista Anarchica Online
I generali di Baj
nel forte di Bard
di Fabio Santin
Il forte di Bard è
un brutto complesso di edifici militari ricostruiti nella prima metà
dell''800, che si trova all'imboccatura della Valle d'Aosta. Già
dall'esterno ricorda in maniera impressionante la "fortezza"
descritta da Dino Buzzati nel suo Deserto dei Tartari. Ma è
soprattutto entrando e girando per i cortili e le sale che si ha la
netta sensazione di rivivere la paranoica quotidiana attesa, da parte
del protagonista del romanzo, il tenente Drago, dell'arrivo
dell'ipotetico nemico "invasore" che in realtà non arriverà
mai. Anche questa "fortezza", da decenni ridotta ad un lento e
poco "dignitoso" declino, è all'insegna della più stupida
inutilità (tipica di altre imponenti fortificazioni militari
moderne). Pare che nemmeno nei suoi momenti di gloria sia stata
all'altezza dell'importanza storica ed architettonica attribuitale
se, nel maggio del 1800, Napoleone, forte di 40.000 uomini in marcia
verso la Padania, riuscì a raggiungere Ivrea aggirando
tranquillamente l'imponente "baluardo" a difesa del confine.
Oggi, quasi due
secoli dopo Napoleone, sono i generali antimilitaristi di Enrico Baj
a prendere possesso della "fortezza". Dal 6 Luglio al 30 Agosto,
infatti, parte delle sale sono state invase proprio dai famosi
"generali" e dalle loro decorative "dame". Non c'è che dire;
il risultato è suggestivo, talmente evidente è il contrasto tra i
cupi stanzoni di foggia strana con fessure e finestre tagliate in
modo da defilarsi al tiro "nemico", per l'occasione tirati a
calce e molto "militari" nella loro inutilità, e la serie
di ritratti (termine del tutto improprio, in questi veri e propri
collage di tecniche e materiali vari) di generali altrettanto inutili
nel loro stupido militarismo. L'atmosfera che si
viene a creare tra il bianco assoluto dei contenitori e l'orgia dei
colori e dei materiali dei personaggi è quasi "surreale",
il repertorio di frange, medaglie, cimose, mappe, coccarde, bottoni,
distintivi, cordoni, spalline, alamari, nastrini, ecc. insomma di
tutto il ciarpame dell'iconografia militare, diventa veramente in
questo particolare "uso", il simbolo dei miti del potere e
della violenza del potere costituito per "grazia divina",
dell'aggressività. Certo i generali visti così, con il loro
sovraccarico di orpelli, appaiono come delle caricature grottesche,
ma è merito di Baj appunto l'aver riproposto in tempi moderni la
forza critica della farsa, del burlesco nelle arti figurative. Dietro
si intravvedono Grosz, Dubuffet, Picabia, lo stesso Duchamp, non a
caso suo amico e, naturalmente Jarry, l'irriverente inventore della
Patafisica (vedi "A" 122), della quale Baj è uno dei più
vivaci rappresentanti in Italia. La satira e la
comicità non nascondono la profonda serietà delle intenzioni,
semmai il contrario se è vero che Baj, come afferma E. Crispolti, "è
forse uno degli artisti più critici in Italia e in Europa, negli
ultimi anni, verso il volto della società contemporanea". Una
funzione critica, quella che Baj si è scelto e costruito da molto
tempo, che costituisce un caso quasi unico nel fin troppo variegato
panorama dell'arte contemporanea (non fanno testo infatti personaggi
come i vari Guttuso, perché veri e propri pittori di partito). Già alla fine
degli anni '50, coi quadri della serie delle "modificazioni"
(1959-60) Baj prendeva garbatamente in giro il fanatismo dilagante
per i voli spaziali per poi, nella primavera del '59, ironizzare
apertamente con gli emblemi e divieti della segnaletica stradale.
Seguì la lunga serie dei "Generali", ai quali vanno
associate le relative "Dame". Il tema dell'antimilitarismo
e dell'aggressività del potere si amplia successivamente con le
vaste composizioni sulle "parate militari", i "comizi",
per arrivare nel '69 alla rivisitazione di Guernica di Picasso, il
primo quadro che esprime un attacco in sede artistica alla violenza.
La serie delle rivisitazioni continua nel '71 con "La grande
Jatte" e "La double grande Jatte" di Seraut (pittore
della fine dell'800, molto vicino agli anarchici, come del resto il
movimento dei neo-impressionisti di cui fu l'iniziatore). Nel 1972 Baj
completa il grande collage "I funerali dell'anarchico Pinelli",
poi nel '74 la "Nixon's Parade" e, dopo un lungo periodo di
riflessione, la monumentale "Apocalisse", opera ancora in
corso di aggiunte e variazioni; da cui è stata tratta l'immagine del
manifesto di Venezia '84 (di questi ultimi grandi quadri parla lo
stesso Baj nell'intervista pubblicata su "A" 121). Proseguendo nel
labirinto delle sale si passa dalla serie dei generali all'altro tema
della mostra: le decine e decine di personaggi usciti dalla
immaginazione delirante di Jarry e dei suoi compagni di liceo,
(trascritti per il dramma "Ubu Re" del 1888 e riportati da
Baj per il festival della marionetta di Parigi l'anno scorso).
Completano la serie delle marionette una decina di grandi teli
illustranti episodi del ciclo di Ubu. La figura di Ubu,
vera e propria reincarnazione del tiranno assassino, del despota
onnipotente, dello zar pazzo e sanguinario e lo stuolo di nobili,
magistrati, finanzieri, consiglieri che gli restano attorno, furono
rappresentati da Jarry mantenendo il crudo linguaggio goliardico col
fine dichiarato di scandalizzare (la prima parola del primo atto è
"merda") e dissacrare le infinite mostruosità del potere. Baj reinterpreta
questo esasperato linguaggio puerile "costruendo" le sue
marionette assemblando gli elementi del gioco di costruzioni
"meccano" con ingranaggi e altri materiali. Usa quindi la
metafora di un linguaggio tipicamente infantile (il meccano) imitante
però una serialità costruttiva da grandi. Il risultato: una serie
di simpatici e coloratissimi robot meccanici che diventano feroci ed
insolenti, una volta animati nel contesto di una commedia-farsa
all'insegna della volgarità e della più gratuita brutalità. La combinazione
accentua ancor più l'aria grottesca ed evidenzia la carica profetica
dell'opera di Jarry che prefigura, con mezzo secolo di anticipo, il
carattere mostruosamente totalitario delle dittature moderne e la
fame di servitù delle masse. In conclusione, una
mostra dove, nonostante la totale mancanza di pannelli o scritte che
diano una qualche indicazione al visitatore più sprovveduto, il
"ciclo" del potere è ben rappresentato nei suoi due poli:
l'arroganza da una parte e la beotaggine dall'altra. Lo stesso Baj
ribadisce che ogni generale è in un certo senso un Ubu. Unica mancanza, a
mio parere, in questo contesto di opere dissacranti i miti del potere
e della violenza, è un episodio artistico come il "Pinelli"
che ne rappresenterebbe (perché di vera e propria "rappresentazione"
si tratta) anche il volto quotidiano e democratico.
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