Rivista Anarchica Online
Sul gulag sventola bandiera nera
di Louis Mercier Vega
Vediamo l'esempio dell'Ucraina. Nel 1923, il movimento machnovista è ferito a morte. L'armata
rossa, liberata dalla pressione delle truppe bianche - che i partigiani anarchici avevano fortemente
contribuito ad eliminare - può gettare le sue forze contro le comunità contadine, i soviet liberi, i
distaccamenti di volontari. La macchina dello stato bolscevico, in fase di costruzione, vuole
funzionare come solo e unico potere. Le sue debolezze di ogni genere non possono essere superate
che grazie ad un sacro egoismo ed al sacrificio di tutto ciò che essa non può assimilare. Così sono
liquidate tutte le organizzazioni anarchiche, socialiste, sindacaliste. La Kronstadt dei marinai e
l'Ucraina contadina sono i simboli della contro-rivoluzione. Nestor Machno muore a Parigi, deturpato da cicatrici, malato, disperato. Qualche superstite della
Machnovcina verrà a farsi ammazzare nel 1936 in Spagna, nelle file della Colonna Durruti. Non resta quindi più nulla, né uomini, né organizzazioni, né simboli. In tutti i manuali di storia
sovietici il machnovista viene presentato come un bandito, un propagandista, un alleato dei
Bianchi, un complice dei kulak. Passano gli anni, le purghe, il delirio staliniano, i massacri. Passano delle nuove generazioni.
Nemmeno all'Accademia di guerra si insegnano più le tecniche machnoviste di utilizzazione dei
materiali civili ai fini di guerra, come si faceva ancora negli anni Trenta. E poi, alla morte di Stalin,
non fu più possibile continuare a riempire i campi di concentramento, i quali (oggi non ci si ricorda
più) erano dei campi di lavoro, dei centri di produzione di manodopera quasi gratuita. Le grandi
retate politiche, le deportazioni contadine, poi le infornate di popolazioni allogene, e ancora i
prigionieri di guerra avevano alimentato la grande caldaia concentrazionaria. Nel 1954 il
combustibile umano si esaurisce. Un grande numero di campi viene chiuso. In qualche mese gli
schiavi-lavoratori, mettendo a profitto il periodo di transizione, l'immensa fatica dell'apparato
staliniano che tentennava senza Stalin e l'aggiungersi delle difficoltà sorte per la mancanza di
manodopera servile, si organizzano e riprendono la direzione clandestina dei campi fino ad allora
tenuta dai prigionieri comuni. I più attivi appartengono alle popolazioni allogene: soprattutto
Baltici e Ucraini. Scoppiano gli scioperi. Vorkuta, poi Norilsk. E sull'albero maestro di Norilsk sale
la bandiera nera machnovista. Questa straordinaria filiazione non ha nulla di misterioso. La si ritrova in parecchie sette religiose
che si sono mantenute, e talvolta si sono sviluppate, nell'inferno dei campi di concentramento, nelle
carceri russe. Nella maggioranza delle testimonianze sulle prigioni e i campi figurano degli
anarchici, intrattabili, ancorati alle loro convinzioni, duri come dei sassi ben lisciati dalle sevizie e
dai trattamenti brutali. Anton Ciliga nelle sue memorie parla degli «ultimi cavalieri del
socialismo». Nelle memorie di Alexander Weesberg, pubblicate in francese col titolo di
«l'Accusé)), compare un piccolo ebreo anarchico che resiste a venti e maree pur ridotto ad una larva
umana senza alcuna difesa dal freddo e dalla umidità dell'isolamento. Siamo in pieno periodo di repressione staliniana. Gli arresti si moltiplicano coi pretesti più
inverosimili. I poliziotti e i magistrati non hanno che una preoccupazione: far confessare ai detenuti
per sfuggire essi stessi all'epurazione. Per ottenere la firma dell'accusato sotto le dichiarazioni
coniate dall'accusa le botte, le torture, le minacce, i ricatti sono diventati mezzi correnti. Il piccolo sarto ebreo Aizenberg non bara. Alla domanda: «Chi ti ha reclutato?» risponde: «Il
principe Kropotkin». E quando gli chiedono «Chi ti ha fatto entrare nell'organizzazione?» replica:
«Cittadino giudice, non deve essere molto tempo che esercita la sua professione, altrimenti
saprebbe che gli anarchici sono individualisti. Non riconosciamo nessuna organizzazione ... La
gente che condivide le nostre idee forma solamente una comunità di pensiero. Nessuno obbedisce
ad un altro». Alle ingiurie, ai pugni, alle promesse di «sistemarlo» (come nemmeno tua madre ti potrebbe
riconoscere), Aizenberg risponde: «Potete riempirmi di botte, è il vostro mestiere. Voi siete le
guardie ed io sono il prigioniero. Ho passato sette anni nella Katorga dello Zar. Anche lì mi hanno
bastonato. Ma non avete il diritto di insultarmi, perché sono un uomo come voi». E Weissberg
scrive: «Questo piccolo sarto ebreo consunto raggiunse un record nella storia della N.K.V.D. ( ... )
Di dodicimila detenuti, era il solo che lottava per un'idea. Noi tutti eravamo vittime
dell'oppressione. Lui lottava contro l'oppressione». E' possibile ritrovare questo fenomeno con simili analogie in altri paesi, in circostanze altrettanto
assurde come lo sono gli stessi avvenimenti. Così nelle isole italiane di deportazione, due albanesi
detenuti da parecchi anni a causa della loro nazionalità, dopo l'invasione di Mussolini in Albania, si
trovano mescolati a dei prigionieri politici anarchici coi quali essi simpatizzano. Alla fine della
guerra sono liberati e rientrano nel loro paese. I loro nomi ritornano poi alla ribalta: fucilati dal
regime di Henver Hodjia per «deviazioni anarchiche» ... Ora, al confino c'erano anche alcuni
abissini, in contatto con tutte le scuole socialiste rappresentate nei luoghi di deportazione. Il che
apre nuove prospettive per i cercatori di influenze misteriose.
(tratto da La pratica dell'utopia, Edizioni Antistato, Milano 1978, pagg. 18-20)
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