Rivista Anarchica Online
Telefoni bianchi e camicie nere
di Pino Bertelli
Il cinema in camicia nera ha dipinto sulla tela i sogni, le illusioni, le pagliacciate cameratesche del
fascismo. Il regime propagandava la sua immagine di Stato/ Padre/ Tutore dell'immaginario sociale attraverso
l'informazione gonfiata; la carta stampata, la radio, il cinema ammutolivano il quotidiano e andavano
a radicare negli italiani la dittatura del gusto. La coerenza al fascismo era il cloroformio morale che
imboniva ogni crepa della facciata; il dissenso era fatto oggetto di olio di ricino, la bastonatura, la
galera. L'occhio dello schermo permeava oscillazioni e smagliature, codificava flussi dialettici e scosse
culturali in banalità organizzate, diffuse nei quadri prestabiliti di un totalitarismo sognante,
surcodificato, epopeico indissociabile dai feticci intercambiabili dell'armatura sociale. Il fascismo
quotidiano non era tanto sullo schermo quanto nella testa della gente. Il cinema colpevolizzava la condizione sociale degli oppressi, l'invitava a sognare, ad ascendere
nell'alcova iconografica del fascismo idealizzata come oggetto d'amore; le camicie nere e i telefoni
bianchi del cinema di regime offrivano sogni già confezionati, producevano quello che Mikel Dufrenne
ha chiamato l'«inconscio fatto in casa» (1). L'alfabetizzazione degli sguardi nel «cinema nero» passa attraverso operazioni di propaganda, di
affiancamento, di mitizzazione della lingua dominante. Film come «Camicia nera» (1933) di
Giovacchino Forzano, «Vecchia guardia» (1934) di Alessandro Blasetti, «Condottieri» (1937) di Luigi
Trenker, «Scipione l'africano» (1937) di Carmine Gallone, «Luciano Serra pilota» (1938) di Goffredo
Alessandrini, «Grandi magazzini» (1939) di Mario Camerini, «Carmen fra i rossi» (1939) di Edgar
Neville, «L'assedio dell'Alcazar» (1940) di Augusto Genina, «L'uomo della croce» (1943) di Roberto
Rossellini, ad es.,mostrano le molte facce e le intersecazioni micropolitiche della rappresentatività del
fascismo. Qui come negli oltre 700 film prodotti sotto il regime (2), la pretesa di dare una risposta a tutto ciò che
fermenta «dietro le quinte» (o nei fogli clandestini che circolano nelle fabbriche e annunciano la morte
della dittatura nei fucili dei partigiani alla macchia) porta alla composizione/presepe di una quotidianità
mistificata, di uno stile plebeo e volgare amplificato nella simultaneità storica e nella ripetitività del rituale. Se Forzano, Gallone, Alessandrini, Trenker, Genina, Neville sono le bocche/ripetitori della lingua
del potere e il loro cinema si disfa in percorsi consunti, modelli fumettistici, codici melodrammatici
dell'anticomunismo viscerale e della complicità senza riserve; i lavori di Blasetti, Camerini e
Rossellini non sono meno compromessi e ad un taglio più attento, meno imbecilli di tutta la
sciatteria cortigiana che leccava lo schermo nero. A celebrare i fasti del decennio fascista è chiamato Giovacchino Forzano. Il suo film, «Camicia
nera» non convince nessumo, lo squallore della filosofia del fascismo emergeva proprio nell'opera
che doveva documentare la sua ascesa. E' la storia di un povero fabbro che vive nelle paludi
dell'agro pontino, percorre gli itinerari canonici della guerra del '14, la presa del potere di Benito
Mussolini, il rinnovamento e la ricostruzione di un'umanità istituzionalizzata divenuta festa, logica
del dono, specchio popolare del regime. Il pover'uomo si trasforma così da simpatizzante socialista
in fervente fascista, intanto anche le paludi sono state prosciugate e al posto delle capanne è sorta
Littoria. Forzano intendeva costruire il suo film secondo gli esempi corali, epici propri di Sergej M.
Ejzenstein, «Il vecchio e il nuovo» o «La linea generale» (Staroe i novoe, 1926-1929) o a David W.
Griffith, «Nascita di una nazione» (The birth of a Nation, 1915); ne era venuto fuori un
guazzabuglio di frammenti che si perdono tra gli spezzoni documentari e l'attoralità magniloquente
dei personaggi. Nemmeno lo sciagurato «Redenzione» (1942) di Marcello Albani, che doveva salutare il
ventennale della «rivoluzione fascista», riuscì nell'operazione di restauro e di trionfo del regime. Le
linee e gli scambi di «Redenzione» sono quelli cristologici, abituati ai santi e ai profeti del
cattolicesimo. Un dissoluto disertore della «grande guerra», convinto socialista, matura il proprio
destino di sacerdote dello squadrismo nei giorni che precedono la Marcia su Roma. Egli
rappresenta il cuore del fascismo in attesa di bagnarsi nel fantasma (cioè l'effige) del suo oggetto
d'amore: Mussolini. La sottomissione è il prezzo del godimento. I valori morali del fascismo sono rappresentati dallo sguardo becero, dozzinale, idiota di Forzano,
Albani, Alessandrini, Gallone, Trenker ecc.; ma sono Alessandro Blasetti, Mario Camerini e
Roberto Rossellini i maestri cantori del regime. Il loro lavoro di persuasori occulti del cinema
fascista, lo fanno con provata fede, senza troppi scrupoli e la loro semplicità e naturalezza si
fondano con l'apoteosi iconografica del regime «E' dio che ci dà il pane, ma è il duce che ce lo
difende». Anche i muri d'Italia parlano il linguaggio dello schermo: «45 milioni di italiani, 10
milioni di soldati e una volontà. Mussolini». Alessandro Blasetti nasce sugli schermi del regime con «un atto di fede» (dice ancora Blasetti nel
1941), «Sole» (1929); coglie poi i meritati applausi di pubblico, critica e dei gerarchi con «1860»
(1933) e con «Vecchia guardia» (1937) sancisce fino in fondo la sua volontà di camerata/artigiano
della retorica populista. «Vecchia guardia» non affascina gli occhi bovini dei gerarchi, ma il regista con gli stivali e la
«cimice» all'occhiello (il distintivo del partito) trova consensi calorosi in critici come Filippo
Sacchi, Mario Gromo, Francesco Pasinetti, anche Adolf Hitler si entusiasmò non poco a quella
storia di olio di ricino e camicie nere. Anarchici e «rossi» attentano ai precetti dello Stato, i fascisti
delle squadre d'azione stroncano lo sciopero degli infermieri di un manicomio; alla violenza
squadrista risponde uno sciopero generale, un ragazzo in camicia nera viene ucciso dai sovversivi;
nell'olocausto della fede nuova i sentimenti popolari sono immolati nelle mitologie di
domesticazione sociale del regime emergente. Anche i giovani «arrabbiati» della rivista «Cinema» (Gianni Puccini, Domenico Purificato, Carlo
Lizzani, G. Visentini, G. Isani, ecc.) non si esimono da entusiasmi e vedono nell'impalcatura del
film, invero piuttosto sciatta, un certo vigore e quell'asciuttezza d'assieme riconosciuti nel cinema
americano (John Ford, Raoul Walsh, Sam Wood, ecc.). «Vecchia guardia», sottolinea con nostalgia di marca Almirante, Claudio Quarantotto - «è il primo
film fascista, girato da fascisti, interpretato da fascisti, dedicato alla storia del fascismo» (3).
Blasetti conferma la desolazione culturale di un popolo addormentato, ideologizzato nell'evasione,
nella fuga dal reale. E' Mario Camerini infatti a raccogliere sullo schermo nero gli ideali
piccolo/borghesi degli italiani fascistizzati. Lo fa come è suo costume, in modo sommesso, velato,
indiretto; mira al cuore della povera gente per condannarli a vivere, invitandoli e sognare, in un
tempo dove trionfa l'idiozia. Il mondo di Camerini è popolato da tramvieri, commesse, giornalai che aspirano a possedere il
telefono bianco e la camicia nera, diventare insomma buoni borghesi; le loro «mascalzonate» sono
«gaie, semplici, schiette, tutta verità» (dicono le frasi pubblicitarie sulle locandine), ma quello che
trasmettono dalla tela si traduce in anestetico su una folla arsa nell'affresco tranquillizzante della
propria condizione sociale. Nemmeno i bifidi Ernst Lubitsch e René Clair sono stati così aridi nel
loro plauso incondizionato al decoro della borghesia, vista nelle proprie fratture ma intesa come
pilastro insostituibile sulla vita degli ultimi. «Fascismo non è impedire di dire, è obbligare a dire» (Roland Barthes). Camerini con «Gli uomini
che mascalzoni!» (1932), «Darò un milione» (1935), «Il signor Max» (1937), «Grandi magazzini»
(1939) offre la spontaneità del quotidiano, infonde un'atmosfera senza schegge, senza ombre né
sussulti, disegna la disfatta degli oppressi (cioè delle identità) nella felicità perfetta, profumata di
semplicità fascista come anima e modello della ragione di Stato. Il divenire dell'esistenza è per Camerini l'esaurimento di ogni possibilità di aggiramento, di
dissenso con il discorso dell'ordine. Camerini giostrava su due registri: da un lato schizzava con
minuta eloquenza le ambizioni sbagliate della plebe, di fianco metteva in evidenza le qualità estrose
della borghesia industriosa e imperiale; ai poveri di Camerini è dato sperare, certo, ma la speranza
come etica e decoro della confessione e della redenzione è il primo passo della sottomissione. Le
candide commesse dei grandi magazzini («Grandi magazzini»), i gai legionari alla conquista
dell'impero («Il grande appello», 1936), i milionari che si truccano da poveri in cerca della felicità («Darò un milione») si ritroveranno oltre lo schermo nelle braccia del regime o sul sofà della storia. Il «camerinismo» faceva presa sui cuori della gente. Il cinema rosa del ventennio nero si adoperava
in melliflue ripetizioni sul tema. «La segretaria privata» (1931) di Goffredo Alessandrini, «La
telefonista» (1932) di Nunzio Malasomma, «La signora di tutti» (1934) di Max Ophuls, «Casta
diva» (1935) di Carmine Gallone, «Ore 9: lezione di chimica» (1941) di Mario Mattioli, «Mille lire
al mese» (1939) di Max Neufeld, «Mamma» (1941) di Guido Brignone, «Sissignora» (1941) di
Fernando M. Poggioli, «Via delle cinque lune» (1942) di Luigi Chiarini ad es., mostrano «i giochi
di specchi deformanti, a uso e gloria di una società pigra e farisea, che chiede soltanto adeguati
tributi e piacevoli sollazzi ai suoi servizievoli giullari» (4). La lezione del «camerinismo» è l'enunciazione sotto/tono dei rituali fascisti, pluralità di
articolazioni figurate sul piano fisso/ideologico del regime. I segni piumati del «camerinismo»
concretizzano le ansie giovanili, i diverbi familiari, la fede nel fascismo; la favola finisce sempre
con un matrimonio, la pacificazione, il ritrovato senso della vita. Ogni interpretazione della storia è
tendenziosa, quando i vassalli della cultura dell'imbroglio si preoccupano di redimere il linguaggio,
la comunicazione, le idee a favore dell'oggettività, o ti hanno già fregato o lo stanno per fare. Il grido d'amore più alto tributato al cinema fascista lo firma Roberto Rossellini con la trilogia della
guerra, «La nave bianca» (1941), con la supervisione del comandante/cineasta Francesco De
Robertis; «Un pilota ritorna» (1942), da un soggetto di Vittorio Mussolini; «L'uomo della croce»
(1943), il soggetto è di Asvero Gravelli, redattore capo di «Gioventù Fascista» e direttore del
giornale antisemita «Antieuropa». La struttura asciutta di Rossellini è di notevole interesse
didattico; ritaglia il quotidiano in frammenti, aneddoti, particolari in apparenza semplici, che a poco
a poco vanno a comporre un mosaico, una storia, la cronaca microsociale di un'umanità ricomposta.
Questo non lo esime dall'avere prodotto la retorica del fascismo nell'abito francescano
dell'innocenza semi/documentaria, che se un taglio insegnava a guardare un mondo, l'altro taglio
proponeva il calco della scenografia di regime. Rossellini è pratico: Dio fornisce la consolazione spirituale, il Duce padroneggia le sfere sensuali
dell'immaginario collettivo. L'universo rosselliniano è compiuto. Anche nei suoi film più grandi,
indimenticabili, fabbricati nel fascismo di dopo (quello democristiano), «Roma città aperta»
(1945), «Paisà» (1946) e «Germania anno zero» (1947), Rossellini percorre i sentieri del peccato e
dell'assoluzione. Il suo è un mondo senza cattivi, perché nei suoi film i cattivi o si uccidono o sono
uccisi; i buoni sono quelli che hanno pietà della loro e altrui condizione, ma è dietro ai buoni
sentimenti che si sono sempre incappucciati i carnefici di ogni libertà. Cinema del conforto e del patriottismo bovino, «La nave bianca» invita i giovani «mascalzoni» e i
cadaveri in frack della buona borghesia a indossare la divisa e imbarcarsi in una guerra bella, eroica
e mondiale. Rossellini (e De Robertis) rassicurano i baldanzosi soldati italiani che le loro ferite
saranno accolte in moderne ed efficienti navi ospedale e curate da medici comprensivi circondati da
cinguettanti crocerossine uscite fresche fresche dai romanzi di Liala o Carolina Invernizio. Il senso
«documentaristico» del film porge un certo fascino di provvisorietà e di formalizzazione; i tagli
forti, metalinguistici del cinema sovietico sono evidenti in molte sequenze ma «la formula scenari
veri, dettagli veri, personaggi veri dava luogo a menzogne infinitamente più gravi, in confronto agli
evidenti errori delle decorazioni in studio» (5). Il camerata Luigi Freddi non ha torto quando vede
in Rossellini «il solo che si fosse indirizzato decisamente verso il film di propaganda politica e
bellica» (6). Il suo attaccamento alla fede fascista Rossellini lo dimostra in «Un pilota ritorna». Il film segna i
territori della conversione (del pentimento) di coscienze smarrite (qualcuno nei boschi con la
Resistenza) e delle masse impaurite per le sorti della guerra. Collaborano a stendere la
sceneggiatura a dir poco idiota, giovani camerati come Michelangiolo Antonioni, Rosario Leone,
Massimo Mida, Gherardo Gherardi, Ugo Betti, Margherita Maglione, oltre, s'intende, a Rossellini e
Tito Livio Mursino (Vittorio Mussolini). La frase di lancio è illuminante: «Una pagina di eroismo
nell'atmosfera ardente della guerra aerea». Nei cieli della Grecia l'aereo di Massimo Girotti viene
colpito, il pilota si getta col paracadute ed è catturato dagli inglesi. Tra gli stenti della prigionia
Girotti riesce ad avere una storia d'amore con la figlia di un medico italiano (Michela Belmonte),
poi nel corso di un bombardamento dell'aereoporto fugge, si impossessa di un aereo e atterra nelle
linee italiane. Intanto gli inglesi sono battuti. La farsa continua nel lieto fine. Ne «L'uomo della croce», Rossellini alimenta i sedimenti del suo anticomunismo barbaro; si mostra
poliziotto della fede e camerata senza dubbi; trasforma i lupi rossi, feroci, in pecorelle smarrite e
non si accorge dei carnefici neri con i quali erige il linguaggio della forca. La realtà inautentica del
fascismo dunque passa attraverso l'ordine delle menzogne e del plotone di esecuzione che autori
come Blasetti, Camerini, Rossellini hanno istituito sugli schermi del ventennio nero. In quegli stessi giorni lo schermo imbavagliato dissemina schegge di realtà che schiantano l'omertà
prezzolata dei telefoni bianchi e delle camicie nere; «Ossessione» (1943) di Luchino Visconti e «I
bambini ci guardano» (1944) di Vittorio De Sica, tracciano la coscienza sporca del regime, le
parole si armano, insorgono le coscienze della ragione che sparano sul rovesciamento dello
scenario e invitano alla conquista di un quotidiano senza padroni ... la storia seguirà però un altro
corso ... e il fascismo di ritorno è ancora qui.
(1) Vedi: La Rivoluzione Molecolare, di Felix Guattari, Einaudi 1978. (2) Vedi: Ma l'amore no / Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di
regime 1930/1943, di Francesco Savio, Sonzogno 1975. (3) Claudio Quarantotto, Il cinema, la carne e il diavolo, Il Borghese 1963. (4) Claudio Carabba: Il cinema del ventennio nero, Vallecchi 1974. (5) Vedi: Cinema dell'ambiguità / Rossellini, De Sica e Zavattini, Fellini, di Pio Baldelli, Samonà e Savelli
1969. (6) Vedi: Cinema dell'ambiguità ... , cit.
|