Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 115
dicembre 1983 - gennaio 1984


Rivista Anarchica Online

Nonostante il vetro
di Franco

Cronaca di un colloquio

Il carcere speciale femminile di Voghera è situato un po' fuori dalla città, in campagna, ma comunque non molto distante, un chilometro circa dalla stazione.
Sconsiglio pertanto chi dovesse andare a trovare una qualche detenuta di servirsi del taxi; io che da una parte era la prima volta che andavo a trovare qualcuna e che dall'altra ero arrivato con il treno all'ultimo momento, verso le 10 del mattino, sono stato in un certo senso costretto a servirmi di questo mezzo. 7.000 lire mi ha preso la taxista, molto meno mi era costato il tragitto di andata e ritorno Milano Voghera in treno.
Quando si arriva sul posto l'impressione non è quella di trovarsi davanti ad un carcere, sembra piuttosto di trovarsi di fronte ad una base segreta tipo quelle che ci vengono fatte vedere in certi film di fantascienza. Isolato dal mondo, il carcere è invece abbastanza vicino alla città, solo che la gente non ha modo di accorgersi della sua esistenza se non andando sul luogo. Fuori, davanti alla cancellata, vi stazionava, e penso vi stazioni tuttora, un autoblindo militare tipo Bologna '77 e un paio di veicoli dei carabinieri, un altro di questi fa continuamente avanti e indietro la strada che porta al carcere.
Una specie di portineria dove ai guardiani presenti si dice che si è lì per un colloquio e con chi. Un veloce controllo e si viene fatto passare.
Sono all'interno del carcere e l'impressione è quella di trovarmi in un posto dove tutto è automatizzato e tutto si svolge in senso elettronico; mi guardo attorno, forse è più l'impressione avendo già sentito parlare molto di questo posto e quindi già influenzato in una certa maniera ma se da un lato ci si aspetta qualcosa di diverso, che so, le telecamere dappertutto, dall'altro ci si rende conto di passare attraverso una certa realtà e si comincia a provare un certo disagio.
Ad uno sportello si presentano i documenti che vengono subito controllati. Sono presenti un guardiano e una guardiana. Sempre a questo sportello si possono consegnare anche dei soldi per la detenuta, soldi che poi vengono caricati in un libretto personale, prassi questa di ogni carcere. In un telo che poi viene fatto scorrere all'interno di una stanza si possono appoggiare pacchi e sacchetti con indumenti di vario genere. L'unica roba che viene fatta entrare in carcere è per l'appunto da una parte il vestiario e dall'altra della bigiotteria tipo anelli, orecchini, collanine, ecc.: viveri assolutamente niente.
Seguo un guardiano che mi invita a depositare tutta la roba di metallo che mi ritrovo in un cassetto (moneta, chiavi, ecc.) e inoltre anche una eventuale penna, giornali e sigarette (il colloquiante, oltre a non fumare, non può prendere eventuali messaggi o appunti o qualsivoglia notizia che la detenuta gli riferisce, al massimo può cercare di tenersela in mente). Mi fa poi entrare in una specie di ascensore o, tanto per restare in un certo tema, una specie di macchina del tempo, da cui esco dall'altra parte, dopo che questa ha fatto un giro su se stessa. Un po' come quando si vanno a fare delle lastre. Probabilmente si sarebbe accesa qualche luce rossa se nelle mie tasche fosse rimasto un qualche oggetto metallico. Anche nelle normali carceri ci sono certe macchine metal detector, ma è probabile che questa sia molto più perfezionata e sicura sotto ogni punto di vista.
Usciamo in un cortile, vedo diversi altri secondini, entriamo in un altro caseggiato e poi... finalmente nella sala colloqui. Non è comunque passato molto tempo da quando sono giunto alla «portineria» del carcere e la prassi è abbastanza semplice e scontata.
I carceriari con cui sono venuto a contatto, perché di carceriari si tratta, non mi sono sembrati particolarmente sgarbati, truci o carogne; non erano nemmeno gentili, disponibili o affabili: non erano uomini e donne ma dei mestieranti ormai completamente inseriti in un certo ingranaggio elettronico e automatizzato, loro facevano parte di questo ingranaggio.
La sala colloqui è abbastanza grande ma non può che contenere 6 o 7 detenute da una parte e altrettanti colloquianti dall'altra. Un lungo bancone e un vetro che da questo parte e arriva fino al soffitto, separa la detenuta dal suo visitatore. Non ci sono invece altre barriere fra detenuta e detenuta e fra visitatore e visitatore. Per cui ancora lo scorso settembre quando ho fatto il mio primo colloquio succedeva che due detenute avessero occasione d'incontrarsi e scambiarsi un abbraccio proprio in sala colloqui dopo molto tempo, anche dei mesi che non si vedevano. E questo perché la situazione che vivevano fino a poco tempo fa era di totale isolamento. 2 ore d'aria a 2-3 per volta, le altre 22 ore ognuna rinchiusa nella sua cella. Oggi le ore d'aria sono 3 e ci sono anche 2 ore di socialità settimanali dove si possono trovare assieme in una quindicina; i giornali dicono che durante il giorno le porte delle celle vengono ora lasciate aperte ma che sussiste l'impossibilità che il carcere possa arrivare a trasformarsi completamente in normale per via dei criteri elettronici e di massima sicurezza con cui è stato ideato.
Inseriti sul bancone a mezzo metro uno dall'altro ci sono due microfoni, uno per ascoltare l'altro per parlare; questo sia dalla parte del colloquiante che da quella della detenuta. Una situazione paranoica di impaccio tremendo è stata quella da me vissuta a contatto con i vetri.
Mentre la compagna parlava abbassata con la testa verso uno di questi microfoni, io ascoltavo attraverso il mio che era ad una certa distanza e cercavo contemporaneamente di guardarla. Ma non è semplice guardare e contemporaneamente ascoltare, fissare quella donna che sai, cerchi di immaginare la vita che conduce rinchiusa in questo carcere. Non è semplice, anzi che impaccio tremendo, nemmeno quando lei finisce di parlare e si sposta vicino all'altro suo microfono per ascoltare. [..] atturato questo carcere soprattutto per far capire come la ulteriore «sicurezza» dei vetri che separano reclusa da visitatore sia un'inutile crudeltà. O forse i vetri servono solamente per impedire quegli abbracci, quei baci, quell'affettività che si sprigiona in un incontro fra persone che si vogliono bene.
In questo caso non servono: quando il colloquio è finito e ci siamo salutati, prima di doverci allontanare le nostre mani sono riuscite a stringersi fortemente attraverso il vetro.