Rivista Anarchica Online
Sono un
anarchico moderato e la penso così
Sono anarchico? É una domanda che
spesso mi sono posto e che continua, ridondante ed ossessiva, a
perseguirmi ciclicamente. Anche ora me lo sto chiedendo, mentre
scorro le righe dello scritto di Andrea Papi (La pace è
guerra) sul numero di marzo ("A" 126). E spesse volte domande
di miei conoscenti sono state cause di crisi irrisolte. Con "A"-Rivista
Anarchica sotto il braccio, dopo aver udito con un sorriso triste
il bisbiglio dell'edicolaio e di qualche occasionale cliente che ha
accompagnato la mia uscita dal locale (ma è inutile che ne parli,
penso che esperienze simili siano comuni a tutti noi), vengo
affrontato dagli amici che mi accusano di acquistare questo periodico
per pavoneggiarmi, per distinguermi. Eh già, è vero: tu indossi
l'aquilotto di Armani, ella è appena uscita da Trussardi, anch'io
devo quindi avere il mio marchio di fabbrica, una bella A cerchiata. Ma non è mia
intenzione tediarvi con simili facezie riguardanti solo ed
esclusivamente il microcosmo in cui vivo. Il mio problema è un
altro. Siete voi, cari compagni (quanto mi costa chiamarvi così,
visto l'abuso del termine da parte degli adepti del PCI) a dover
essere monolitici (dovrei forse usare il termine "pragmatici",
ma una rapida consultazione del Devoto non ha confortato questa
ultima impressione e non ho il diritto di tacciarvi di "dogmatismo")
o sono io a dover essere meno flessibile? Noi tutti non
sopportiamo di essere inquadrali e classificati se non come anarchici
(o almeno a me già non piace che mi si dia del socialista utopico),
ma proviamo a scegliere, o meglio aiutatemi a scegliere tra queste
due frasi: "si piega ma non si spezza" e "si spezza ma
non si piega". Insomma, siamo di cristallo o di caucciù? Sì, senz'altro,
anch'io preferisco essere di cristallo ma, se lecito, spezzati noi ci
saranno altri tedofori pronti a raccogliere ii testimone e continuare
a correre fino ad accendere, finalmente, quella fiamma che tutti
speriamo di veder splendere un giorno, proseguendo questa lunga
staffetta iniziata almeno duemila anni fa? (Non mi si dia del
bigotto, sono convinto che imbonitore o illusionista che fosse, il
primo anarchico sia stato il figlio di quel falegname ebreo). É chiaro che il
mio augurio è che la diminuzione di compagni in questo secolo sia,
diciamo così, un evento di assestamento. Ma se cosi non fosse? Se è
invece il segnale di un declino inarrestabile coinvolgente noi lutti,
sognatori indefessi? "Sia lo stato,
sia l'arte di governo, sono i nemici dichiarati contro cui lotta
l'anarchismo, ragion per cui non ha senso per gli anarchici agire in
loro funzione". D'accordo, ma visto che dalle pagine della
nostra rivista traspare la scelta (da me totalmente condivisa) di non
scendere sul terreno della lotta armata, che cosa facciamo? Ci
sediamo sulle panchine del Luna Park mondiale con gli sguardi
corrucciati, vestigia di un movimento attivo e vivace, dicendo NO a
tutto e a tutti. É costruttivo far ciò? No, ma è cosi anarchico. A parer mio è
necessario scendere dal piedistallo sul quale ci siamo messi.
Senz'altro la nostra scelta implica un'intelligenza, un coraggio ed
una voglia di arrivare alla meta superiore (senza con questo giungere
a parlare di predestinazione, con buona pace dei giansenisti), ma è
proprio per questo che dobbiamo muoverci ai limiti del lecito (che
cosa è lecito purtroppo, e mi duole, è quello che lo Stato
consente) perché è l'unico modo per unire a noi i Prolet. Odio
parlare per luoghi comuni ma, visto che la montagna (leggasi Prolet)
non sembra intenzionata a raggiungerci, vediamo di essere un po' noi
a tornare indietro e tendere figuratamente la mano per accompagnarli
e far sì che ci accompagnino verso la meta divenuta comune. Esistono almeno due
modi nonviolenti di portare avanti la causa anarchica: quello
intransigente e quello moderato. Personalmente propendo per
quest'ultimo, conservando la stima e la simpatia che provo per i
compagni intransigenti. Siamo tanti Mosè: chi più chi meno, al
termine della sua lotta ciascuno vedrà la terra promessa senza
calpestarla, forse riuscirà solo a percepirla come un'ombra tra le
nebbie. E per disperdere la nebbia, cosa è meglio che soffiare dal
suo interno? Infiltrarsi negli
apparati dello stato è secondo me condizione imprescindibile alla
sua definitiva dissoluzione. Il violento attacco di una vespa
raramente uccide, ma un virus che si insedia nell'organismo umano è
più spesso letale. É un invito a prostituirsi il mio? Dipende. L'intransigente non
si piega, si guarda allo specchio e si dice: "Quanto sono
anarchico!". Io, moderato, sono disposto dal canto mio a calarmi
le braghe, non ho la necessità di questo tipo di autogratificazione.
Cerco di distruggere lo stato servendomi di esso. Sono per questo
meno anarchico? L'intransigente è più anarchico di me? Sì, se
abbiamo la pretesa di quantificare una qualità. Qui non si sta
parlando di chi è più o meno biondo, di chi è più o meno grasso.
Stiamo invece cercando di scegliere, tra le due, quale strategia è
vincente. Il Machiavelli, servo dello stato per antonomasia, ebbe a
dire: "Il fine giustifica i mezzi" ed è ciò che mi
propongo, non dimenticando quanto affermato da Vincenzo Cuoco nel suo
saggio sulla fallita rivoluzione partenopea, ove invitava gli
ideatori di prossime rivolte ad avvicinarsi agli interessi delle
masse, evitando di ledere le loro proprie certezze, istintive o
inculcate che fossero. Nostro malgrado, le
masse frappongono uno dei più grandi ostacoli, se non il più
grande, alla realizzazione del nostro ideale, sono cioè convinte di
aver bisogno dello stato, senza di esso si sentirebbero nude. Saremo
in grado di emanciparle? Ed ancora: abbiamo il diritto di farlo?
Abbiamo una nostra etica, ma se nonostante questa, nella nostra
missione educatrice, trascendessimo nella demagogia di cui i regimi
attuali, quanto e più di quelli passati, fanno uso? Purtroppo non è
questo il momento di porsi tali quesiti, siamo ancora tanto lontani
da quel giorno tanto spasmodicamente atteso. Insomma, cari
intransigenti, cedete un poco, non restate così saldamente ancorati
alle vostre posizioni, mortificando l'operato di noi moderati. Chi, come il
sottoscritto, è un vigliacco, non ha cioè la forza d'animo
necessaria per affrontare l'esperienza carceraria, non merita di
vedersi puntare contro il dito accusatore di quei compagni più forti
i quali, fermi nelle loro convinzioni, decidono di affrontare il
carcere. Io, ripeto, sono un vile e non sono in grado di rinunciare a
questa parvenza di libertà che lo stato mi concede. Sto vagliando
attentamente l'ipotesi autolesionista di assolvere i presunti
obblighi di leva in uno di quei corpi speciali pieni di fascisti
guerrafondai (ad esempio il battaglione San Marco). Che cosa
significa questa mia scelta? É in primo luogo una sorta di
risarcimento morale verso i compagni che hanno sofferto e stanno nei
penitenziari militari (sebbene non credo che la cosa li interessi più
di tanto); è come autoflagellarmi impegnandomi a fare proseliti tra
quei giovani che tanto ci disprezzano (prenderò più gavettoni e
magari verrò picchiato, ma la cosa mi tocca poco); è infine la
speranza di dare una risposta alla domanda che ha aperto questo mio
scritto. Affronterò questa esperienza con lo spirito di un
ricercatore, voglioso di vedere fino a che punto l'indottrinamento
militare può traviare uno spirito libero. Mi auguro di essere
forte almeno in questo ma, nella peggiore delle ipotesi, se il mio
esperimento di ricercatore/cavia dovesse dare esito negativo, non
avrete perso altro che un anarcoide, uno di quei sedicenti per
eccellenza che, oltre tutto, screditano il fronte libertario.
Maurice Enem
Cervellera (Taranto)
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