Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 115
dicembre 1983 - gennaio 1984


Rivista Anarchica Online

Quando la scuola é sorda
di Alessandro Scarpellini

L'esperienza di un insegnante per bambini ipoacustici

Sono un giovane insegnante comunale, opero da qualche anno nella scuola elementare per favorire (è il mio lavoro) l'integrazione e l'inserimento dei fanciulli portatori di handicaps.
Il termine «alunni portatori di handicaps» o più comunemente «handicappati» è così generale, indefinito, da creare pericolosi fraintendimenti ed abusi. C'è anche chi include in questa categoria i disadattati e i caratteriali. La legge 118 del 1971, che ha avviato l'inserimento di bambini «diversi» (gli alunni delle famose scuole speciali e classi differenziali), così definisce i bambini portatori di handicaps: (...) che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età. Ma tale disposizione ministeriale, come d'altronde le successive circolari, non definisce il problema e soprattutto non lo esaurisce, al massimo lo solleva. Lo stesso termine handicappato risulta di dubbia interpretazione, anche se quest'anno, per ragioni di bilancio pubblico, si tende a prendere in considerazione legalmente solo i bambini con problemi organici e clinici.
Ci sono spastici e disabili con intelligenza sufficiente, per i quali le strutture architettoniche delle scuole sono ostiche anche ai più elementari bisogni. Ci sono sordastri, ipoacustici, ciechi, che necessitano di particolari sussidi didattici e di interventi di specialisti, oltre che del continuo ausilio di insegnanti di sostegno con specifiche competenze. Ci sono i cosiddetti mongoloidi, che non possono certo stare in una classe quattro ore a vegetare senza esplodere in comportamenti di «rifiuto». Ci sono gli insufficienti mentali con danni cerebrali o microdanni, che necessitano di particolari interventi individualizzati che poco o niente hanno a che fare con la didattica tradizionale (dettati, problemi, poesie, testi, riassunti, operazioni, ecc. ecc.) ...
Se qualcuno vivesse, come me, dentro la scuola, assisterebbe a cose ben curiose, ai piccoli e grandi drammi della vita scolastica di tutti i giorni: conseguenze logiche di una cattiva organizzazione dei servizi, a volte di una mentalità poco disponibile ed aperta degli operatori scolastici, ma soprattutto conseguenze di una legge che ha curato solo l'aspetto formale del problema senza preoccuparsi di creare le condizioni reali per l'inserimento degli handicappati nella scuola dell'obbligo.
Lo Stato doveva rispondere in qualche modo a quella parte dell'opinione pubblica (quella direttamente interessata e quella progressista) che chiedeva la fine dello scandalo pubblico delle scuole speciali (spesso private) e delle classi differenziali (in genere pubbliche): la loro abolizione è stata però una convenienza politica, una elusione demagogica del problema. Addirittura si arriva a rimpiangere le scuole speciali, che almeno, operavano con competenza.
Nelle scuole italiane ci si arrangia, per gli handicappati, come si può: mancano, agli insegnanti, sufficienti conoscenze dei problemi specifici che si trovano ad affrontare, mancano i sussidi opportuni, manca il personale ausiliario specializzato (i «custodi») che li accudisca o li aiuti nelle loro esigenze fisiologiche e di movimento, mancano gli insegnanti di sostegno, mancano gli interventi specialistici, manca una soddisfacente opera di prevenzione e di intervento da parte delle Unità Sanitarie Locali, manca un progetto di «nuova» scuola per tutti, ecc. ecc.. Ci si raccomanda, insomma, alla buona volontà degli educatori e degli operatori, ai loro sforzi più o meno volenterosi ma molto improvvisati.
L'handicappato diviene così un vero e proprio «handicap» per l'insegnante di classe, che si trova ad affrontare, praticamente da solo, questo alunno «diverso» che non trova sempre interessante e sopportabile la scuola in cui è stato inserito, che non è certo partecipe alle attività proposte, e che si mostra a volte insofferente (indisciplina, aggressività, ecc.), ostacolando la «normale» vita della classe. Non dovrebbe troppo scandalizzare che molti bambini «problematici» trascorrano buona parte della mattinata nei corridoi o nelle aulette appartate, vigilati dai custodi od assistiti dagli insegnanti di sostegno, perché è veramente insostenibile la loro presenza in classe o perché, e questo è gravissimo, indesiderati dai loro insegnanti di classe. Gli stessi insegnanti di sostegno (da non confondere con gli specialisti, che sono un'altra cosa) dovrebbero aiutare l'insegnante di classe a creare situazioni particolarmente propizie all'handicappato che ha bisogno di spazi didattici «diversi» per esprimersi (si parlava, nella legge 517, anche di attività integrative), ma questo non succede, anche perché la normativa prevede un insegnante di sostegno ogni quattro bambini portatori di handicaps (sei ore settimanali ciascuno, e non sempre).
Lo stesso ruolo che deve avere un insegnante di sostegno è ancora velato da un fitto mistero. I discorsi dei pedagogisti nelle conferenze ufficiali sono molto aperti ed interessanti ma la loro applicazione pratica non esiste: un insegnante di sostegno è tutto, ma in pratica «niente».
Bisogna ricordare che alcuni handicaps necessitano di accertamenti e trattamenti assai precoci, ma le strutture sanitarie sono insufficienti ed inefficienti.
L'équipe psico-pedagogica che dovrebbe interessarsi dei «problematici» che frequentano la scuola dell'obbligo manca di personale sufficiente, interviene in un territorio vastissimo, riesce solo a dare consigli molto generali agli operatori scolastici riguardo alle particolarità educative: il suo compito principale sembra quello di sfornare diagnosi ufficiali, perché il Provveditorato assegni personale di sostegno al Circolo didattico in cui sono presenti i bambini portatori di hanicaps. Gli specialisti, i terapisti, non intervengono nella scuola, essi operano negli appositi centri o nelle cliniche universitarie dove i bambini bisognosi sono condotti per iniziativa dei genitori. Spesso, all'handicappato viene solo garantita la frequenza scolastica.
La scuola dell'obbligo che boccia pure i normali («che perde per la strada tanti bambini senza poi tornarli a cercare» diceva Don Milani) come può soddisfare realmente le esigenze umane, intellettive, manuali, dei bambini portatori di handicaps?
Tutte le istituzioni (compresa quella scolastica) orbitano attorno al concetto di norma e produttività, considerate le anime della nostra società, e non intorno all'individuo come essere che vive, che esiste, che ha bisogno di esprimersi, comunicare, potenziarsi, divenire. Manca il senso dell'individuo e della sua importanza sociale, economica, politica, umana. C'è scarsa chiarezza pedagogico-didattica sulle finalità del «diverso» nella scuola che dovrebbe essere di tutti e quindi anche sua. Addirittura c'è chi pensa che inserire l'handicappato in una comunità di «normali» significhi «normalizzarlo» il più possibile (come se fosse una scimmia da «umanizzare», addomesticare, e non un individuo), cioè operare come se lo sviluppo delle sue potenzialità fosse indissolubilmente legato al fatto di raggiungere il maggior numero possibile di «prove» e di «comportamenti» dei bambini «normali».
Necessita un nuovo modo di «vivere» l'educazione, di operare sia con i fanciulli cosiddetrti diversi che con quelli cosiddetti normali; la scuola non dovrebbe essere il solo veicolo di educazione e la sola struttura pubblica educativa.
Le strutture anguste e precarie, la mancanza di spazi educativi, l'impossibilità di processi di socializzazione, le metodologie arcaiche e la pesantezza di contenuti, l'intellettualismo e il rinnovamento ai soli procedimenti didattici, la chiusura alla realtà ambientale, la rigidezza della struttura classe e l'assenza di una comunità educatica più vasta, la mancanza di programmi promozionali per stimolare la spiccata originalità personale, l'ottusità nel ridimensionare sempre il bambino all'omogeneità anonima dello scolaro, l'incapacità di piena valorizzazione del potenziale umano (la creatività), relega il bambino portatore di handicaps ad essere (anche se gli è assicurata per legge la promozione e persino la licenza media) un emarginato o non sviluppa pienamente le sue possibilità.
Qualche passettino si è fatto nella scuola elementare, in quella media tutto è ancor più problematico, ma l'integrazione e l'educazione è parziale, quando non si deve addirittura parlare di assistenzialismo. In sostanza si tratta di fare di ciascun handicappato un problema educativo di cui è si responsabile il docente, ma nella sua realtà di animatore culturale, capace di fare di questo problema umano un problema alla cui risoluzione devono saper collaborare, con responsabilità diretta, gli altri alunni, le famiglie, gli organi collegiali, le strutture scolastiche ausiliarie, la stessa società, in una visione sociale dove l'uguaglianza fra uomini liberi sia alla base del civile convivere, e generi l'impulso alla mobilitazione delle coscienze perché nessun talento umano venga disperso, schiacciato, sottomesso, represso, sfruttato, emarginato.
Il discorso dell'inserimento dell'handicappato nella scuola dell'obbligo (appena all'inizio) per lo Stato è già finito, ma noi dobbiamo denunciare che le autorità competenti non promuovono sufficientemente la sua educazione e non affrontano veramente l'essenza del problema, che l'handicappato spesso è un emarginato e un frustrato nella scuola di tutti, oltre che nella società di tutti. Così come la nostra società è la società di quelli con due mani e due gambe che funzionano, di quelli che sentono e vedono bene, di quelli il cui cervello funziona «normalmente», anche la scuola di oggi è la scuola per i bambini senza troppi problemi, per quelli che sanno far di conto e leggere: per i «normali».
Bisogna rilevare che la scuola d'oggi, come d'altronde la società attuale, non soddisfa neppure l'individuo normale con i suoi sensi, con la sua mente, con i suoi sentimenti, con le sue esigenze.
Non vedo prospettive rosee per il domani (nella società come nella scuola), intanto il Ministero della Pubblica Istruzione ha ridimensionato spaventosamente il numero degli insegnanti di sostegno (altra disoccupazione ed altra più gravosa emarginazione), giudicando improvvisamente «normali» dei bambini che prima erano considerati «handicappati». Non c'è stato nessun miracolo: lo Stato doveva risparmiare e ha comandato ai Provveditorati di respingere il maggior numero possibile di diagnosi.
L'inserimento degli handicappati nella scuola dell'obbligo è stato uno dei tanti giocherelli di potere che dovrebbe far riflettere sul concetto stesso di Stato e sulla sua utilità sociale.