Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 126
marzo 1985


Rivista Anarchica Online

La pace è guerra
di Andrea Papi

"La guerra è pace - La libertà è schiavitù - L'ignoranza è forza". Questi i tre slogan del Partito del Grande Fratello, che si potevano leggere stampati in eleganti caratteri sulla bianca facciata dell'edificio piramidale del Miniver, cioè Ministero della Verità in neo-lingua, così come sono esposti in "1984", divenuto ormai simbolo universale del passaggio all'era tecno-totalitaria. Giustamente, Orwell non ha mai inteso la sua opera più famosa nel senso di una profezia, come invece da più parti viene considerata, ma, molto più sensatamente, come una riflessione su un possibile futuro che intuiva, a ragion veduta, a tinte fosche. E infatti, ciò che ha scritto non si è avverato nel senso che normalmente viene attribuito al realizzarsi di una profezia, mentre si è dimostrata veritiera l'intuizione di fondo della sua riflessione.
Oggi, appena terminato il 1984, nel mondo occidentale non c'è un partito unico al potere né un dittatore paragonabile al Grande Fratello, e nemmeno un Miniver che impone una verità menzognera, deformata, antistorica. Ufficialmente e formalmente vige la democrazia, c'è libertà di stampa, di parola, di riunione, il sesso non è compresso, entro certi limiti la libertà privata viene rispettata. Ma dietro questa facciata, che troppo spesso i pomposi democratici governativi ci rinfacciano ampollosamente, è possibile svelare un volto del potere ben altrimenti diverso, molto più corrispondente alle ipotesi fantasticamente immaginate da George Orwell.
Non c'è un partito unico, ma un unico insieme di partiti costituzionalmente responsabili dell'andamento della cosa pubblica. Questo insieme, rappresentato in parlamento, non è che una pluralità apparente, perché i vari partiti non esprimono altro che modi diversi di intendere la stessa cosa, cioè la forma di stato costituzionalmente definita dal parlamento stesso. Chi non riesce ad allinearsi o non riconosce questa posizione di fondo, automaticamente si trova fuori dal campo di ciò che è ammesso ed è giuridicamente potenzialmente colpevole. Non c'è in auge il culto della personalità che esalta l'immagine di un Grande Fratello di turno, ma c'è una continua opera di convinzione, condotta con tutti i mezzi disponibili sia a livello del cosciente sia a livello dell'inconscio, per esaltare la sacralità delle istituzioni in vigore e i loro uomini più rappresentativi. Il bene collettivo, cui sacrificare ogni altra esigenza, viene quotidianamente indicato nello stato in quanto tale e nella governabilità, fino al punto che l'azione politica è giudicata buona o cattiva in base al criterio se sa decidere con fermezza, se è fedele alle istituzioni, se riesce a mantenere intatto nella sostanza l'ordine costituito. Ogni giorno viene estorto il consenso ai cittadini, per la permanente realizzazione di questo progetto di controllo politico.
Ma soprattutto è in auge lo stravolgimento del senso di parole chiave, come mirabilmente viene espresso dai tre slogan citati all'inizio. Così la libertà viene identificata in questo sistema di governo oligarchico, abusivamente proposto come la vera forma di democrazia. (Democrazia vuol dire, letteralmente, governo del popolo. In questo concetto, sono senz'altro comprese delle forme di rappresentanza, ma non necessariamente nel senso di delega fissa di potere, come artatamente viene contrabbandato dalla propaganda istituzionale dei partiti). La non-abitudine a forme di gestione collettiva diretta, porta all'ignoranza e alla disinformazione rispetto ai metodi politici di governo e di gestione, fino a rendere del tutto ingenuamente fragile il cittadino medio che, alla ricerca più o meno consapevole di sicurezze psicologiche, si lascia irretire dal fascino pomposo della potenza estetica e tecnologica, con cui si mostra e agisce l'apparato di dominio. Allora l'ignoranza della gente, al di fuori delle leve di comando, si traduce effettivamente in forza contro di loro, a favore del potere istituzionale che, come abbiamo visto, si presenta come l'unica espressione di libertà verace.

Tutti parlano di pace, ma…
Così è per la questione della "difesa della pace". Tutti i responsabili di governo, in ogni parte del mondo, si stanno preparando ad affrontare una eventuale guerra, ma tutti indistintamente parlano di pace, quasi in ogni comunicato ufficiale. Le tecnologie più avanzate, le maggiori spese per la ricerca, il maggior numero di investimenti e di capitali, sono di fatto finalizzati al potenziamento delle strutture belliche, ma il tutto viene spavaldamente contrabbandato come impegno per la pace mondiale. Se c'è un motto orwelliano grottescamente realizzato è proprio questo: "La guerra è pace". Mai, forse, la parola pace è stata così svuotata del suo significato primigenio, fino al punto da significare, tra le righe, il suo esatto contrario, cioè guerra. Pace oggi significa impegno per il congelamento dello status quo, che è uno stato di continuo allarme e di preparazione alla guerra. È una parola che, invece di rasserenare, come sarebbe se desse istintivamente il senso che le appartiene, è diventata inquietante, fino a suonare come una minaccia, e neanche tanto velata. Il linguaggio politico asettico parla di "non rompere gli equilibri di pace", il che, in altre parole, premonisce che non bisogna favorire nessun tipo di trasformazione non decisa dall'alto, perché porterebbe alla tanto giustamente temuta guerra. È un lessico specialistico che esprime una cultura di conservazione reazionaria, il cui fine non dichiarato è quello di assoggettare le genti, di rendere impotenti tutte le forme di ribellione, di assicurare ai potenti un macroscopico dominio incontrollato e incontrollabile.
È di antica scuola il concetto che la paura determina nell'individuo insicurezza, la quale porta a richiedere di essere protetto, mentre contemporaneamente, data la compressione psichica e muscolare che genera la paura, si produce aggressività che, come tutte le energie interiori, agisce o verso l'esterno o verso l'interno, perché ineliminabile. Questi presupposti, che in genere agiscono sugli individui senza che ne siano consapevoli, predispongono l'azione esterna che il potere organizza sull'insieme della società, usufruendo anche del consenso, sia fattivo sia sotto forma di assenza di ribellione, che la situazione psicologica determinatasi prepara. Allora le istituzioni armate, sorrette dalla legittimità del rituale legislativo e dal consenso collettivo, vengono a colmare il bisogno di sicurezza che si è generato e nell'uso corrente che fanno delle armi, convogliano l'immaginario collettivo, permettendo di sfogare le energie aggressive accumulatesi. Questa situazione psicologica, tendenzialmente consensuale, favorisce inevitabilmente la conservazione dello status quo.
A rendere ancora più solida questa corazza conservatrice filo-istituzionale, c'è il massiccio intervento quotidiano dei mass-media. Attraverso soprattutto l'uso dell'immagine visiva e della parola sia scritta sia orale, bersagliano i cittadini con una enorme quantità di informazioni e di immaginazioni. Questa quantità è talmente elevata, che difficilmente permette una elaborazione riflessiva individuale in chi recepisce la miriade di messaggi. Per chi non vuole recepire informazioni, inoltre, c'è un bombardamento sonoro a suon di musica di tutti i tipi, che fra l'altro riempie gli ineliminabili vuoti di quelli che invece accettano di essere super-informati. Gli esseri umani divengono così macchine ricettive, senza elevarsi al grado elaborativo, che invece rimane privilegio quasi esclusivo di chi, dietro le quinte dello spettacolo, dirige il tutto e impone i suoi poteri. Una società tendenzialmente riducibile a una specie di buco nero, dove vige la forza dell'implosione, dove le idee vengono solo assorbite senza essere riciclate. E i contenuti, di fatto, non sono più veicolati dal messaggio, perché è il messaggio stesso a divenire contenuto in sé, indipendentemente da ciò che viene trasmesso. La sua funzione sostanzialmente non è più quella di essere il tramite per comunicare, bensì quella di comunicare per riempire chi ascolta, fino a renderlo irriflessivo e solo ricettivo, disposto in definitiva ad accettare qualsiasi contenuto.

Pronti a tutto (anche a morire)
È stato così predisposto un tessuto sociale disponibile ad accettare tutto, anche il fatto enormemente tragico di essere disintegrato. Non è necessario spendere molte parole, per rendersi conto che la società nel suo complesso ha coscienza dei danni e delle possibili catastrofi che la possono distruggere. Nella loro sostanza, sono all'evidenza della gran parte della popolazione, tutte le assurdità antiumane e artificialmente innaturali che ci minacciano, a mo' di "spada di Damocle". Tutti sanno che non è un pericolo immaginario la guerra termonucleare con le sue inevitabili conseguenze disastrose; che è quotidianamente concreto il progressivo e massiccio inquinamento dell'aria, dell'acqua e delle materie organiche, la rottura cioè sempre più irreversibile degli ecosistemi e del rapporto ecologico con la natura; che il totalitario intervento dei media rappresenta un giornaliero inquinamento mentale. Ma, drammaticamente, questa consapevolezza sembra determinare consenso passivo, sotto forma di accettazione, invece di portare al rifiuto di questa società, proprio per i motivi del bersagliamento quotidiano addotti sopra. Una terrificante sudditanza psicologica, che parla di senso di impotenza, e conduce a una pericolosa interiorizzazione dei valori necrofili, che fanno da supporto all'"ordine" sociale in atto.
Ne emerge che la consapevolezza razionale non serve come stimolo per suscitare ribellione, resistenza, bisogno di emancipazione. Di fronte a questo dato di fatto, riscontrabile da chiunque si confronti su queste tematiche al livello delle relazioni sociali, crolla inesorabilmente uno dei cardini portanti della propaganda orale e scritta, che da troppi compagni è ancora tenuta in somma considerazione secondo i canoni ottocenteschi (di cui è ancora ampiamente impregnata).
Nel secolo scorso c'era la convinzione, più o meno consapevole, che il potere si reggesse soprattutto sull'ignoranza in cui venivano mantenute le masse oppresse. Il che in parte è anche vero, mentre è irreale considerare questa una delle cause principali. La propaganda, allora, aveva essenzialmente il compito di rendere edotte le masse, per portarle alla piena consapevolezza del proprio stato; la qual cosa avrebbe in teoria dovuto essere uno stimolo per ribellarsi ed insorgere. L'esperienza degli anni ha poi dimostrato che l'ignoranza andava di pari passo con l'accettazione, se non le era addirittura seconda. Oggi possiamo affermare con sicurezza che c'è una consapevolezza diffusa, ma contemporaneamente c'è un consenso, pur esso diffuso, al sistema di cose presente. Oggi cozziamo non tanto contro l'ignoranza, quanto contro un atteggiamento di adeguamento supino.

L'informazione alternativa non basta
Di fronte a questo impatto, cade l'illusione opinionista, perché il rivolgersi principalmente all'opinione pubblica rischia di nullificarsi da solo, scontrandosi con un'implosione crescente, rispetto al modo di recepire ciò che si esaurisce nell'informazione a se stante. L'opinione pubblica, sempre di più ammaestrata dal messaggio dei media, divenuto contenuto in sé, ammesso che sia modificabile in un senso che interessa a chi fornisce informazione, svuota col suo atteggiamento non riflessivo e tendenzialmente consensuale, il contenuto innovativo della comunicazione. L'informazione viene recepita, ma non elaborata, fino ad essere accumulata nel novero grandissimo di tutte le altre informazioni che riceve quotidianamente. La controinformazione, come è in uso chiamare la propaganda verbale che si pone come strumento di lotta alle istituzioni totalizzanti (ma io preferisco definirla informazione alternativa) è di per sé del tutto insufficiente e non funzionale allo sviluppo di una trasformazione rivoluzionaria, in senso libertario, della società, perché crede nell'obiettivo illusorio di determinare un cambiamento nell'opinione pubblica, considerandolo una molla atta a generare azione rivoluzionaria.
Il quadro finora descritto è estremamente fosco e dà una sensazione quasi catalettica del quotidiano agire. Per fortuna la realtà è sempre molto più complessa delle descrizioni particolari, anche le più minuziose, che tentano di raccontarla; a loro volta le trattazioni sono sempre parziali e, per quanti sforzi facciamo, riescono a dire solo alcune componenti del tutto cui si riferiscono. Quando parliamo in specifico di cose sociali, questa parzialità si verifica perché gli esseri umani, i quali sono l'humus di cui la società è composta, sono sempre più imprevedibili di quello che ci si aspetta.
Il potere, fortunatamente, non è ancora riuscito ad adattare tutti indistintamente ai suoi loschi programmi di livellamento ed esistono ancora margini per comportamenti altamente individualizzati. Quando si cerca di analizzare il reale, al di là dell'ovvio sforzo di essere il più obiettivo possibile, bisogna perciò essere consapevoli che, per quanti sforzi facciamo, la nostra esposizione non potrà che essere parziale di fronte ad una realtà sempre più composita di quello che a noi può apparire. Allora riusciremo a parlarne serenamente, sapendo di dare una idea complessiva del reale, corrispondente a verità proprio perché non ha la pretesa di essere esaustiva, la quale intenzione, a mio avviso, è indice in genere di volontà totalizzante.
C'è un'impossibilità di prevedere ed organizzare tutti i comportamenti e le reazioni umane, che non permette al potere di pianificare e semplificare completamente i suoi sudditi. Ogni operazione, atta a estorcere consenso, deve perciò lasciare un margine abbastanza ampio a possibilità di non-ricezione, di rifiuto, di rigetto, di ribellione, perché si è dimostrato impossibile un controllo totale su tutti indistintamente. Ma nel suo complesso, nell'insieme del corpo sociale, l'opera di ingabbiamento e di conseguente intruppamento funziona, mantenendo emarginata e sostanzialmente irrilevante l'azione, pur a volte consistente, di gruppi o persone che, in qualche modo, rifiutano e si ribellano alla conformità consensuale imperante.
Allora il quadro che abbiamo davanti assume caratteristiche e cromature molto corrispondenti alla concretezza delle cose che stiamo analizzando. L'informazione alternativa continua a mantenere un senso utile alla trasmissione del nostro messaggio, ma va ridimensionata completamente, rispetto al significato attribuitole di servire da stimolo per un mutamento profondo della società. Rimane senz'altro uno dei cardini irrinunciabili della propaganda rivoluzionaria, perché è uno strumento insostituibilmente atto a determinare consapevolezza razionale, ma è totalmente insufficiente e inadatta a generare volontà di cambiamento rivoluzionario in senso libertario. Essa va concepita e usata come supporto di atti più adeguati, perché non è altro che azione sull'opinione pubblica. L'opinionismo, come abbiamo visto sopra, non può essere considerato in alcun modo una molla atta a generare azione rivoluzionaria, che ha bisogno invece di una costante interazione dinamica tra teoria e pratica.

Fatti, non parole
Rispetto al problema specifico della pace e della lotta al militarismo, pur essendoci il bisogno di potenziare, riorganizzare e perfezionare l'informazione alternativa, c'è una necessità molto più impellente di colmare, con forme pratiche attive, il vuoto che la trasmissione semplicemente verbale lascia in sospeso. L'esempio fattivo conseguente al pensiero e al messaggio che si comunica, è senz'altro un elemento capace di rompere la corazza di apatica irriflessione, generata dal bombardamento informativo dei media. Se l'opinione pubblica è, nel suo complesso, ormai inesistente come opinione e ridotta a contenitore potenzialmente solo ricettivo, perché ubriacata da un ammasso sempre più indistinguibile di notizie più o meno complesse, non è però scomparsa l'attività mentale degli esseri umani. Questa è certamente bersagliata da atti ed esempi di rifiuto e di ribellione; anzi, l'impotenza che appare generalizzata, deriva a mio avviso soprattutto dalle troppe parole, sia scritte che orali, e dalle pochissime azioni, che possano servire da stimolo e da esempio per rendere l'opposizione, non solo ipotizzabile, ma materialmente appetibile.
Si tratta di trovare un corrispettivo pratico coerente che, organizzato attraverso una ipotesi strategica programmabile e non occasionale, agisca secondo atti adeguatamente funzionali alla lotta rivoluzionaria per la libertà. L'anarchismo, nella scelta antimilitarista, si distingue per il netto e completo rifiuto di ogni forma e struttura di tipo militare. Il militarismo è semplicemente e completamente incompatibile con una società corrispondente al progetto sociale proposto dagli anarchici. Ciò che essi propongono si deve perciò muovere nel senso di sviluppare un'intolleranza generalizzata, di rendere operanti forme di netto ripudio, a qualsiasi livello, di ogni struttura che, in qualche modo, permetta di essere funzionale ed efficiente la macchina militare dello stato. Agire, informare e propagandare dunque, con lo scopo dichiarato di spingere le popolazioni ad esercitare una continua mobilitazione sociale, al fine di generalizzare la mentalità e la pratica del rifiuto.
La coerenza va ricercata nella scelta di atti che esprimano, con cristallina chiarezza, senza ambiguità di alcun tipo, l'opposizione di principio, oltre che alle strutture militari, anche e soprattutto al concetto stesso di militarismo, con tutto ciò che ad esso consegue. Dobbiamo farci carico di tutte le forme di obiezione totale, di disobbedienza, di rifiuto, di diserzione, di tutte quelle manifestazioni che, anche se condotte al di fuori del movimento anarchico, siano indice di una volontà di lotta globale alla logica militare imperante. Dobbiamo propugnare e fare, il più possibile, lotte condotte in prima persona, sempre ammantate di cristallina coerenza. In questo contesto acquista senso propagandare l'obiezione totale presso i giovani che si apprestano a fare la naja, la diserzione e l'insubordinazione presso tutti i cittadini, la restituzione dei congedi per tutti quelli che hanno già espletato il servizio di leva, intesa come obiezione totale di coscienza postuma, il rifiuto a costruire armi e il sabotaggio diretto e civile all'industria bellica. In altre parole, una campagna, la più estesa possibile, di insubordinazione e disobbedienza sociale nei confronti degli apparati militari dello stato, comprese le sue diramazioni.
Una coerenza tutta improntata in senso etico, che si pone quindi come alternativa globale di comportamento al modo di essere compromissorio in auge. La scelta della nostra condotta di lotta, non può infatti che ritrovarsi in motivi di ordine etico, perché motivazioni di altro tipo rischiano di snaturare e i principi, gli scopi finali, e il modo stesso di condurre la lotta.
Sull'assurdità, per esempio, che il movente delle nostre scelte si possa ricondurre a ragioni di interesse, non credo si debbano spendere molte parole, in quanto si evidenzia da sola la contraddizione insita in un simile stimolo personale. Mentre qualche parola va spesa per coloro che sono convinti della giustezza di ragioni di tipo politico. Per politica, in questo contesto, mi riferisco al senso comunemente inteso oggi, secondo cui si designa, con questa parola, la teoria dello stato o, più semplicemente, l'arte o la scienza del governo. Sia lo stato, sia l'arte del governo, sono i nemici dichiarati contro cui lotta l'anarchismo, ragion per cui non ha senso per degli anarchici agire in loro funzione. Ma, anche se per politica si intendesse la ricerca di soluzione ai problemi di relazione intersoggettivi, che è un altro significato con cui a volte è intesa questa parola, bisognerebbe ugualmente porre delle barriere e dei seri aut-aut. Infatti, comunemente, per soluzioni politiche, si intende il compromesso, raggiunto o raggiungibile, tra i responsabili gerarchici delle forze o dai partiti politici. Una scelta motivata da ragioni politiche, presume dunque una concezione di mediazione, all'insegna, più o meno dichiarata, di una ragion di stato che gli anarchici, giustamente, vogliono superare del tutto.
Dobbiamo attaccare la mentalità politica, che è quella della cultura dominante, per riproporre e rivalutare, anche e soprattutto sul piano pratico, le scelte di ordine etico. Quando l'individuo motiva le sue scelte per ragioni morali, in qualsiasi campo agisca, è incorruttibile, non è disponibile al compromesso, è trasparente nel suo modo di essere e rifiuta le mediazioni sulla testa di chicchessia. Quello etico è, in definitiva, l'unico comportamento coerente con i presupposti che motivano la scelta anarchica.