Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 127
aprile 1985


Rivista Anarchica Online

L'immaginario devastato
di Pino Bertelli

Il cinema ha dato molta corda alla violenza della società sull'individuo e alle ferite oscure o deformi di soggetti ghettizzati nella devianza o nella mostruosità. L'istituzione mercantile del cinema ha diffuso ovunque la credenza che tutto ciò che è "diverso" è anche il "male". Follia, omosessualità, deformità, terrorismo, ecc., sono i "demoni" distruttori della s/ragione dominante: l'altra faccia dello specchio sociale.
Si è confusa l'Anarchia col Caos e adorato la Croce con il Nulla volgarizzati nelle mitologie sul "buon governo" della teologia marxista. E tutto sotto l'ala protettrice di un dio bastardo eretto e perpetuato sulle forche papaline della soggezione allargata: "getta via quel che non ferisce il buon senso" (1).
Ricordiamolo. Anarchia è assenza di potere. Fine dell'oppressione dell'uomo per mezzo dell'uomo. "La stessa verità dell'uomo non è altro che la rivelazione della sua propria natura e per far ciò bisogna che egli si scopra da se stesso, che si liberi di tutto quello che gli è estraneo, che si astragga all'estremo sbarazzandosi di ogni autorità, riconquistando la sua innocenza" (2). Il Caos è la rappresentazione della società dello spreco. Il disordine della prassi e della burocrazia armata messo in leggi.
La devastazione dell'immaginario popolare si situa nei rituali mistici e negli stili accademici del culto della menzogna. Gli ultimi non hanno memoria, sono condannati a pregare (a pagare) in anticipo la loro sorte; bastonati, incarcerati, fucilati, impazziti, i naufraghi della realtà disperata si trovano ai bordi dell'immacolata concezione dello Stato dove i più mansueti, i più pigri, i più vigliacchi mettono volontariamente sul ceppo della democrazia apparente le loro teste. "Quando ogni senso scompare, l'ultima possibilità di senso è l'apocalisse, che è la possibilità di senso della catastrofe" (3).
I mostri quotidiani che hanno popolato lo schermo dalla nascita del cinema hanno spesso commemorato la violenza che la società tutta intera porta al "diverso". I figli delle tenebre sono la parte marcia della favola. Il passaggio obbligato, spettacolare, che mostra nel "fenomeno" il punto critico: il bello è il totem funzionale della pratica sociale. È il contenitore multiforme dei miti che cristallizzano l'utopia collettiva.
In principio David W. Griffith con The avenging conscience (1914); Stellan Rye con Lo studente di Praga (Der student von Prag, 1913); Paul Wegener con Il Golem (Der Golem, 1920) tramortiscono il gusto cronachistico dell'orrido e pongono il demoniaco come fantasma latente nei sogni, nei desideri dell'ordinario ammutolito.
Qualche tempo dopo Robert Wiene filma Il gabinetto del dottor Caligari (Das Kabinett des Dr. Caligari, 1919) che traccia il cerimoniale, il consueto momento di rottura del "diverso" e il richiamo degli sguardi all'ordine costituito. Tutta la catenaria filmica di vampiri, licantropi, figure della deformità, mostri sanguinari, pazzi assassini, ecc., escono dal "caligarismo" e in fondo quello che invocano è la soppressione del "brutto", la messa a morte della "diversità" nella figurazione simulata, splendente, della socialità.
Film celebri ci scorrono negli occhi; Dracula (1931) di Tod Browning, Il dottor Jekyll (Dr.Jekyll and Mr. Hyde, 1932) di Rouben Mamoulian, Nosferatu il vampiro (Nosferatu/eine Symphonie des Grauens, 1922) di Wilhelm Murnau, Frankenstein (1931) di James Whale, King Kong (1933) di Ernest B. Schoedsack e Merian C. Cooper, La bella e la bestia (La belle et la bê
te, 1945) di Jean Cocteau, Il fantasma dell'Opera (The phantom of the opera, 1925) di Rupert Julian, L'Uomo che ride (The man who laughs, 1928) di Paul Leni , Nôtre Dame (The Hunchback of Nôtre Dame, 1939) di William Dieterle... tutti evidenziano la ricchezza interiore del "diverso", ma quello che ripercorrono è "il cammino della morte in un mondo dove i valori universali sono sempre disposti ad assicurare l'irresponsabilità e la tranquilla coscienza, tanto che l'innocenza ricopre il misfatto e dove per di più si muore anonimamente" (4). Insomma i "mostri" vengono suicidati dalla "cultura ufficiale" perché deturpano i sonni della facciata sociale. Il melodramma, il paternalismo, l'effervescenza di una "sana morale" volta all'efficientismo, al produttivismo, a un'estetica figurativa imperfetta sono i più abusati mezzi pregiudiziali sull'emarginazione: la verità del "diverso" è sovversiva! Per questo il "diverso" è condannato a morte.
All'interno di un cinema di confezione alcuni autori sono riusciti a comunicare in qualche modo l'umanità violentata dei "diversi". Tod Browning, Wilhelm Murnau o James Whale ad es., hanno messo nelle loro opere momenti di grande coraggio eversivo, delineato una forza espressiva che si portava oltre il firmamento di celluloide dei semidei di Hollywood.
Nell'immediato il Nosferatu di Murnau seduce per l' arditezza della struttura cinematografica ; eccezionali inquadrature, notevole senso della figurazione, sapienza di montaggio, sperimentazioni linguistiche immesse nel testo filmico lasciano leggere Nosferatu su piani diversi; al fondo dei contenuti vediamo che Murnau affonda nei fianchi della comunità la tristezza e la morale del "diverso" come anello disgregante della catenaria sociale: "oggetto di terrore che implode all'interno dello schema pacificato, arreso" (5).
La paura della paura giustifica tutto. Hitler, Mussolini o Stalin ne sono la tragica testimonianza. Sullo schermo e fuori "la libertà è "una forma di dominio": e precisamente quella in cui i mezzi imposti soddisfano i bisogni dell'individuo col minimo di dispiacere e di rinuncia" (6). Il primo raggio di sole su Brema uccide Nosferatu, il principe delle tenebre, l'intolleranza del discorso dominante ucciderà tutte le altre figure devianti che dell'ombra, della notte, del buio della solitudine hanno fatto il proprio covo.
Browning si muove nei sogni "marci" dell'emarginazione. Lo fa con due film magistrali: Lo sconosciuto (The unknown, 1927) e Freaks (1932). In Lo sconosciuto Browning lavora con Lon Chaney (con il quale aveva già fatto The unholy three (1925), e ne esce fuori uno dei più rigorosi lavori sulla quotidianità emarginata. Una storia d'amore "diversa" che smantella le aspettative dell'ordinario e i narcisismi teologici dell'avanguardia.
Braccato dalla polizia Chaney si nasconde in un circo. Con la complicità di un amico cela le braccia sotto delle fasce e vive lanciando coltelli coi piedi. Chaney s'innamora di Joan Crawford, la cavallerizza che non sopporta di essere toccata dalle mani di un uomo. Lei gli confida i propri turbamenti, lui gli regala le carezze dei suoi occhi e la propria vita. Il lanciatore di coltelli si fa tagliare le braccia e dopo alcuni mesi torna al circo per chiedere alla Crawford di sposarlo. La cavallerizza ha ormai superato i timori che la allontanavano dagli uomini ed è divenuta la compagna dell'uomo più forte del circo: "l'amore moltiplica i problemi. La libertà furibonda s'impadronisce degli amanti più devoti l'uno all'altro dello spazio al grembo dell'aria. La donna serba sempre nella sua finestra la luce della stella, e nella sua mano la linea della vita dell'amante..." (7).
Browning e Chaney si scagliano contro "l'immacolata concezione" della donna. Lo sconosciuto mostra che ogni morale è provvisoria e la banalità dell'ordinario è che si ama sempre qualcuno o qualcosa compreso all'interno della propria mediocrità riflessa nello specchio sociale. Sulla scena (e fuori) Chaney è l'eretico. Il "diverso". Acrobati, cavallerizzi, prestigiatori, clown, domatori di leoni sono la norma; il lanciatore di coltelli senza mani è "lo sconosciuto" che incrina l'estetica giocosa del cerimoniale. Infatti non è mai dentro i loro sogni artistici, rappresenta invece l'ostilità e l'insolenza della figura che non amoreggia con la propria "diversità" ma che dispone della forza di rompere con lo spettacolo del fenomeno per superare la soglia di messa a morte del consueto: il deforme, il patetico, il "diverso" divengono in Chaney categorie/figure di riscatto della condizione negativa.
Chi ne Lo sconosciuto ha scorto "orrore allo stato puro, con ampio ricorso al sado-masochismo" (8) ha perduto i valori eversivi, nichilisti di quest'opera radicale contro la "coscienza felice" (Herbert Marcuse) borghese.
Molto importante è l'apporto di Chaney alla caratterizzazione dei personaggi che interpreta. È nota la sua inclinazione a portare sullo schermo storie di emarginati.
Figlio di genitori sordomuti, il padre barbiere, la madre inferma per quasi tutta la sua vita, Chaney aveva presto conosciuto la miseria, la solitudine, la difficoltà di comunicare all'interno della propria famiglia e con gli altri. In modo forzato Chaney apprende il linguaggio gestuale e dopo avere fatto di tutto nel mondo dello spettacolo, dietro le quinte e sulla ribalta di teatri viaggianti, si trova nel cinema come trovarobe al servizio del regista Allan Dwan.
Dal 1913 al 1919 Chaney interpreta (e a volte dirige) molti corti e mediometraggi nei quali veste spesso i panni dello scemo, del deforme, del "diverso"; in poco tempo delinea sullo schermo una galleria di personaggi marcati, ripugnanti, abnormi e le sue interpretazioni squarciano l'attoralità accademica/teatrale abusata dai "fantocci" di Hollywood. Quando muore (1930) per un cancro alla gola, ha poco più di quarant'anni: non lascerà eredi sulla tela bianca.
Blizzard, l'uomo senza gambe di The penalty (1920), Quasimodo il gobbo di Nôtre Dame de Paris, il misantropo sfigurato de Il fantasma dell'Opera, il lanciatore di coltelli senza mani di Lo sconosciuto, disegnano i percorsi e i legami di Chaney con i "diversi" della terra.
Chaney entrava nei personaggi che portava sullo schermo in modo diretto. Trasformava il proprio corpo con trucchi complessi, sopportava patimenti incredibili per giungere a figurare/comunicare l'intermondo dei disadattati, dei fenomeni, delle vite scellerate che sopravvivono ai bordi del sociale. Gli mutilano le braccia, le gambe, gli deformano il corpo, gli sconvolgono la faccia; la frantumazione dell'uomo s'identifica con la vivisezione dell'attore che riemerge poco a poco nella presenza/testimonianza morale dei personaggi violentati nella propria quotidianità.

Il più maledetto tra i film maledetti
Interpretare i conflitti conviviali dell'emarginazione è partire da rapporti di fratellanza e di solidarietà con chi è stato "toccato" (non importa se come e dove) dalla ferocità dell'esistenza. Freud ci ricorda che "si ama ciò che possiede quella perfezione che manca all'io per poterne fare l'ideale" (9). Si capisce bene come la storia del pensiero conforme alla facciata sociale abbia ghettizzato (e ghettizzi ancora con mezzi più squisiti) tutto ciò che rappresenta il giudizio estetico/etico dell'umanità amministrata sui canoni del bello, dell'efficiente, del produttivo. Chi non può correre nel delirio generale è un giocattolo rotto. Viene escluso dal gioco degli eccessi. Espulso dal mercato e dalla logica del conforme. Sbattuto fuori dalla politica dell'ostentazione audiovisuale sospetta: è il trionfo della merce che si demoltiplica nello spettacolo seriale della vita corrente.
Sullo schermo più di ogni altro, è Tod Browning a descrivere il codice morale dei "diversi". Lo fa con Freaks, un film eccezionale che ancora oggi è sistematicamente censurato dal mercato (cinematografico e televisivo). Le sue apparizioni in cinema per "addetti ai lavori" o trasmissioni televisive della notte sono di estrema rarità.
I tratti essenziali di Freaks: Cleopatra (Olga Baclanova) è la bella trapezista che fa innamorare perdutamente di sé il nano Hans (Harry Earles). Cleopatra vuole sposare il nano per poi ucciderlo e rapinarlo della recente eredità. Architetta il piano insieme a Ercole (Henry Victor), l'"uomo più forte del mondo". Frida (Daisy Earles) l'ex-fidanzata di Hans (anch'essa nana) con i "freaks" del circo scoprono il complotto di Cleopatra e Ercole; la notte che precede le nozze fra la "bella e il mostro" i "freaks" aggrediscono l'"uomo più forte del mondo" e puniscono la trapezista... il film si chiude con l'esposizione dei "mostri" al pubblico. Tra loro c'è Cleopatra con la faccia sfigurata e il corpo di gallina. Hans e Frieda tornano al loro amore "speciale".
Di Ercole non sappiamo più nulla. La versione integrale, mai apparsa in pubblico, "lo mostra nel finale, castrato, che con una voce in falsetto canta nello stesso spettacolo in cui è mostrata la donna-gallina" (10).
Browning ricalca appena il romanzo di Clarence A. "Tod" Robbins, "Spurs" (1923) che la "MGM" gli aveva commissionato; si avvicina invece alla quotidianità dei "mostri di natura", descrive con piglio quasi documentario la loro vita privata, la loro esistenza sofferta di "capricci del destino" e/o "fenomeni" esposti all'impietosità degli sguardi dei "normali".
Daisy e Violet Hilton (le sorelle siamesi), Schlitze (Capocchia di spillo), Ehire e Jennie Lee Snow (Capocchie di spillo), Jo-Frances O' Connor (la Vivente Venere di Milo), Peter Robinson (lo Scheletro umano), Olga Roderick (la Donna barbuta), Koo Koo (la Ragazza-uccello), Martha Morris (la Donna senza braccia), Prince Radian (il Torso vivente), Elizabeth Green (la Cicogna umana) interpretano loro stessi, ci fanno entrare nel dentro della loro condizione esistenziale, e conoscere i piccoli/grandi drammi di un'ordinarietà senza barriere: il confine tra "mostruosità" e "normalità" si assottiglia fino a scomparire nei segni comuni a tutta l'umanità.
"Tra i film "maledetti" Freaks è forse il più maledetto di tutti" (Maurizio Del Vecchio); nei generi cinematografici è stato catalogato come un capolavoro dell'horror e confuso così con fantomatici vampiri, mostri di Londra, principi delle tenebre; niente di più inesatto gli poteva succedere. Freaks è un saggio antropologico della vita offesa. I pennivendoli della critica lo derisero, boicottarono, stroncarono senza mezzi termini; le loro ovazioni erano riservate alla magniloquenza di Cecil B. De Mille, alle scemenze di Frank Capra, all'ambiguità narcisista/piccolo borghese di Charlie S. Chaplin.
Scrive John C. Moffit: "Questo film non ha scusanti. Solo una mente corrotta può averlo prodotto e ci vuole un gran stomaco per sopportarlo. Fu fatto soltanto per far soldi e basta. Esattamente come si faceva il liquore per far soldi. Gli interessi sui liquori resero possibili determinate circostanze di tale degradazione in quel campo da provocare il proibizionismo. In Freaks i film fanno un grande passo verso la censura nazionale. Se la otterranno non avranno da rimproverare altri che se stessi" (11).
Su altre pieghe dell'analisi si pone Jean Claude Romer: "Tod Browning ha saputo rispettare la dignità della gente di spettacolo, degli oppressi e dei deboli che la società ha respinto. Egli non ha mai messo in ridicolo quel mondo che lui stesso aveva così ben conosciuto, e tanto amato e, meglio di qualsiasi altro, ha saputo trovare uno sguardo lucido, a sua volta impietoso ma sempre generoso, per descriverci la vita dolorosa degli emarginati" (12).
Freaks resta un'opera dell'oltraggio. Declassifica ogni altra lettura che non sia quella della solidarietà e dell'amore per gli "irregolari": la "diversità" è l'arma del conforme e serve per impedire al "deforme", al sottomesso, al battuto di non amare altro Dio che l'apparenza.

Il "mostro" e la bambina
James Whale si avvicina al bordo dei "diversi" in modo intelligente. I suoi film Frankenstein e La moglie di Frankenstein (The bride of Frankenstein, 1935) sono trasfigurazioni del reale ma giungono puntuali a sovvertire la banalità della trama e l'atteggiamento orrorifico.
Ii "mostro" (Boris Karloff) creato dal dottor Frankenstein (Colin Clive) è un'insieme di infantilismo e di violenza; epifenomeno della scienza si trova fuori dalle categorie di ciò che è bene e di quello che è male; paga con la morte la sua "diversità": il tragico del proprio immaginario devastato. La "creatura" di Frankenstein è condannata al rogo perché porta con sé le turbolenze inquietanti della "diversità": il "mostro" è l'elemento perturbatore della quotidianità sonnolenta della società. E per questo viene ucciso.
Indimenticabili le sequenze dell'incontro tra il "mostro" e la bambina nel bosco, sulla sponda di un lago immobile; "la fanciulla lo accoglie senza timore, gli offre un fiore e lo invita a giocare con lei: gettano in acqua dei fiori e stanno a guardarli galleggiare; la creatura, che per la prima volta sorride, afferra la bambina e la getta in acqua per vederla galleggiare..." (13); abbozza un sorriso guardando i cerchi che increspano l'acqua (14); Whale non è mai melodrammatico né artificioso, scopre i valori, la spontaneità, la gioia della dimensione infantile che fa della "diversità" un gioco. Dell'omicidio un atto d'amore.
Ma il cinema è sogno. Impronta del mercato sulla testa. Di/seducazione dello sguardo. E Deleuze ci riporta a Goethe e a Mefistofele: "noi diavoli o vampiri, siamo liberi per il primo atto, ma già schiavi del secondo" (15). L'intera parte finale di Frankenstein mostra l'inclinazione al supplizio delle masse; un eretico, un "mostro" o un terrorista fa lo stesso; ciò che importa è placare la propria sete di sangue sotto la maschera della giustizia o della violenza permessa; la lapidazione del "cattivo" è un avvicinamento a Dio e la sottomissione allo Stato.
Il "mostro" di Frankenstein muore bruciato in un mulino abbandonato ma come le streghe di onorata carriera risorge qualche anno dopo in La moglie di Frankenstein.
È ancora Whale a dirigere La moglie di Frankenstein, ed è forse la sua opera maggiore. A una lettura superficiale il film si presenta come il seguito del celeberrimo Frankenstein del '31. Avvicinandoci più avvertitamente alla struttura filmica vediamo emergere momenti di tensione, di drammaticità celati nel grottesco, velati nell'uso sistematico dell'ironia rovesciata.
Alcuni punti del film pongono interrogativi inquietanti:
1. La resurrezione del "mostro" dalle acque del mulino abbandonato. L'uccisione dei genitori della bambina affogata nel primo film. La morte accidentale di un'altra bambina in questo.
2. La presenza del malefico dott. Pretorius; scienziato senza scrupoli che vuole dare una "sposa" al "mostro", produrre una razza nuova. Con i suoi esperimenti ha creato in modo artificiale degli omuncoli che tiene in bottiglie. Frankenstein non vuole ripetere l'esperimento. Pretorius lo ricatta col rapimento della moglie.
3. Il rapporto del "mostro" col cieco che vive isolato in una capanna. Il cieco gli insegna a mangiare, a fumare, a dire qualche parola... Un cacciatore spara addosso al "mostro" che nella fuga dà fuoco alla capanna del cieco.
4. Il "mostro", ferito, si nasconde in un cimitero. Pretorius lo cattura e lo porta nel suo laboratorio.
5. Pretorius e Frankenstein danno vita al nuovo "essere". La "creatura" respinge il "mostro" e scatena la sua furia. Il "mostro" fa esplodere il laboratorio uccidendo Pretorius e la "promessa sposa": mette fine alla sua esistenza di "diverso".
Il barone Frankenstein, perdonato dal "mostro", si allontanerà nella notte con la moglie portando con sé il peso della propria colpa: essersi sostituito a Dio ed avere creato l'altra faccia dell'esistenza.
Sul film aleggia un moralismo a tratti perverso; Whale non fa mistero del suo amore per il "mostro" e del rancore che porta alla scienza e alla norma; sembra dire che solo un cieco può accogliere nella sua solitudine la bruttezza o la deformità, tutti gli altri denunciano la loro pochezza comunitaria rimanendo ancorati all'apparenza.
Un po' troppo partecipati, anche se volutamente grezzi, appaiono gli omicidi del "mostro". L'intero film è pervaso da una specie d'innocenza cattiva dove ognuno è specchio della propria coscienza o della rinuncia dell'identità piegata alla sacralizzazione d'un silenzio sfigurato, deforme, mostruoso dove si è allo stesso tempo vittime e carnefici.
L'antagonismo che nasce tra il "mostro" e la "sposa" è un atto d'amore mancato. Il rifiuto repellente di qualcuno o qualcosa che trasfigura ciò che appare come riproduzione del codificato è il segno di sottomissione alla circolarità del cerimoniale estetico, alla scenografia del "normale" canonico. La funzione eversiva del "cinismo sessuale". Whale la imprime nel rifiuto della "sposa" di amare il "mostro". Conferma qui che la "diversità" è una prigione: "la cosa migliore è non essere nati, altrimenti, morire presto" (16).
Una certa misoginia sparsa nei film di Whale, l'ambientazione di stampo teatrale (abbastanza lontana dall'Espressionismo cinematografico tedesco), l'illuminazione precisa dei volti e dei corpi, l'attoralità marcata, piuttosto accentuata nei momenti di tensione psicologica sono gli attrezzi espressivi correnti nel cinema dell'americano; la sua grandezza non ebbe possibilità di evolversi, produrre film della devianza; l'omosessualità di Whale andò a cozzare contro il costume, l'estetica del controllo di Hollywood e dopo La moglie di Frankenstein non gli fu dato modo di lavorare e negli anni successivi tornò qualche volta al cinema per cose alimentari.
Jimmy Whale venne trovato morto nel fondo della sua piscina nel 1961. A volte ci si uccide semplicemente per stanchezza di un mondo troppo imbecille, indegno di essere vissuto.
La via del suicidio sembra essere l'unica soluzione alla "diversità" data dalla macchina/cinema hollywoodiana all'interno dello schermo catastrofico/avveniristico della mostruosità profetizzata dal "New horror USA" (17). Qui le aspettative dell'ostentazione dell'osceno mostruoso sono tutte confermate. A detronizzare il fantastico di "Frankenstein" e dei suoi fratelli, le ombre minacciose dell'Espressionismo tedesco degli anni '20, i miti devianti della "Universal" (1939/1946), lo spettacolo della paura nella produzione inglese dal 1951 al 1964 fino all'apogeo della "mostruosità" come antagonismo sociale della "Hammer-Film" (1968/1976) pensano gli autori rampanti del terrore spettacolare americano; ad es., Tode Hoope (Poltergeist, 1982), George A. Romero Zombi (Dawn of the dead!, 1978), Paul Schrader Il bacio della pantera (Cat people, 1982), John Carpenter La cosa (The thing, 1982). Qui si gioca con il terrore degli effetti speciali per coprire gli eccessi del terrore quotidiano.

Dalla pattumiera della storia
Nel "New horror USA" la mostruosità del fantasma, lo scarto immaginario, la maschera che si offre alla ghigliottina del sociale; lo schermo diviene la cornice della confessione, la scena oscena dove il lavoro primario del linguaggio filmico è la cancellazione del "diverso", bestia, cosa o sogno che rappresentano la metafora/perturbazione della favola impermeabile del conforme. I demoni di Dostoevskij circolano tra noi; il "diverso" assume su di sé "l'immagine del rapace che irrompe tra gli animali da cortile e risveglia in essi gli istinti sopiti. Irrompendo nella quotidianità" (18). Prendere i propri incubi sul serio significa entrare nella realtà dalla parte dell'apocalisse.
Fra tanta mediocrità orrorifica del cinema USA si colgono un paio di cose interessanti, Un lupo mannaro americano a Londra (An american werewolf in London, 1982) di John Landis e The elephant man (1980) di David Linch.
Landis, autore ampiamente sopravvalutato per il film demenziale Animal house (1978) e per la "soap-opera" rock The blues brothers (1980) in Un lupo mannaro americano a Londra riesce a raccontare con impressionante ironia e lucido pessimismo la storia di un perdente. Cosi Landis: "...l'intenzione era di trattare un soggetto soprannaturale, e dunque un soggetto fondamentalmente assurdo, in un modo del tutto normale... L'idea era, se un tuo carissimo amico dovesse telefonarti e dirti, - "Ho un problema molto serio. Dobbiamo parlarne" -, e tu andassi ad incontrarlo in un ristorante e lui ti sedesse di fronte e dicesse, - "Senti, è una cosa seria. Ieri notte mi sono tramutato in un lupo, ho ucciso sei persone dilaniando loro la gola" -, cosa risponderesti?... Non lo prendiamo sul serio; l'intenzione era di trattare il tema in modo normale, e questa è la ragione per cui è diventato divertente - l'orrore è diretto, e alquanto orrifico. Ma la risposta della gente a quel che vi accade è di divertimento" (19).
Il film si compone di momenti di frizzante humour ad altri brani di "terrore" elaborato (gli omicidi dell'uomo-lupo e il trucco della trasformazione). Anche l'amore non riuscirà a vincere contro il destino di "diverso" dell'uomo-lupo; sotto l'influsso del plenilunio uccide poi torna uomo fra la gente ma nell'impossibilità di tornare/essere "normale": "ora belva sanguinaria a quattro zampe, ora povero corpo ignudo che batte i denti per il freddo. Il risultato è un mito giovanilistico riproposto con divertita tenerezza e limpido pessimismo" (20). I fucili dei "corpi speciali" della polizia inglese riportano alla realtà, massacrano il "mostro" e abbiamo la sensazione netta che quella esecuzione è una prova generale, un rimando a fucilazioni sommarie di altri "mostri clandestini" (magari dell'Irlanda sovversiva).
"La nostra epoca devastatrice, che distrugge tutto, non risparmia neanche i bar" (Luis Buñuel), come non può condannare la "diversità" alla morte? La devastazione dell'immaginario collettivo è il terreno lavorato della consuetudine: si uccide la "mostruosità del vero" per tacere delle possibilità di cambiamento dello scenario quotidiano.
The elephant man è la biografia di John Merrick, l'"uomo-elefante" vissuto nella seconda metà dell'800; la sua vita disperata ci è stata fatta conoscere attraverso le memorie del dott. Frederick Treves pubblicate nel 1923.
Linch riesce, senza compiacimenti figurativi, a comunicare il dolore di Merrick; prima come fenomeno da fiera, poi come caso clinico da studiare nelle università (21). L'incontro del "mostro" con il dott. Treves permette di entrare più dentro nel carattere di quest'uomo storpio, semi-paralitico, con la faccia e buona parte del corpo devastati da escrescenze tumorali; così scopriamo che sotto la "mostruosità" di Merrick vive un uomo sensibile alla cultura, alla conoscenza della vita, dell'amore con gli altri... nel pieno delle sue facoltà mentali Merrick si dà la morte all'età di 27 anni. Aveva conosciuto i reali d'Inghilterra, attrici di teatro gli dedicarono i loro lavori, l'aristocrazia vittoriana lo degnò della sua pietà contenuta; Merrick era comunque un reietto, l'increscioso "oggetto mostruoso" che incrinava la facciata conviviale.
Il film è girato in un ricco bianco e nero, a tratti anche troppo goduto. Lynch non cade mai nel patetico né si lascia prendere la mano dall'estetica del deforme e fabbrica il ritratto di una vita offesa, straordinaria.
Al cinema (come nella vita) il "diverso" è segnato da caratteri eminentemente spettacolari. È difficile cogliere sulla tela la violenza, la follia, la deformità di un dolore senza rimedio; sullo schermo (come nella vita) l'apparenza è la maschera dove il paternalismo istituzionale e il filantropismo cristiano muovono facili lacrime e innaffiano "premi Oscar".
L'assurdo, l'orrido, il mostruoso sono imprigionati in vezzi estetizzanti, folcloristici, banali che l'utenza mercantile dell'immagine utilizza ampiamente come intrattenimento o didattica dell'eliminazione del "diverso" sulla faccia del sociale.
Cinema della Diversità è ciò che turba, inquieta, rompe con le attese del reale illusorio diffuse dallo schermo mercantile; sopprimere il "diverso" è eliminare la trasgressione, l'esistenza di un pensiero tragico, il proprio doppio osceno che infrange tutti gli specchi della quotidianità per essere ucciso nella coscienza di tutti.
E ogni morte è la fine di una confessione o il diario eretico di una imposizione. I corpi "diversi" colano putridi dalla pattumiera della storia.

(1) André Breton e Paul Eluard: L'immacolata concezione, Forum 1968, pag. 109.
(2) Max Stirner: Il falso principio della nostra educazione/Le leggi della scuola, Anarchismo 1982, pag. 38.
(3) Sergio Quinzio: La croce e il nulla, Adelphi 1984, pag. 224.
(4) Alberto Boatto. Cerimoniale di messa a morte interrotta, Cooperativa Scrittori 1977, pag. 36.
(5) Per la trattazione della "diversità" come sovversione sociale vedi: Né Cinema né Capitale di Pino Bertelli, Tracce 1982.
(6) Herbert Marcuse: Psicanalisi e politica, Laterza 1968, pag. 13.
(7) André Breton e Paul Eluard: op. cit., pagg.93/94.
(8) Vedi: Il cinema/Grande storia illustrata, vol. I, De Agostini 1981, pag. 169.
(9) Sigmund Freud: Al di là del principio del piacere, Newton Compton 1974, pag. 137.
(10) Vedi: Storia del cinema dell'orrore di Teo Mora, Vol. I, Fanucci 1977, pag. 180. La copia del film che noi abbiamo visto era notevolmente più corta (64 minuti) delle pellicole di normale distribuzione (90 minuti). Le molte mutilazioni sono evidenti. Il massacro di Freaks dovuto alla mente mercantile del bottegaio "MGM" Irving Thalberg non riesce comunque ad intaccare l'insieme di un film di grande bellezza morale.
(11) Ibidem: pag. 181.
(12) Ibidem: pag. 181.
(13) Ibidem: pag. 132.
(14) Il segmento dell'affogamento della bambina è stato tagliato dalla produzione; l'effetto dei cerchi nell'acqua ha però fortificato l'innocenza infantile del "mostro".
(15) Gilles Deleuze: L'immagine-movimento I, Ubulibri 1984, pag. 138.
(16) Friedrich Nietzsche: Verità e menzogna, Newton Compton, pag.72.
(17) Vedi la monografia di "Cinema & Cinema": La cosa di questo mondo/Il new horror USA, gennaio-marzo 1983.
(18) Sergio Givone: in Illustrazione Italiana, Dicembre 1984, n. 20.
(19) Vedi: Cinema & Cinema, gennaio-marzo 1983, pag. 24, op. cit.
(20) Tullio Kezich: Il nuovissimo millefilm/Cinque anni al cinema 1971/1982, Mondadori 1983, pag. 228.
(21) Un film molto diverso da questo di Lynch, L'enigma di Kaspar Hauser (Jerde für sich und Gott gegen Allettrad, 1974) di Werner Herzog, si pone anch'esso dalla parte del "diverso" e giunge a dire con più forza di The elephant man che la violenza della norma è la pelle abituale della realtà. Ne parleremo più diffusamente nella II parte.