Rivista Anarchica Online
Arcipelago scuola
di Fausta Bizzozzero / Massimo Panizza
È ora la volta degli studenti. Dopo aver affrontato, sul penultimo munero, alcuni aspetti dell'arcipelago scuola (problematiche dell'insegnamento, "inserimento" degli handicappati) sentiamo alcune voci di studenti. Abbiamo posto una serie di domande a studenti e studentesse estranei all'ambiente anarchico, per cercare di capire quali aspettative in genere sono legate alla scuola, come la si vorrebbe, che grado di insoddisfazione ed eventualmente di volontà di cambiamento ci sono. Con quattro studenti anarchici, invece, abbiamo discusso del senso e delle concrete possibilità di un intervento anarchico nella scuola attuale. Dall'insieme di questo materiale emergono alcuni spunti interessanti, perlopiù solo abbozzati. Il discorso, evidentemente è ancora tutto da sviluppare. A noi interessa portarlo avanti: sarà possibile farlo, sui prossimi numeri, solo se chi dentro la scuola opera, insegna, studia, lotta, ecc., si farà vivo con noi, scriverà la sua esperienza e le sue riflessioni, concorderà i tempi e modi di una collaborazione che riteniamo indispensabile.
La scuola,
secondo me
Arcipelago scuola, "A" 125": abbiamo solo lanciato una manciata
di sassi, cercando di colpire, di segnalare, di scoprire alcuni punti
nevralgici di un argomento enorme, importante, attuale. Anche perché
numerosi indigeni della tribù anarchica abitano quell'arcipelago sia
come studenti sia come insegnanti.
Vorremmo sottolineare che il dibattito è soltanto aperto, che "A"
vuole essere una grande tavola per parlare e per portare esperienze e
dubbi. Tutto può servire a farci sentire più forti e più preparati
per operare concretamente all'interno o all'esterno di una
istituzione che attraversiamo per un po' di anni, tutti quanti.
Allontanandoci dall'arcipelago ci era rimasta un po' di amarezza e
anche un briciolo di arrabbiatura: purtroppo nessun sasso è finito
su quel grande scoglio, rissoso e brulicante, abitato dagli studenti.
La nostra mira ha fatto fiasco su di un bersaglio importante e
nessuna luce è stata fatta sui reali fruitori della scuola.
Finalmente alcuni studenti delle superiori (scelti perlopiù tra
giovani e politicamente non impegnati) si sono decisi a parlarne. Le
loro risposte rivelano un'enorme fatica e le parole scorrono
trasparenti su stati d'animo vacillanti e incerti, come se ci
pensassero per la prima volta. D'altra parte è chiaro che,
funzionando da parcheggio, la scuola superiore è a tutti gli effetti
un'appendice della scuola dell'obbligo, la scelta è obbligata: non
scelta, ma condizione "sine qua non". Perché mai chiedersi sulla
sua utilità? Chi si è mai chiesto dell'utilità della mamma dopo
essersene allontanato?
Così nella vita di un adolescente la scuola è un percorso
obbligato che conduce al "successo" o comunque ne fa intravvedere
il miraggio. La si ritrova e la si accetta così com'è, senza grosse
pretese, tentando di viverla il meno possibile.
Alla domanda "Perché vai a scuola" Elena risponde seccamente:
"Perché devo, perché senza il mio pezzetto di carta non andrei
molto lontano". E inoltre afferma: "La scuola oggi non prepara
assolutamente al lavoro e del resto non potrebbe, non avendo nessun
contatto con esso". In realtà prepara al lavoro più di quello che
si pensa, prepara i "factotum" del futuro: che importa essere
specializzati quando la coscienza è pronta ad ubbidire. C'è poi chi
come Claudia, ha delle incertezze: "Forse perché mi piace
imparare, forse per ritardare il problema di non trovare il lavoro,
forse perché penso che studiare offra prospettive migliori che non
farlo". E l'incertezza è la sensazione che più o meno provano gli
studenti degli anni '80. Massimiliano centra involontariamente il
problema: "La scuola è il luogo di formazione dei giovani, futuri
cittadini del nostro tempo, tutto sta nel modo in cui le istituzioni
statali adempiono a tale compito", ma si guarda bene dal mettere in
discussione tale funzione.
L'unico che riesce a vedere al di là di un significato di una scuola
specializzante o preparatorio alla società è Christopher di 15
anni. Dice: "La scuola per molti giovani è solo un'alternativa al
lavoro. In effetti nel primo anno di corso la pensavo anch'io così.
Successivamente ho cominciato a vedere la scuola come un'esperienza
di vita necessaria che serve per prepararmi al futuro, ma non tanto
per quanto riguarda la cultura quanto la preparazione umana. A scuola
incontro molte persone, ascolto diverse opinioni e faccio sentire la
mia. Una scuola formativa quindi, che dovrebbe fornire una
preparazione di base, che dovrebbe preparare alla vita, ma anche al
lavoro".
C'è chi sostiene che tutto funziona, a parte qualche piccolo e
ridicolo dettaglio, e chi sostiene che non funziona affatto, come
Elena: "Io trovo che il problema stia nel fatto che la scuola non è
al passo coi tempi. Le materie insegnate, in particolare quelle
tecniche, sono "vecchie" nel senso che al di fuori i metodi
insegnati non sono più usati. Inoltre gli stessi professori non
sempre sono all'altezza del ruolo che occupano". Ricorre il
desiderio di una conoscenza più ampia, meno parcellizzata e più
qualificata, non affidata solo a professori spesso incompetenti, ma
anche ad esperti esterni o anche, come propone Massimiliano, a gruppi
di lavoro studenteschi autogestiti.
In modo timido ed impreciso fa comunque capolino dietro alcune
risposte il desiderio di una scuola aperta non staccata dalla società
e dalla vita, una sorta di scuola-laboratorio dove dovrebbe cambiare
anche il rapporto professori-studenti. Dice Claudia: "È
un rapporto di dipendenza, il professore è il giudice (..). Io
vorrei che questo rapporto diventasse un rapporto di collaborazione
che tenesse conto dell'individualità di ogni persona". Anche Elena
è d'accordo: "È un rapporto di non-uguaglianza, di paura e di
diffidenza (perché in qualunque modo si presenti il professore è
sempre visto come la parte avversaria). Io vorrei un rapporto basato
sulla stima reciproca, vorrei essere considerata come una persona
adulta, capace di imparare e di fare". Christopher è decisamente
più scettico sulla possibilità di un rapporto diverso: "Di solito
l'alunno ha un certo timore del professore perché in fondo è pur
sempre colui che dà i voti. Inoltre sono pochi quegli insegnanti che
riescono a suscitare un diverso tipo di interesse negli alunni.
Vorrei invece un rapporto più aperto che non si limiti al voto o
all'ambito scolastico". Il
problema del voto, della valutazione, è forse il più spinoso, il
più bruciante. A parte quelli come Christopher, già perfettamente
inquadrati e incapaci persino di immaginarsi una situazione diversa
("Penso sia l'unico metodo possibile"), le posizioni sfumano da
Massimiliano che critica la meritocrazia, ma vorrebbe una scuola
livellatrice, a Luisa che si domanda: "Su che criterio ci si basa
per dare un giudizio? Siamo sempre sicuri che sia giusto? (...)
Perché allora non cambiare metodo?". E qui casca l'asino perché
Luisa fa marcia indietro e propone, invece di cambiare metodo, di
cambiare i professori. Come se servisse a qualcosa! Ma anche a
Claudia ed Elena il voto e la valutazione appaiono come
insostituibili. Dice Claudia: "Non mi sembra giusto, ma non so
proporre metodi alternativi" e ribadisce Elena: "È
un'imposizione sbagliata perché ognuno dovrebbe essere premiato per
il massimo sforzo che compie nel fare una determinata cosa". Anche tra le
persone più sensibili tra quelle che hanno risposto, quindi, si può
arrivare a criticare le basi su cui la scuola è fondata, persino il
concetto stesso d'autorità, ma al di là c'è il terreno inesplorato
dell'utopia. Ci sono, sì, desideri appena abbozzati, ma presto
ricacciati indietro dalla convinzione profonda e radicata che nulla è
modificabile. E allora tanto vale non pensarci, non tentare neppure
di dar corpo a questi desideri per farli diventare progetti, e
accettare oggi, con incertezza e con insoddisfazione, la scuola
com'è, per poi accettare domani il lavoro com'è e la società
intera così com'è. Non è triste?
Contro la scuola, come?
Michele (18
anni), Pietro e Davide (entrambi sedicenni) sono liceali, mentre
Luisa (20 anni) si sta preparando per entrare all'Accademia. Fanno
tutti parte del Collettivo Studenti Anarchici di Milano, che si
riunisce tutti i lunedì pomeriggio presso la libreria Utopia (via
Moscova 57, tel. 652324). Il Collettivo esiste da diversi anni,
caratterizzato dall'avvicendamento piuttosto veloce della maggior
parte dei suoi componenti. Che cosa pensano della scuola? Come la
vivono? Che cosa è possibile fare concretamente? Ecco il resoconto
della mini tavola-rotonda.
Voi siete
anarchici e in questo periodo della vostra vita siete studenti,
quindi trascorrete buona parte della vostra giornata all'interno
della struttura scuola. In che cose si esplica il vostro anarchismo
in queste ore?
Michele -
Esplico il mio essere anarchico nella scuola propagandando i miei
ideali in vari modi. Il manifesto anarchico non è mai mancato, come
pure la vendita delle riviste e la diffusione saltuaria della
letteratura libertaria. Intervengo spesso nelle assemblee e spesso mi
impegno personalmente per organizzarne. Purtroppo, però, debbo dire
che alcuni anni fa un mio tentativo di formare un gruppo anarchico
all'interno della scuola è fallito. Da allora la sensibilizzazione
rispetto alle tematiche libertarie è avvenuta nei confronti delle
persone che continuativamente hanno comprato la rivista e che pur
dall'esterno mostrano interesse per ciò che dico e per quello che
leggono. Credo che in questi anni il mio lavoro abbia avuto una
funzione culturale più che politica, e comunque quando sono
interpellato su notizie storiche del movimento o mi vengono richiesti
libri e altre pubblicazioni mi rendo conto di non aver faticato
inutilmente. La vita scolastica
quotidiana mi pesa perché sono costretto a sottostare alle regole e
alla disciplina imposta. A parte questo, non perdo occasione di
manifestare le mie idee nei temi, nelle discussioni, in vari ambiti e
in varie materie e devo ammettere di aver avuto a che fare con
insegnanti interessati e comunque non prevenuti rispetto al mio
pensiero e al mio impegno.
Davide - Mi
sembra importante innanzitutto chiarire le idee e i principi
anarchici perché troppo spesso mi rendo conto dell'ignoranza
esistente sull'argomento. A tale scopo più della divulgazione del
manifesto e degli interventi in assemblea mi sembrano importanti le
discussioni in classe in presenza degli insegnanti; ii coinvolgimento
è meno limitato e la gente si trova a dover giustificare la propria
posizione anche se difficilmente ci riesce.
Pietro - Ho
iniziato l'attività politica nella scuola da solo in occasione delle
ultime elezioni per i Decreti Delegati. Da quel momento ho cercato di
portare avanti, parallelamente all'informazione sul movimento, un
discorso nuovo sul significato della politica, intesa non come
politica ufficiale, istituzionale, ma come modo di vivere della
gente. Mi sembra importante parlare di qualità della vita e
stimolare la coscienza della gente in modo che il rifiuto di questa
società malata avvenga spontaneamente e sia sorretto da reali
alternative. Perciò mi impegno molto nelle discussioni individuali
con studenti di idee disparate perché sono convinto dell'utilità
dello scambio di idee e della libertà d'opinione.
Michele -
Sono senza dubbio da rivedere certe metodologie di intervento, senza
però voler gettare all'aria quello che è stato un patrimonio
conquistato con fatica. Tentare nuove strade senza sapere con
chiarezza dove portano può essere pericoloso, perciò deve essere
mantenuta una certa continuità con la nostra storia precedente.
In passato,
soprattutto nel settore della scuola, si è giustamente distrutto
tutto ciò che era da distruggere ma non c'è stata la capacità di
costruire nulla. Mi sembra che oggi sia necessario partire da questo
presupposto per agire diversamente, perché se non si è in grado di
proporre alternative concrete anche i discorsi più belli lasciano il
tempo che trovano. Voi fate parte di un collettivo di studenti
anarchici. Avete discusso della funzione della scuola, di possibili
interventi al suo interno?
Michele -
Purtroppo quello che è mancato nei collettivi studenteschi di questi
anni è proprio il collegamento con la realtà scolastica. Il luogo
dove passiamo molte ore della nostra giornata non è oggetto di
discussione a parte alcuni interventi troppo limitati in coincidenza
con le elezioni per i decreti delegati. È invece importantissimo
portare seri contenuti propositivi prima e dopo le elezioni per
cambiare radicalmente quello che non funziona. La pedagogia
libertaria è un altro argomento connesso alla scuola che purtroppo
viene poco trattato: nonostante a Venezia, nel corso dell'incontro
anarchico internazionale, durante il dibattito sulla pedagogia siano
emersi molti spunti interessanti da sviluppare, non ne è scaturita
nessuna discussione. Credo principalmente per la disomogeneità di
interessi all'interno del collettivo: spesso i problemi degli
studenti della media superiore sono assai diversi da quelli degli
universitari per cui diventa forse più facile trattare temi che
riguardano meno la quotidianità e che comunque ci toccano vivamente
come l'antimilitarismo o l'antinucleare.
Non può esserci
dietro un atteggiamento mentale di rifiuto di occuparsi di qualcosa
che viene vissuto come inevitabile e immodificabile?
Pietro - Gli
studenti non rifiutano la scuola, ma la critica della scuola. I
momenti assembleari sono vissuti in maniera impersonale,
difficilmente si parla di politica quotidiana, di cambiamenti della
realtà più vicina. Nonostante siano insoddisfatti, gli studenti
captano passivamente i riflessi della politica ufficiale e delegano
involontariamente al grande apparato statale. E l'inversione di
tendenza nella scuola del riflusso non si è certo fatta attendere. Quando ci siamo
preparati per sostenere una assemblea e sviscerare i problemi di
tutti i giorni nessuno studente ha partecipato. Infatti lo studente
in questi anni è totalmente acritico, pensa allo sport e al
successo. La scuola è solo il gradino, il passaggio sgradevole, il
pedaggio che bisogna pagare per accedere ai vertici. Unico obiettivo
è la realizzazione esteriore. Lo studente è consapevole di ciò che
non funziona, ma cambiare è troppo faticoso e sussiste il timore di
cambiare in peggio. Inoltre gioca un ruolo importante l'immagine che
lo stato è riuscito a proiettare sfruttando degenerazioni dei
movimenti rivoluzionari.
Davide -
Purtroppo la scuola abitua gli studenti al passivismo. La cultura
viene calata dall'alto sovente sotto forma di sterile nozionismo e
non avvengono scambi tra studenti e insegnanti. Lo studente si abitua
a subire, a parare i colpi, a sopportare.
Michele -
Non è da sottovalutare il clima esterno alla scuola, la triste
tranquillità a tutti i livelli della società. Non esiste più
conflittualità nel terziario; nei quartieri non esiste più
l'interesse a creare qualcosa di proprio, per non parlare delle
fabbriche; Craxi si dichiara soddisfatto del minimo storico di
conflittualità raggiunto durante il suo governo. Tutta la cultura
che permea la società è profondamente mutata.
Pensate sia
possibile modificare la scuola? E come vi immaginate una scuola
diversa che trasmetta le conoscenze?
Michele - Mi
sento vicino ai tentativi di scuola sperimentati dagli anarchici.
Queste esperienze non sono certo prive di contraddizioni e di errori
però sono preziosi esempi di pratica dei principi ispiratori della
pedagogia libertaria. È importante che gli studenti imparino le
regole necessarie alla convivenza civile ma non in termini
impositivi, bensì come conseguenza di una individuale presa di
coscienza e di un crescente senso di responsabilità. L'istruzione
non dovrebbe servire solo a produrre tecnici, professionisti o
professori, ma dovrebbe costituire il tramite per l'acquisizione e la
pratica dell'integrazione tra lavoro manuale e intellettuale. Solo
utilizzando metodi libertari, non codificabili (perché continuamente
ridiscussi e rielaborati) si potrebbero creare individui liberi, non
necessariamente anarchici, ma persone capaci di scegliere e di
vivere. Così è
significativo un rapporto diverso tra studente e professore nello
scambio delle conoscenze e altrettanto significative sono le
esperienze extrascolastiche che dovrebbero contribuire a dare
vitalità e colore allo studio e alla ricerca. Penso che questo sia
lo scheletro per una scuola parallela che in futuro - chissà - potrò
magari realizzare con qualcun altro interessato ad un lavoro di
questo tipo. Certo, come tutti i tentativi precedenti, comporterebbe
difficoltà enormi ma Neill, Ferrer e gli altri ci insegnano che
nulla è impossibile anche in questo campo. Per quanto riguarda
l'istituzione scuola è necessario far valere la propria presenza
cercando di proporre, di cambiare. Ogni cambiamento, anche piccolo,
può essere significativo, ogni sollecitazione smuove l'aria pesante
che si sta ricreando nella scuola del riflusso.
Secondo voi gli
studenti hanno sete di conoscenza?
Luisa - Il
desiderio di conoscere esiste ma si scontra con l'imposizione del
sapere. Io ho finito il liceo da poco tempo e mi ritrovo a riprendere
in mano in maniera completamente diversa cose che per cinque anni ho
registrato passivamente, ma ricordo che anche quando ero al liceo
quando ero stimolata dall'interesse studiavo solo per me e non per il
voto. La scuola è una piccola parte di una struttura molto più
grande e quindi non è possibile pensare di cambiarla dall'oggi al
domani. Però già nel rapporto che io posso avere con questa
struttura posso innescare un processo positivo. Credo che
l'importante sia sfruttarla per ciò che può dare rifiutando
tranquillamente quello che non va. È chiaro che un tale
atteggiamento comporta delle conseguenze. Si tratta di avere il
coraggio di accettare.
Michele -
Tutti i cambiamenti costano. Ogni volta che ci si trova di fronte una
controparte bisogna mettere in conto le ferite prima ancora di
intraprendere una lotta. Secondo me, comunque, parallelamente al
discorso culturale è necessaria ogni tanto l'azione dimostrativa, il
gesto simbolico che scuote l'andamento tranquillo della vita
scolastica in modo che tutti gli studenti abbiano almeno la
possibilità di sensibilizzarsi.
Luisa - È
importante comunque prendere atto di un cambiamento della realtà
scolastica piuttosto che rapportarsi al passato rivoluzionario.
L'opposizione che si può portare avanti oggi è più difficile
perché è individuale e non di massa, perché bisogna agire in prima
persona e non si è protetti dagli altri.
Michele - La
controinformazione rimane un mezzo importante soprattutto per
difenderci dal bombardamento a tappeto dei mass-media. Certo noi coi
nostri problemi economici non abbiamo mai potuto permetterci mezzi di
informazione adeguati, ma proprio per questo non dobbiamo buttare a
mare i "vecchi" mezzi (il volantino, il manifesto, ecc.),
né i "vecchi" metodi di lotta, perché questi e quelli
conservano una grande dignità e un alto valore umano, perché frutto
di una scelta di non-compromesso col sistema.
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