Rivista Anarchica Online
La pace è
guerra
di Andrea Papi
"La guerra è
pace - La libertà è schiavitù - L'ignoranza è
forza". Questi i tre slogan del Partito del Grande Fratello, che
si potevano leggere stampati in eleganti caratteri sulla bianca
facciata dell'edificio piramidale del Miniver, cioè Ministero
della Verità in neo-lingua, così come sono esposti in
"1984", divenuto ormai simbolo universale del passaggio
all'era tecno-totalitaria. Giustamente, Orwell non ha mai inteso la
sua opera più famosa nel senso di una profezia, come invece da
più parti viene considerata, ma, molto più
sensatamente, come una riflessione su un possibile futuro che
intuiva, a ragion veduta, a tinte fosche. E infatti, ciò che
ha scritto non si è avverato nel senso che normalmente viene
attribuito al realizzarsi di una profezia, mentre si è
dimostrata veritiera l'intuizione di fondo della sua riflessione. Oggi, appena
terminato il 1984, nel mondo occidentale non c'è un partito
unico al potere né un dittatore paragonabile al Grande
Fratello, e nemmeno un Miniver che impone una verità
menzognera, deformata, antistorica. Ufficialmente e formalmente vige
la democrazia, c'è libertà di stampa, di parola, di
riunione, il sesso non è compresso, entro certi limiti la
libertà privata viene rispettata. Ma dietro questa facciata,
che troppo spesso i pomposi democratici governativi ci rinfacciano
ampollosamente, è possibile svelare un volto del potere ben
altrimenti diverso, molto più corrispondente alle ipotesi
fantasticamente immaginate da George Orwell. Non c'è un
partito unico, ma un unico insieme di partiti costituzionalmente
responsabili dell'andamento della cosa pubblica. Questo insieme,
rappresentato in parlamento, non è che una pluralità
apparente, perché i vari partiti non esprimono altro che modi
diversi di intendere la stessa cosa, cioè la forma di stato
costituzionalmente definita dal parlamento stesso. Chi non riesce ad
allinearsi o non riconosce questa posizione di fondo, automaticamente
si trova fuori dal campo di ciò che è ammesso ed è
giuridicamente potenzialmente colpevole. Non c'è in auge il
culto della personalità che esalta l'immagine di un Grande
Fratello di turno, ma c'è una continua opera di convinzione,
condotta con tutti i mezzi disponibili sia a livello del cosciente
sia a livello dell'inconscio, per esaltare la sacralità delle
istituzioni in vigore e i loro uomini più rappresentativi. Il
bene collettivo, cui sacrificare ogni altra esigenza, viene
quotidianamente indicato nello stato in quanto tale e nella
governabilità, fino al punto che l'azione politica è
giudicata buona o cattiva in base al criterio se sa decidere con
fermezza, se è fedele alle istituzioni, se riesce a mantenere
intatto nella sostanza l'ordine costituito. Ogni giorno viene estorto
il consenso ai cittadini, per la permanente realizzazione di questo
progetto di controllo politico. Ma soprattutto è
in auge lo stravolgimento del senso di parole chiave, come
mirabilmente viene espresso dai tre slogan citati all'inizio. Così
la libertà viene identificata in questo sistema di governo
oligarchico, abusivamente proposto come la vera forma di democrazia.
(Democrazia vuol dire, letteralmente, governo del popolo. In questo
concetto, sono senz'altro comprese delle forme di rappresentanza, ma
non necessariamente nel senso di delega fissa di potere, come
artatamente viene contrabbandato dalla propaganda istituzionale dei
partiti). La non-abitudine a forme di gestione collettiva diretta,
porta all'ignoranza e alla disinformazione rispetto ai metodi
politici di governo e di gestione, fino a rendere del tutto
ingenuamente fragile il cittadino medio che, alla ricerca più
o meno consapevole di sicurezze psicologiche, si lascia irretire dal
fascino pomposo della potenza estetica e tecnologica, con cui si
mostra e agisce l'apparato di dominio. Allora l'ignoranza della
gente, al di fuori delle leve di comando, si traduce effettivamente
in forza contro di loro, a favore del potere istituzionale che, come
abbiamo visto, si presenta come l'unica espressione di libertà
verace.
Tutti parlano di
pace, ma…
Così è
per la questione della "difesa della pace". Tutti i
responsabili di governo, in ogni parte del mondo, si stanno
preparando ad affrontare una eventuale guerra, ma tutti
indistintamente parlano di pace, quasi in ogni comunicato ufficiale.
Le tecnologie più avanzate, le maggiori spese per la ricerca,
il maggior numero di investimenti e di capitali, sono di fatto
finalizzati al potenziamento delle strutture belliche, ma il tutto
viene spavaldamente contrabbandato come impegno per la pace mondiale.
Se c'è un motto orwelliano grottescamente realizzato è
proprio questo: "La guerra è pace". Mai, forse, la
parola pace è stata così svuotata del suo significato
primigenio, fino al punto da significare, tra le righe, il suo esatto
contrario, cioè guerra. Pace oggi significa impegno per il
congelamento dello status quo, che è uno stato di continuo
allarme e di preparazione alla guerra. È
una parola che, invece di rasserenare, come sarebbe se desse
istintivamente il senso che le appartiene, è diventata
inquietante, fino a suonare come una minaccia, e neanche tanto
velata. Il linguaggio politico asettico parla di "non rompere
gli equilibri di pace", il che, in altre parole, premonisce che
non bisogna favorire nessun tipo di trasformazione non decisa
dall'alto, perché porterebbe alla tanto giustamente temuta
guerra. È un lessico specialistico che esprime una cultura di
conservazione reazionaria, il cui fine non dichiarato è quello
di assoggettare le genti, di rendere impotenti tutte le forme di
ribellione, di assicurare ai potenti un macroscopico dominio
incontrollato e incontrollabile. È di antica
scuola il concetto che la paura determina nell'individuo
insicurezza, la quale porta a richiedere di essere protetto, mentre
contemporaneamente, data la compressione psichica e muscolare che
genera la paura, si produce aggressività che, come tutte le
energie interiori, agisce o verso l'esterno o verso l'interno, perché
ineliminabile. Questi presupposti, che in genere agiscono sugli
individui senza che ne siano consapevoli, predispongono l'azione
esterna che il potere organizza sull'insieme della società,
usufruendo anche del consenso, sia fattivo sia sotto forma di assenza
di ribellione, che la situazione psicologica determinatasi prepara.
Allora le istituzioni armate, sorrette dalla legittimità del
rituale legislativo e dal consenso collettivo, vengono a colmare il
bisogno di sicurezza che si è generato e nell'uso corrente che
fanno delle armi, convogliano l'immaginario collettivo, permettendo
di sfogare le energie aggressive accumulatesi. Questa situazione
psicologica, tendenzialmente consensuale, favorisce inevitabilmente
la conservazione dello status quo. A rendere ancora più
solida questa corazza conservatrice filo-istituzionale, c'è il
massiccio intervento quotidiano dei mass-media. Attraverso
soprattutto l'uso dell'immagine visiva e della parola sia scritta sia
orale, bersagliano i cittadini con una enorme quantità di
informazioni e di immaginazioni. Questa quantità è
talmente elevata, che difficilmente permette una elaborazione
riflessiva individuale in chi recepisce la miriade di messaggi. Per
chi non vuole recepire informazioni, inoltre, c'è un
bombardamento sonoro a suon di musica di tutti i tipi, che fra
l'altro riempie gli ineliminabili vuoti di quelli che invece
accettano di essere super-informati. Gli esseri umani divengono così
macchine ricettive, senza elevarsi al grado elaborativo, che invece
rimane privilegio quasi esclusivo di chi, dietro le quinte dello
spettacolo, dirige il tutto e impone i suoi poteri. Una società
tendenzialmente riducibile a una specie di buco nero, dove vige la
forza dell'implosione, dove le idee vengono solo assorbite senza
essere riciclate. E i contenuti, di fatto, non sono più
veicolati dal messaggio, perché è il messaggio stesso a
divenire contenuto in sé, indipendentemente da ciò che
viene trasmesso. La sua funzione sostanzialmente non è più
quella di essere il tramite per comunicare, bensì quella di
comunicare per riempire chi ascolta, fino a renderlo irriflessivo e
solo ricettivo, disposto in definitiva ad accettare qualsiasi
contenuto.
Pronti a tutto
(anche a morire)
È stato così
predisposto un tessuto sociale disponibile ad accettare tutto, anche
il fatto enormemente tragico di essere disintegrato. Non è
necessario spendere molte parole, per rendersi conto che la società
nel suo complesso ha coscienza dei danni e delle possibili catastrofi
che la possono distruggere. Nella loro sostanza, sono all'evidenza
della gran parte della popolazione, tutte le assurdità
antiumane e artificialmente innaturali che ci minacciano, a mo' di
"spada di Damocle". Tutti sanno che non è un
pericolo immaginario la guerra termonucleare con le sue inevitabili
conseguenze disastrose; che è quotidianamente concreto il
progressivo e massiccio inquinamento dell'aria, dell'acqua e delle
materie organiche, la rottura cioè sempre più
irreversibile degli ecosistemi e del rapporto ecologico con la
natura; che il totalitario intervento dei media rappresenta un
giornaliero inquinamento mentale. Ma, drammaticamente, questa
consapevolezza sembra determinare consenso passivo, sotto forma di
accettazione, invece di portare al rifiuto di questa società,
proprio per i motivi del bersagliamento quotidiano addotti sopra. Una
terrificante sudditanza psicologica, che parla di senso di impotenza,
e conduce a una pericolosa interiorizzazione dei valori necrofili,
che fanno da supporto all'"ordine" sociale in atto. Ne emerge che la
consapevolezza razionale non serve come stimolo per suscitare
ribellione, resistenza, bisogno di emancipazione. Di fronte a questo
dato di fatto, riscontrabile da chiunque si confronti su queste
tematiche al livello delle relazioni sociali, crolla inesorabilmente
uno dei cardini portanti della propaganda orale e scritta, che da
troppi compagni è ancora tenuta in somma considerazione
secondo i canoni ottocenteschi (di cui è ancora ampiamente
impregnata). Nel secolo scorso
c'era la convinzione, più o meno consapevole, che il potere si
reggesse soprattutto sull'ignoranza in cui venivano mantenute le
masse oppresse. Il che in parte è anche vero, mentre è
irreale considerare questa una delle cause principali. La propaganda,
allora, aveva essenzialmente il compito di rendere edotte le masse,
per portarle alla piena consapevolezza del proprio stato; la qual
cosa avrebbe in teoria dovuto essere uno stimolo per ribellarsi ed
insorgere. L'esperienza degli anni ha poi dimostrato che l'ignoranza
andava di pari passo con l'accettazione, se non le era addirittura
seconda. Oggi possiamo affermare con sicurezza che c'è una
consapevolezza diffusa, ma contemporaneamente c'è un consenso,
pur esso diffuso, al sistema di cose presente. Oggi cozziamo non
tanto contro l'ignoranza, quanto contro un atteggiamento di
adeguamento supino.
L'informazione
alternativa non basta
Di fronte a questo
impatto, cade l'illusione opinionista, perché il rivolgersi
principalmente all'opinione pubblica rischia di nullificarsi da solo,
scontrandosi con un'implosione crescente, rispetto al modo di
recepire ciò che si esaurisce nell'informazione a se
stante. L'opinione pubblica, sempre di più ammaestrata dal
messaggio dei media, divenuto contenuto in sé, ammesso che sia
modificabile in un senso che interessa a chi fornisce informazione,
svuota col suo atteggiamento non riflessivo e tendenzialmente
consensuale, il contenuto innovativo della comunicazione.
L'informazione viene recepita, ma non elaborata, fino ad essere
accumulata nel novero grandissimo di tutte le altre informazioni che
riceve quotidianamente. La controinformazione, come è in uso
chiamare la propaganda verbale che si pone come strumento di lotta
alle istituzioni totalizzanti (ma io preferisco definirla
informazione alternativa) è di per sé del tutto
insufficiente e non funzionale allo sviluppo di una trasformazione
rivoluzionaria, in senso libertario, della società, perché
crede nell'obiettivo illusorio di determinare un cambiamento
nell'opinione pubblica, considerandolo una molla atta a generare
azione rivoluzionaria. Il quadro finora
descritto è estremamente fosco e dà una sensazione
quasi catalettica del quotidiano agire. Per fortuna la realtà
è sempre molto più complessa delle descrizioni
particolari, anche le più minuziose, che tentano di
raccontarla; a loro volta le trattazioni sono sempre parziali e, per
quanti sforzi facciamo, riescono a dire solo alcune componenti del
tutto cui si riferiscono. Quando parliamo in specifico di cose
sociali, questa parzialità si verifica perché gli
esseri umani, i quali sono l'humus di cui la società è
composta, sono sempre più imprevedibili di quello che ci si
aspetta. Il potere,
fortunatamente, non è ancora riuscito ad adattare tutti
indistintamente ai suoi loschi programmi di livellamento ed esistono
ancora margini per comportamenti altamente individualizzati. Quando
si cerca di analizzare il reale, al di là dell'ovvio sforzo di
essere il più obiettivo possibile, bisogna perciò
essere consapevoli che, per quanti sforzi facciamo, la nostra
esposizione non potrà che essere parziale di fronte ad una
realtà sempre più composita di quello che a noi può
apparire. Allora riusciremo a parlarne serenamente, sapendo di dare
una idea complessiva del reale, corrispondente a verità
proprio perché non ha la pretesa di essere esaustiva, la quale
intenzione, a mio avviso, è indice in genere di volontà
totalizzante. C'è
un'impossibilità di prevedere ed organizzare tutti i
comportamenti e le reazioni umane, che non permette al potere di
pianificare e semplificare completamente i suoi sudditi. Ogni
operazione, atta a estorcere consenso, deve perciò lasciare un
margine abbastanza ampio a possibilità di non-ricezione, di
rifiuto, di rigetto, di ribellione, perché si è
dimostrato impossibile un controllo totale su tutti indistintamente.
Ma nel suo complesso, nell'insieme del corpo sociale, l'opera di
ingabbiamento e di conseguente intruppamento funziona, mantenendo
emarginata e sostanzialmente irrilevante l'azione, pur a volte
consistente, di gruppi o persone che, in qualche modo, rifiutano e si
ribellano alla conformità consensuale imperante. Allora il quadro
che abbiamo davanti assume caratteristiche e cromature molto
corrispondenti alla concretezza delle cose che stiamo analizzando.
L'informazione alternativa continua a mantenere un senso utile alla
trasmissione del nostro messaggio, ma va ridimensionata
completamente, rispetto al significato attribuitole di servire da
stimolo per un mutamento profondo della società. Rimane
senz'altro uno dei cardini irrinunciabili della propaganda
rivoluzionaria, perché è uno strumento
insostituibilmente atto a determinare consapevolezza razionale, ma è
totalmente insufficiente e inadatta a generare volontà di
cambiamento rivoluzionario in senso libertario. Essa va concepita e
usata come supporto di atti più adeguati, perché non è
altro che azione sull'opinione pubblica. L'opinionismo, come abbiamo
visto sopra, non può essere considerato in alcun modo una
molla atta a generare azione rivoluzionaria, che ha bisogno invece di
una costante interazione dinamica tra teoria e pratica.
Fatti, non
parole
Rispetto al
problema specifico della pace e della lotta al militarismo, pur
essendoci il bisogno di potenziare, riorganizzare e perfezionare
l'informazione alternativa, c'è una necessità molto più
impellente di colmare, con forme pratiche attive, il vuoto che la
trasmissione semplicemente verbale lascia in sospeso. L'esempio
fattivo conseguente al pensiero e al messaggio che si comunica, è
senz'altro un elemento capace di rompere la corazza di apatica
irriflessione, generata dal bombardamento informativo dei media. Se
l'opinione pubblica è, nel suo complesso, ormai inesistente
come opinione e ridotta a contenitore potenzialmente solo ricettivo,
perché ubriacata da un ammasso sempre più
indistinguibile di notizie più o meno complesse, non è
però scomparsa l'attività mentale degli esseri umani.
Questa è certamente bersagliata da atti ed esempi di rifiuto e
di ribellione; anzi, l'impotenza che appare generalizzata, deriva a
mio avviso soprattutto dalle troppe parole, sia scritte che orali, e
dalle pochissime azioni, che possano servire da stimolo e da esempio
per rendere l'opposizione, non solo ipotizzabile, ma materialmente
appetibile. Si tratta di
trovare un corrispettivo pratico coerente che, organizzato attraverso
una ipotesi strategica programmabile e non occasionale, agisca
secondo atti adeguatamente funzionali alla lotta rivoluzionaria per
la libertà. L'anarchismo, nella scelta antimilitarista, si
distingue per il netto e completo rifiuto di ogni forma e struttura
di tipo militare. Il militarismo è semplicemente e
completamente incompatibile con una società corrispondente al
progetto sociale proposto dagli anarchici. Ciò che essi
propongono si deve perciò muovere nel senso di sviluppare
un'intolleranza generalizzata, di rendere operanti forme di netto
ripudio, a qualsiasi livello, di ogni struttura che, in qualche modo,
permetta di essere funzionale ed efficiente la macchina militare
dello stato. Agire, informare e propagandare dunque, con lo scopo
dichiarato di spingere le popolazioni ad esercitare una continua
mobilitazione sociale, al fine di generalizzare la mentalità e
la pratica del rifiuto. La coerenza va
ricercata nella scelta di atti che esprimano, con cristallina
chiarezza, senza ambiguità di alcun tipo, l'opposizione di
principio, oltre che alle strutture militari, anche e soprattutto al
concetto stesso di militarismo, con tutto ciò che ad esso
consegue. Dobbiamo farci carico di tutte le forme di obiezione
totale, di disobbedienza, di rifiuto, di diserzione, di tutte quelle
manifestazioni che, anche se condotte al di fuori del movimento
anarchico, siano indice di una volontà di lotta globale alla
logica militare imperante. Dobbiamo propugnare e fare, il più
possibile, lotte condotte in prima persona, sempre ammantate di
cristallina coerenza. In questo contesto acquista senso propagandare
l'obiezione totale presso i giovani che si apprestano a fare la naja,
la diserzione e l'insubordinazione presso tutti i cittadini, la
restituzione dei congedi per tutti quelli che hanno già
espletato il servizio di leva, intesa come obiezione totale di
coscienza postuma, il rifiuto a costruire armi e il sabotaggio
diretto e civile all'industria bellica. In altre parole, una
campagna, la più estesa possibile, di insubordinazione e
disobbedienza sociale nei confronti degli apparati militari dello
stato, comprese le sue diramazioni. Una coerenza tutta
improntata in senso etico, che si pone quindi come alternativa
globale di comportamento al modo di essere compromissorio in auge. La
scelta della nostra condotta di lotta, non può infatti che
ritrovarsi in motivi di ordine etico, perché motivazioni di
altro tipo rischiano di snaturare e i principi, gli scopi finali, e
il modo stesso di condurre la lotta. Sull'assurdità,
per esempio, che il movente delle nostre scelte si possa ricondurre a
ragioni di interesse, non credo si debbano spendere molte parole, in
quanto si evidenzia da sola la contraddizione insita in un simile
stimolo personale. Mentre qualche parola va spesa per coloro che sono
convinti della giustezza di ragioni di tipo politico. Per politica,
in questo contesto, mi riferisco al senso comunemente inteso oggi,
secondo cui si designa, con questa parola, la teoria dello stato o,
più semplicemente, l'arte o la scienza del governo. Sia lo
stato, sia l'arte del governo, sono i nemici dichiarati contro cui
lotta l'anarchismo, ragion per cui non ha senso per degli anarchici
agire in loro funzione. Ma, anche se per politica si intendesse la
ricerca di soluzione ai problemi di relazione intersoggettivi, che è
un altro significato con cui a volte è intesa questa parola,
bisognerebbe ugualmente porre delle barriere e dei seri aut-aut.
Infatti, comunemente, per soluzioni politiche, si intende il
compromesso, raggiunto o raggiungibile, tra i responsabili gerarchici
delle forze o dai partiti politici. Una scelta motivata da ragioni
politiche, presume dunque una concezione di mediazione, all'insegna,
più o meno dichiarata, di una ragion di stato che gli
anarchici, giustamente, vogliono superare del tutto. Dobbiamo attaccare
la mentalità politica, che è quella della cultura
dominante, per riproporre e rivalutare, anche e soprattutto sul piano
pratico, le scelte di ordine etico. Quando l'individuo motiva le sue
scelte per ragioni morali, in qualsiasi campo agisca, è
incorruttibile, non è disponibile al compromesso, è
trasparente nel suo modo di essere e rifiuta le mediazioni sulla
testa di chicchessia. Quello etico è, in definitiva, l'unico
comportamento coerente con i presupposti che motivano la scelta
anarchica.
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