Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 126
marzo 1985


Rivista Anarchica Online

Io sottoscritto Gianfranco Bertoli
di Gianfranco Bertoli

In una lucida lettera al giudice Nunziata, Bertoli protesta per il blocco della corrispondenza, rivendica la sua identità anarchica, ribadisce la sua condanna degli attentati dinamitardi

Era ancora fresco di stampa lo scorso numero della rivista, quando abbiamo appreso che a partire dal 15 gennaio tutta la corrispondenza da e per Gianfranco Bertoli, detenuto nel carcere di Porto Azzurro, viene bloccata ed inviata sul tavolo del sostituto procuratore Claudio Nunziata, responsabile - tra l'altro - delle indagini sulla strage nella galleria ferroviaria Firenze-Bologna il 23 dicembre scorso. Proprio sullo scorso numero della rivista abbiamo pubblicato, su quella strage e più in generale sulla logica che sottende le stragi che da oltre un quindicennio insanguinano l'Italia, un lucido intervento dello stesso Bertoli.
Il provvedimento amministrativo disposto dal giudice Nunziata, pur limitato nel tempo (dovrebbe durare 40 giorni), è assurdo, inaccettabile, offensivo. In un comunicato pubblicato su Umanità Nova abbiamo subito protestato invitando i compagni ed i gruppi ad inviare telegrammi di protesta all'indirizzo del giudice (Claudio Nunziata, Palazzo di Giustizia, 40100 Bologna). Qualsiasi tentativo di collegamento, per quanto vago ed indiretto, del nostro compagno (e collaboratore) all'infame strage dell'antivigilia di Natale è inaccettabile. Non è superfluo sottolineare che il provvedimento firmato dal giudice Nunziata è stato di poco successivo alle note dichiarazioni del socialista Formica che, all'indomani della strage nella galleria, definì Bertoli "uomo dei servizi segreti" ed anello di congiunzione (in quanto unico "stragista" arrestato) tra le numerose (e, per quanto riguarda autori e mandanti, misteriose) stragi succedutesi in Italia da piazza Fontana in poi.
La difesa di Bertoli, in vista di possibili azioni giudiziarie volte a tutelare la sua identità ed a sconfessare ancora una volta le falsità e le calunnie sul suo conto, è stata assunta dall'avv. Alfredo Salerni, militante del gruppo "Malatesta" della Federazione Anarchica Italiana.
Ecco il testo dell'istanza che, una settimana dopo l'inizio del blocco della sua corrispondenza, Bertoli ha inviato a Nunziata. Al di là della pur significativa questione oggetto dell'istanza, si tratta di un documento di notevole contenuto umano, etico e politico.


Preg.mo Dott. Claudio Nunziata Sost. Procuratore della Repubblica, Bologna

Sono Gianfranco Bertoli, nato a Venezia il 30 aprile 1933, condannato all'ergastolo per il tragico attentato di cui mi sono reso responsabile il 17 maggio 1973, lanciando una bomba davanti alla Questura di Milano in occasione della commemorazione del commissario Luigi Calabresi.
Non sono tanto ingenuo da non rendermi conto di come, nei confronti di un individuo del mio genere, un magistrato, seppur istituzionalmente tenuto all'imparzialità, ben possa nutrire una istintiva ostilità. Ritengo, anzi, possibile che sul piano emotivo Ella, come tanti altri, sia stata fra coloro che, al tempo della tragica vicenda di cui sono stato protagonista, si sono rammaricati che le leggi italiane non prevedessero la pena di morte, ritenendo quella dell'ergastolo troppo mite. Non è, però, per tentare di accattivarmi la Sua simpatia che mi sono permesso di importunarla con questa lettera. Questo anche perché credo che nessun magistrato possa permettere a se stesso di cercare di andare troppo a fondo nel comprendere l'animo umano e le intime motivazioni di tutte le azioni penalmente perseguibili per l'ovvia ragione che, se facesse questo, non gli sarebbe, forse, moralmente più possibile condannare nessuno. Ciò su cui spero di poter contare è nella di Lei equità e nella pura e semplice onestà intellettuale, doti che, pur non conoscendola, credo le vadano riconosciute.
La mattina del 24 dicembre scorso, in seguito ad una disposizione che mi è stato detto essere stata impartita da Lei, la cella da me occupata nel penitenziario di Porto Azzurro è stata sottoposta ad una perquisizione straordinaria. L'operazione in sé (condotta, peraltro con molta correttezza da parte dei sottufficiali che se ne sono occupati) non poteva particolarmente turbarmi. Mi trovo, infatti, in carcere da circa dodici anni e a queste cose ho fatto l'abitudine. Le confesso però di essere rimasto profondamente scosso, psicologicamente amareggiato e profondamente ferito dal fatto che questa perquisizione fosse stata decisa in relazione al grave attentato perpetrato la sera prima con i viaggiatori del rapido Napoli-Milano.
L'aver preso questa decisione nei miei riguardi, implica la postulazione di una ipotesi, quella di una possibile connessione tra me e chi può aver effettuato quella strage, che non mi pare sia logicamente sostenibile e che recepisco come insultante. Un magistrato ha, come ogni altro essere umano, il personale diritto di disprezzare o di odiare un individuo a cagione di quello che costui può aver commesso, ma non ha, credo (ed a maggior ragione perché le leggi gli offrono la forza e i mezzi di poterlo fare) il diritto morale di infliggere ingiustificate afflizioni aggiuntive, che si risolvono in forme di persecuzione, ad un condannato che già sta espiando la pena che le leggi in vigore stabiliscono per quello che lui ha fatto. Chi sconta un ergastolo per gravi che siano state le sue colpe, è pur sempre un uomo ed un uomo che soffre. E chi soffre, ha il diritto ad un minimo di rispetto.
Io mi sono reso responsabile di una strage; è vero. Ma, Sig. procuratore, anche se uniformati, sotto il profilo della sanzione giuridica che un certo tipo di fatto-reato prevede, da una comune denominazione, non tutti i delitti che vengono indicati con lo stesso nome sono la stessa cosa. Non è un procedimento logicamente valido (ed, anzi, è una forma di ragionamento che conduce a "fallacia sofistico" quello di unificare "in assenza" cose ed eventi che hanno tra loro solo un'unità "accidentale", certi effetti e/o una contiguità storico-temporale). Io, quel 17 maggio 1973, ho lanciato una bomba a mano, non ho deposto una bomba ad orologeria. Sono andato davanti ad una questura, in occasione di una specifica circostanza, non ho fatto esplodere un ordigno in un treno. Quel giorno sono state colpite anche persone che si trovavano lì per caso, questo è vero. Ma è anche vero che io avevo lanciato la bomba che avevo con me in direzione di un gruppo di autorità civili e militari, ed è costoro che mi proponevo di colpire. Ciò non cambia nulla sul piano della responsabilità penale, né attenua molto la gravità sul piano etico, dell'aver scelto la violenza come modalità d'azione. Ma cambia molto rispetto ad una valutazione di quella che può essere la mia personalità e di quale sia il mio carattere, per rapporto a quella che può essere la "forma mentis" di chi mette delle bombe nei treni.
Sig. Procuratore, non ho il culto dell'eroismo e le dirò anche che non sono un individuo dotato dalla natura di un carattere particolarmente coraggioso. Non sono, però, neppure vile e soprattutto ho anch'io una mia etica e un mio codice morale. Questa mia particolare etica e questo codice morale non ammettono che un uomo possa arrivare a dare la morte senza contemporaneamente mettersi nella situazione di poter restare ucciso anche lui e, comunque, senza la certezza di pagare le conseguenze del suo atto.
Dopo aver subito quella perquisizione e superato il momento di abbattimento in cui ero caduto per quella che è stata per me una grave umiliazione, mi ero detto che ben poteva essersi trattato della interpretazione estensiva di una disposizione da Lei impartita nell'immediatezza del fatto e, pertanto, genericamente formulata. Il 14 c.m., però, mi veniva comunicato che, sempre dietro un Suo provvedimento e in relazione alle indagini sulla strage del treno, veniva disposto il sequestro di tutta la mia corrispondenza in arrivo e partenza, che doveva venire inviata alla Questura di Livorno e da lì al di Lei ufficio per venire controllata. A prescindere dal piccolo fastidio che ciò arreca inevitabilmente (a causa degli immensi ritardi della ricezione della posta che simile procedura comporta) ad un carcerato che ha come unico legame col mondo il tenue filo dei rapporti epistolari (privo di famiglia, ho potuto godere in dodici anni di soli tre colloqui), il fatto che le mie lettere possano essere lette da terzi non mi crea alcuna preoccupazione perché ne ho avuto l'abitudine per lunghi anni.
Ma, vede Dott. Nunziata, alle mie richieste di maggiori chiarimenti intorno alla motivazione di tale provvedimento, mi è stato detto che si trattava di una disposizione applicata a "tutti coloro che avevano appartenuto ad organizzazioni eversive che praticassero una strategia rivoluzionaria basata sulle stragi". In pratica, quindi, un ben circoscritto ambito di elementi che appartengono ad una precisa area. E, questa area mi pare non possa essere individuata che in quella dell'estremismo politico di ispirazione neofascista e neonazista. Con quella gente, Sig. Procuratore io ho tutto il diritto a non venire confuso e quello di elevare la più sentita protesta vedendomi accomunato a loro. E questo, sia sul piano giuridico-formale dato che mai nella mia vita ho subito condanne né incriminazioni per reati associativi, sia su quello di possibili sospetti perché mai ho appartenuto a partiti o a gruppi, anche legali, di estrema destra, mai ho intrattenuto rapporti epistolari con elementi riconducibili a quell'area. Inoltre, persino quando durante i lunghi anni che ho trascorso nelle "carceri speciali" mi sono trovato in istituti dove vigeva una separazione tra detenuti di diverse fazioni, mai sono stato collocato (e tanto meno ho chiesto di esservi!) nelle sezioni che ospitavano detenuti di estrema destra. Al contrario, ed in ragione del tipo di classificazione attribuitomi, sono sempre stato assegnato nelle sezioni riservate ai detenuti della sinistra. E ciò fino a quando, a causa dell'acuirsi di divergenze ideologiche, che non credo sia qui il caso di dettagliare ma che se Le interessasse conoscere potrà farlo agevolmente, per averle io esposte pubblicamente sulle pagine di giornali in libera vendita al pubblico, come "A-rivista anarchica" (n. 80, febbraio 1980 e n. 87 del novembre 1980) e il settimanale della Federazione Anarchica Italiana, "Umanità Nova" (n. 38 del 30 novembre 1980 e n. 3 del 25 gennaio 1981), ho preferito isolarmi anche da questo tipo di detenuti. È vero che, al tempo dell'attentato di cui mi sono reso responsabile, vi fu chi volle vedere in me un possibile fascista e che questa versione venne a lungo sostenuta con tanto impegno e da tante parti sino a diventare un luogo comune diffuso e consolidato. Ma si è trattato di illazioni ipotetiche, mai corroborate da risultanze oggettive e da dati di fatto. Al contrario, tutte, senza eccezione, le presunte "rivelazioni" con cui si pretendeva di puntellare quella tesi, caddero pietosamente, rivelandosi per quello che erano: fantastiche elucubrazioni e calunnie (non interessa qui se frutto di errore o di menzogna). Non ignoro neppure che, ancor oggi e contro ogni evidenza, vi è chi rispolvera certe insinuazioni e come questo sia stato fatto, recentissimamente, anche da un autorevole uomo politico (che probabilmente non si è curato di verificare l'attendibilità dei dati in suo possesso). Ma, Sig. Procuratore, una cosa sono i discorsi e le "verità di comodo" di chi fa il politico di professione e un'altra è la verità "tout court", alla quale compete, deontologicamente, di attenersi per un magistrato.
Ora, Preg.mo Dott. Nunziata, il tipo di argomentazione pseudo-logica con cui mi si è definito "fascista" si regge sull'affermazione che io sarei un "sedicente anarchico" e quest'ultima su quella che sarei un "fascista".
Ci troviamo, quindi, di fronte ad una forma classica di dimostrazione sofistica per "circolo vizioso", che appare, anche a chi sia del tutto digiuno delle più elementari leggi logiche, del tutto improponibile. L'etichetta di "sedicente anarchico" mi è stata appioppata ormai tante volte che è entrata nella consuetudine per molti giornalisti, al punto che nel linguaggio massmediatico io sono stato identificato quasi come il "sedicente" per antonomasia.
Ma, a ben vedere, chi può essere il più qualificato ad esprimere giudizi intorno alla sincerità della mia adesione all'idea anarchica? La risposta mi pare dovrebbe essere ovvia: gli altri anarchici! Bene, come può venire allora conciliata la sicumera con cui taluni persistono a negare la mia identità politica, col fatto che il mio nome appaia sistematicamente da anni su tutte le pubblicazioni del movimento anarchico, ogni volta che vi sono stati stampati elenchi di compagni detenuti? Come si spiega che io abbia avuti pubblicati miei scritti su diversi periodici del movimento anarchico e vi abbia anche collaborato con lavori di traduzione? Come si spiega che durante gli anni che ho trascorso, senza la possibilità di lavorare, nelle "carceri speciali" io sia stato sostenuto e aiutato con sottoscrizioni in mio favore, l'invio di libri e giornali, quello di pacchi di indumenti, da parte di anarchici e di gruppi anarchici, italiani e stranieri, se tutti costoro non credessero nella mia onestà e sincerità?
C'è stato, è vero, il mio essermi reso responsabile di un grave episodio di violenza ed è innegabile che i fascisti hanno una certa vocazione per la violenza ed hanno spesso fatto ricorso all'uso di esplosivi. Ma, come è noto sin dalla sillogistica aristotelica, una proposizione particolare affermativa, come potrebbe esserlo quella: "Vi sono dei fascisti che mettono bombe" non ammette una conversione del soggetto e del predicato ed una contemporanea trasformazione dei quantificatori (dal "particolare" all'"universale") dalle quali inferire legittimamente la conclusione: "tutti coloro che fanno uso di bombe sono fascisti". E inoltre: io ho lanciato una bomba, i fascisti hanno sempre messo delle bombe; non si tratta di una sfumatura priva di importanza, la differenza è essenziale. A proposito di dimostrazioni "dialleliche" (di presunte dimostrazioni, cioè; dove la sola prova dell'"explicans" viene ad essere l'"explicandum" stesso) K.R. Popper propone, in funzione esemplificativa, il seguente dialogo: "perché oggi il mare è agitato?" "perché Nettuno è molto arrabbiato". "Ma quale prova puoi portare a sostegno della tua asserzione, che Nettuno è molto arrabbiato?" "Oh ma non vedi come è agitato il mare? E il mare non è sempre agitato quando Nettuno è arrabbiato?".
Ecco, Sig. Procuratore, il tipo di inferenza deduttiva attraverso il quale si è arrivati ad affibbiarmi l'epiteto (per me altamente infamante) di "fascista" è dello stesso tipo di quello della citazione popperiana che ho più sopra riportata. La struttura logico-sintattica è la stessa, basta sostituire qualche termine.
Ora, Preg.mo Dott. Nunziata, io sono stato e rimango un anarchico. Non sono mai stato, né sono diventato un "fascista". Il mio gesto di violenza è stato compiuto individualmente ed è stato frutto di una decisione individuale. Non ho mai fatto parte di gruppi armati di nessun colore. Che cosa rimane allora per potermi ragionevolmente collegare con gli autori di una strage come quella del 23 dicembre? In passato ho teorizzato ed ho praticato la rivolta violenta, anche con l'uso di bombe. È vero, ma è anche vero che ho da sempre condannato senza ambiguità le particolari forme (e "a fortiori" le presumibili motivazioni) di attentati come quelli di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, del Treno Italicus, della stazione di Bologna e quello, ultimissimo, del rapido 904. Ciò non è tutto, sin dal 1979 (ben prima cioè che prendesse corpo il fenomeno delle dissociazioni e delle relative autocritiche di molti militanti della lotta armata) io ho pubblicamente dichiarato (cfr. il mio scritto "atti individuali e terrorismo" in "A-Rivista anarchica" n.74 del maggio 1979) di essere arrivato a ritenere che il mio gesto era stato sbagliato e che, in generale, la pratica degli attentati dinamitardi sia stata sempre eticamente deplorevole e politicamente inefficace in una prospettiva di lotta per l'emancipazione sociale. Si è trattato per me del risultato di un riesame assai lungo e sofferto di quelle che erano state le mie convinzioni passate e di cui avevo ritenuto doveroso rendere partecipi coloro che considero compagni per affinità ideali. È la prima volta, questa, che arrivo a fare un'ammissione del genere rivolgendomi ad un magistrato, persona che per il suo ruolo, non è abitualmente un interlocutore privilegiato per un anarchico.
Quanto vengo a chiederle, Sig. Procuratore, è di voler disporre la revoca del provvedimento di censura della mia corrispondenza, non fosse che anche un solo giorno prima della prefissata data di scadenza. Perché il tipo di afflizione morale che ha costituito per me vedermi sottoposto a quella misura in simili specifiche circostanze, oltrepassa di gran lunga il livello della più rigida concezione retributivo-punitiva della pena vista come vendetta.
Io ho ucciso e morirò in un carcere. Lo sapevo da prima e non me ne lamento. Ma, Sig. Procuratore, nessuno ha umanamente il diritto di andare oltre la pena che mi è stata comminata, a nessuno può essere moralmente lecito perseguitare gratuitamente e torturare l'animo di un uomo. La ringrazio per quello che il Suo buon senso e la Sua onestà le suggeriranno di fare e la prego accettare distinti saluti.

(Porto Azzurro,22 gennaio 1985)