Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 129
giugno 1985


Rivista Anarchica Online

Sono un anarchico moderato e la penso così

Sono anarchico?
É una domanda che spesso mi sono posto e che continua, ridondante ed ossessiva, a perseguirmi ciclicamente. Anche ora me lo sto chiedendo, mentre scorro le righe dello scritto di Andrea Papi (La pace è guerra) sul numero di marzo ("A" 126). E spesse volte domande di miei conoscenti sono state cause di crisi irrisolte.
Con "A"-Rivista Anarchica sotto il braccio, dopo aver udito con un sorriso triste il bisbiglio dell'edicolaio e di qualche occasionale cliente che ha accompagnato la mia uscita dal locale (ma è inutile che ne parli, penso che esperienze simili siano comuni a tutti noi), vengo affrontato dagli amici che mi accusano di acquistare questo periodico per pavoneggiarmi, per distinguermi. Eh già, è vero: tu indossi l'aquilotto di Armani, ella è appena uscita da Trussardi, anch'io devo quindi avere il mio marchio di fabbrica, una bella A cerchiata.
Ma non è mia intenzione tediarvi con simili facezie riguardanti solo ed esclusivamente il microcosmo in cui vivo. Il mio problema è un altro. Siete voi, cari compagni (quanto mi costa chiamarvi così, visto l'abuso del termine da parte degli adepti del PCI) a dover essere monolitici (dovrei forse usare il termine "pragmatici", ma una rapida consultazione del Devoto non ha confortato questa ultima impressione e non ho il diritto di tacciarvi di "dogmatismo") o sono io a dover essere meno flessibile?
Noi tutti non sopportiamo di essere inquadrali e classificati se non come anarchici (o almeno a me già non piace che mi si dia del socialista utopico), ma proviamo a scegliere, o meglio aiutatemi a scegliere tra queste due frasi: "si piega ma non si spezza" e "si spezza ma non si piega". Insomma, siamo di cristallo o di caucciù?
Sì, senz'altro, anch'io preferisco essere di cristallo ma, se lecito, spezzati noi ci saranno altri tedofori pronti a raccogliere ii testimone e continuare a correre fino ad accendere, finalmente, quella fiamma che tutti speriamo di veder splendere un giorno, proseguendo questa lunga staffetta iniziata almeno duemila anni fa? (Non mi si dia del bigotto, sono convinto che imbonitore o illusionista che fosse, il primo anarchico sia stato il figlio di quel falegname ebreo).
É chiaro che il mio augurio è che la diminuzione di compagni in questo secolo sia, diciamo così, un evento di assestamento. Ma se cosi non fosse? Se è invece il segnale di un declino inarrestabile coinvolgente noi lutti, sognatori indefessi?
"Sia lo stato, sia l'arte di governo, sono i nemici dichiarati contro cui lotta l'anarchismo, ragion per cui non ha senso per gli anarchici agire in loro funzione". D'accordo, ma visto che dalle pagine della nostra rivista traspare la scelta (da me totalmente condivisa) di non scendere sul terreno della lotta armata, che cosa facciamo? Ci sediamo sulle panchine del Luna Park mondiale con gli sguardi corrucciati, vestigia di un movimento attivo e vivace, dicendo NO a tutto e a tutti. É costruttivo far ciò? No, ma è cosi anarchico.
A parer mio è necessario scendere dal piedistallo sul quale ci siamo messi. Senz'altro la nostra scelta implica un'intelligenza, un coraggio ed una voglia di arrivare alla meta superiore (senza con questo giungere a parlare di predestinazione, con buona pace dei giansenisti), ma è proprio per questo che dobbiamo muoverci ai limiti del lecito (che cosa è lecito purtroppo, e mi duole, è quello che lo Stato consente) perché è l'unico modo per unire a noi i Prolet. Odio parlare per luoghi comuni ma, visto che la montagna (leggasi Prolet) non sembra intenzionata a raggiungerci, vediamo di essere un po' noi a tornare indietro e tendere figuratamente la mano per accompagnarli e far sì che ci accompagnino verso la meta divenuta comune.
Esistono almeno due modi nonviolenti di portare avanti la causa anarchica: quello intransigente e quello moderato. Personalmente propendo per quest'ultimo, conservando la stima e la simpatia che provo per i compagni intransigenti. Siamo tanti Mosè: chi più chi meno, al termine della sua lotta ciascuno vedrà la terra promessa senza calpestarla, forse riuscirà solo a percepirla come un'ombra tra le nebbie. E per disperdere la nebbia, cosa è meglio che soffiare dal suo interno?
Infiltrarsi negli apparati dello stato è secondo me condizione imprescindibile alla sua definitiva dissoluzione. Il violento attacco di una vespa raramente uccide, ma un virus che si insedia nell'organismo umano è più spesso letale. É un invito a prostituirsi il mio? Dipende.
L'intransigente non si piega, si guarda allo specchio e si dice: "Quanto sono anarchico!". Io, moderato, sono disposto dal canto mio a calarmi le braghe, non ho la necessità di questo tipo di autogratificazione. Cerco di distruggere lo stato servendomi di esso. Sono per questo meno anarchico? L'intransigente è più anarchico di me? Sì, se abbiamo la pretesa di quantificare una qualità. Qui non si sta parlando di chi è più o meno biondo, di chi è più o meno grasso. Stiamo invece cercando di scegliere, tra le due, quale strategia è vincente. Il Machiavelli, servo dello stato per antonomasia, ebbe a dire: "Il fine giustifica i mezzi" ed è ciò che mi propongo, non dimenticando quanto affermato da Vincenzo Cuoco nel suo saggio sulla fallita rivoluzione partenopea, ove invitava gli ideatori di prossime rivolte ad avvicinarsi agli interessi delle masse, evitando di ledere le loro proprie certezze, istintive o inculcate che fossero.
Nostro malgrado, le masse frappongono uno dei più grandi ostacoli, se non il più grande, alla realizzazione del nostro ideale, sono cioè convinte di aver bisogno dello stato, senza di esso si sentirebbero nude. Saremo in grado di emanciparle? Ed ancora: abbiamo il diritto di farlo? Abbiamo una nostra etica, ma se nonostante questa, nella nostra missione educatrice, trascendessimo nella demagogia di cui i regimi attuali, quanto e più di quelli passati, fanno uso?
Purtroppo non è questo il momento di porsi tali quesiti, siamo ancora tanto lontani da quel giorno tanto spasmodicamente atteso. Insomma, cari intransigenti, cedete un poco, non restate così saldamente ancorati alle vostre posizioni, mortificando l'operato di noi moderati.
Chi, come il sottoscritto, è un vigliacco, non ha cioè la forza d'animo necessaria per affrontare l'esperienza carceraria, non merita di vedersi puntare contro il dito accusatore di quei compagni più forti i quali, fermi nelle loro convinzioni, decidono di affrontare il carcere. Io, ripeto, sono un vile e non sono in grado di rinunciare a questa parvenza di libertà che lo stato mi concede.
Sto vagliando attentamente l'ipotesi autolesionista di assolvere i presunti obblighi di leva in uno di quei corpi speciali pieni di fascisti guerrafondai (ad esempio il battaglione San Marco). Che cosa significa questa mia scelta? É in primo luogo una sorta di risarcimento morale verso i compagni che hanno sofferto e stanno nei penitenziari militari (sebbene non credo che la cosa li interessi più di tanto); è come autoflagellarmi impegnandomi a fare proseliti tra quei giovani che tanto ci disprezzano (prenderò più gavettoni e magari verrò picchiato, ma la cosa mi tocca poco); è infine la speranza di dare una risposta alla domanda che ha aperto questo mio scritto. Affronterò questa esperienza con lo spirito di un ricercatore, voglioso di vedere fino a che punto l'indottrinamento militare può traviare uno spirito libero.
Mi auguro di essere forte almeno in questo ma, nella peggiore delle ipotesi, se il mio esperimento di ricercatore/cavia dovesse dare esito negativo, non avrete perso altro che un anarcoide, uno di quei sedicenti per eccellenza che, oltre tutto, screditano il fronte libertario.

Maurice Enem Cervellera (Taranto)