Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 12 nr. 106
dicembre 1982 - gennaio 1983


Rivista Anarchica Online

...Altro amor io preferia...
di Paolo Arduino

Qualche tempo fa mi colpì questa dichiarazione del fotografo americano Helmut Newton (Panorama, 2 novembre 1981): «Non vorrei che si cadesse in un equivoco e si pensasse, per nobilitare la mia opera, che io faccia dell'erotismo e non della pornografia. La mia, e lo rivendico, è pornografia ... ». Dichiarazione singolare, se si guarda alle sue immagini, ma con un fondo di verità: non è infatti possibile, finché impera la repressione sessuale, liberare le immagini dall'oscenità di chi le produce e di chi le guarda. Perché si verifichino le condizioni di un cambiamento, oltre a considerare che non può esistere libertà sessuale al di fuori di un più ampio progetto di liberazione e che d'altro canto non si può parlare di rivoluzione trascurando le implicazioni che la sessualità ha in tale progetto, è necessario aver chiaro che essendo anche noi oggetto di repressione, siamo in qualche modo, in qualche più o meno remoto anfratto del nostro cervello, nemici del progetto stesso. Trascurare questo fatto vuol dire pregiudicare in partenza le nostre possibilità.
E' esemplare, a tale proposito, la storia di questi ultimi anni: una generazione di «rivoluzionari» s'è impegnata a combattere un nemico che si ostinava, ed ancor oggi si ostina (con i suoi epigoni terroristici) a voler vedere solo fuori di sé. La sua involuzione, le sue sconfitte sono anche il frutto di una visione manichea del mondo, dell'aver dimenticato che il nemico più tenace, a volte, non è quello esterno, ma quello che s'annida in noi stessi. Ma quanto ognuno di noi è impregnato di questo modo di vedere? E' allora necessaria una continua revisione del nostro modo di pensare e di agire.
Per ciò che concerne la liberazione sessuale, ritrovare la sostanza e il vero significato di termini come erotismo, pornografia, ecc. non è mera questione di linguaggio, ma il primo passo verso la chiarezza e verso una possibile liberazione. «La strutturazione dell'uomo nel senso della sottomissione ad un'autorità avviene - dobbiamo ricordarcelo bene - fondamentalmente attraverso l'ancoramento dell'inibizione sessuale e della paura negli elementi viventi degli impulsi sessuali». (Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo, SugarCo pp. 62).
Sulla questione sessuale, nella pratica quotidiana e nelle idee, due cose vanno evitate: le soluzioni moraliste e quelle libertine. Purtroppo anche tra i compagni raramente si sviluppa una pratica sessuale complessiva di segno libertario; si assiste viceversa ad un'oscillazione tra licenziosità e repressione, né par di vedere grandi tentativi per trovare pratiche più congeniali ad un progetto di libertà. Quando si parla di bellezza, di erotismo, ecc. ci si accorge che le considerazioni che vengon fatte sono spesso contraddittorie, ambigue e nella migliore delle ipotesi, confuse.

Erotismo e pornografia
Prima di iniziare, preciso di non aver trovato corrispondenza tra l'uso corrente del termine «erotismo» e il suo originale significato di «passione amorosa».
Se ci affidiamo al senso letterale del termine «erotico», il suo uso risulta corretto quando si parli ad esempio di «stampe erotiche giapponesi», in quanto esse sono rappresentative della passione amorosa, così com'è corretto parlare di pellicole o di stampa erotica per tutto quel settore di produzione (piaccia o non piaccia) normalmente definito «pornografico» e in cui esiste tale tipo di rappresentazione. Non è altrettanto corretto l'aggettivo «erotico» riguardo alla semplice rappresentazione del nudo, dove non appaia una qualunque forma di attività sessuale. La stampa normalmente definita erotica finisce così alcune volte per non essere affatto tale.
Per ciò che riguarda la pornografia (oscenità di parole o di disegno), si entra nel campo delle valutazioni soggettive e quindi ogni tipo di produzione, secondo la valutazione di ognuno, può venire inserita in questa categoria.
Questa confusione di termini risulta estremamente sospetta perché, a ben guardare, appaiono sullo sfondo di questa manovra le implicazioni culturali. Si entra cioè nel campo di quello che è il maggior controllo esercitato dal sistema sull'individuo: la cultura arriva sempre prima dei carabinieri.
Il significato originale del termine «erotico» è dunque indicativo dell'attività sessuale e non ha in sé connotazioni positive o negative. Ma se nell'uso corrente esso è sostituito da un termine che esprime una valutazione morale (osceno) o qualitativa (bello, brutto), si finisce per porre su di un unico piano e per confondere la rappresentazione dell'attività sessuale e l'uso commerciale e strumentale di essa. La rappresentazione dell'attività sessuale è sempre rappresentazione erotica, bella o brutta che sia, e l'uso improprio di questo termine rafforza un concetto caro alla mentalità sessuo-repressiva del sistema e cioè: sesso=sporco.
Se il termine «erotico» finisce per indicare cose che non hanno più direttamente a che fare con l'attività sessuale, la gente crede erotico ciò che non è. Contrariamente a quanto si crede, le immagini della «cara» Marilyn non sono erotiche, ma erotizzanti, poiché tale termine indica l'attribuzione di un carattere erotico a ciò che non ha immediata attinenza con l'erotismo: in tal modo ci si può erotizzare con un reggicalze, con un manico di scopa o con la cuccuma del caffe.
La gente è bombardata da immagini e comportamenti erotizzanti, dei quali diventa essa stessa propagandista, perché per poter dominare è necessario, come accade, che si produca un eccesso di erotizzazione a scapito dell'erotismo. L'industria sforna ogni giorno milioni di oggetti simbolo; lo spettacolo offerto dalle masse con lo sfoggio di tali oggetti è una messinscena celebrata sull'altare dell'infelicità, un inconcludente tentativo di godere. L'erotismo non è più tale, ma la sua sublimazione.
In una società in cui lo stato è il mediatore principe attraverso il quale deve passare ogni tipo di richiesta, anche l'erotismo e la sessualità non possono che soggiacere a questa condizione. Attraverso il mantenimento del tabù sessuale, sotto qualunque forma esso si presenti, lo stato offre all'individuo un surrogato di sessualità, di affettività, di erotismo. L'insoddisfazione che ne deriva non trova al momento attuale un'adeguata risposta: non sfocia nella rivolta, ma trova «facili» sbocchi nel consumismo, nelle mode, nell'eroina, nella musicomania, nel rimbecillimento televisivo. Ciò che è pornografico dunque, nella produzione definita tale, non è mai l'immagine in se stessa, ma il ruolo che essa svolge: quello di sostituirsi ad un'originaria necessità di socialità, di affetto, d'amore.

Autoritratti
Non entro qui nel merito del perché l'uomo abbia avuto, ed ha, la necessità di rappresentarsi; resta il fatto che fin dai suoi esordi l'uomo è rimasto affascinato da questa possibilità. Forse, osservando se stesso e il mondo circostante riflessi in uno specchio d'acqua, dopo l'indifferenza, il sospetto e la curiosità di una lunga teoria di generazioni, l'uomo ha infine raccolto nelle proprie mani la forza di un segno, l'inizio di una narrazione. Attraverso milioni di segni, costruiti, modificati, distrutti, rubati, reinventati, rinnovati, l'uomo ha raccontato se stesso anche più di quanto avesse intenzione di fare. Ha attraversato la storia inventando grafemi sempre più complessi, fino a produrre quelli talvolta astrusi e babelici dei giorni nostri. Il linguaggio della scheda perforata trascende la propria funzione e fornisce, con gli altri linguaggi della dominazione (intendo per linguaggio qualsiasi scienza o forma di comunicazione), le tessere di un mosaico in cui, come nell'acqua primeva, torna a rispecchiarsi l'immagine della condizione umana. Il linguaggio della scheda perforata diventa il balbettio della lingua perforata, incapace di produrre suoni diversi da quelli del dominio, impossibilitata a produrre le tessere di quel mosaico in cui appaia infine l'immagine della libertà umana.
Graffiando animali sulla roccia, impastando la fecondità nell'argilla in forme femminili colme, pregne in ogni parte del corpo, l'uomo ha raccontato la precarietà della propria vita, legata al doppio filo della caccia e dei figli. Cambiati i motivi della precarietà, egli ha trovato comunque il modo di portarsi appresso nel proprio cammino questa scomoda compagna. La precarietà non ci ha mai abbandonati; essa continua ad occuparsi di molti aspetti della nostra vita, anche se, per l'intrecciarsi dei linguaggi e per una loro sempre maggiore difficoltà di comprensione, essa rimane nascosta o si presenta a volte sotto mentite spoglie. Come il peggiore dei pidocchi o il migliore degli amici essa ci accompagna e si manifesta attraverso i segni, le immagini. La gran produzione e diffusione della grafia erotica, di questi perfetti e policromi graffiti, denuncia la precarietà di uno degli aspetti più importanti della nostra esistenza, denuncia insicurezza, paura e povertà nella nostra vita sessuale e affettiva.

La bellezza
Finché si rimane nel campo del sensoriale (freddo-caldo, liscio-ruvido, ecc.), ognuno di noi fornisce risposte grosso modo analoghe. Ma quando si parla di bello o brutto e si entra sicuramente nel soggettivo, è il nostro immaginario a formulare una valutazione: un sì o un no. Se l'oggettivo è l'ambito del determinato, del precostituito, dell'immodificabile, il soggettivo è l'ambito della libertà individuale, perché, anche se è racchiuso in un ambito culturale o di classe, ad esso rimane in ogni caso la possibilità di cambiare, di rompere lo schema. E' dunque nel campo del soggettivo che si gioca la gran carta della libertà.
Di bello e brutto ci si occupa politicamente tanto poco, eppure la nostra vIta quotidiana è una continua richiesta di questo tipo di valutazione. Con le stesse merci alimentari che richiederebbero considerazioni diverse: fresco, genuino, sofisticato, ecc., finiamo per comportarci in modo analogo. Merci sempre più racchiuse, nascoste, misteriose, dove la pubblicità e la confezione determinano troppe volte le scelte. Il supermercato come teatro, la merce come corpo, sul palcoscenico della sublimazione, luogo dove donne e uomini mutilati del loro erotismo, copulano con la merce. «Arriva il concorde ... Il risultato più incredibile della tecnologia aeronautica, volerà, per la prima volta, sul cielo di Torino e si fermerà ... per farsi vedere, toccare, accarezzare ... » (pubblicità Bosch-Quick-Air France, su «La Stampa» del 4.9.1982).
La loro bellezza è dunque sinonimo di asservimento, l'uomo ridotto in catene bacia la polvere dove passa il suo feticcio, ne consuma gli escrementi. La loro bellezza è sinonimo di razzismo, è strumento di potere, di oppressione, di sofferenza; essa non ammette il difforme. La loro bellezza è sinonimo di religione: le regole ed i canoni sono opera di una casta, ed essa sola ha il diritto di stabilire ciò che è dentro e ciò che non lo è; tutta una genia di sacerdoti tende il dito ad indicare la divina meta. La loro bellezza è calcolo economico: il «bello» nasce, invecchia, muore e rinasce al ritmo della necessità produttiva. La loro bellezza è tante altre tristi cose, ma prima fra tutte è la rapina permanente alla capacità individuale del godimento della bellezza. Attraverso l'irreggimentazione dei gusti e un condizionamento martellante, vien ridotto il nostro orizzonte, il nostro movimento, il nostro piacere. Il corpo umiliato e avvilito è infine mutilato: un'altissima percentuale dei casi di impotenza sessuale è dovuta a cause emotive. La loro bellezza funziona a colpi di pompetta. «Un serbatoio grande come una noce, una pompetta, due tubicini collegati a un paio di cilindretti gonfiabili inseriti nel pene, tre ore di camera operatoria, una decina di giorni di degenza ed è fatta: il maschio che soffre di impotenza sessuale d'ora in avanti avrà solo da premere la pompetta per iniziare e concludere trionfalmente l'amplesso finora negato. Un altro tocco alla pompetta e il pene tornerà nella posizione di riposo» (Panorama, 27 giugno '78).
Se questa fosse la bellezza, si potrebbe buttare senza troppi rimorsi, ma ci troviamo di fronte ad una precisa volontà di inganno e dobbiamo capire. «Che tempo fa. Stamattina la fornaia mi dice: fa ancora bel tempo! ma fa caldo da troppo! (la gente di qui trova sempre che fa troppo bello, troppo caldo). Io aggiungo: e la luce è così bella! Ma la fornaia non risponde, e una volta di più osservo questo contorcimento del linguaggio, di cui le conversazioni più futili sono un'occasione sicura; capisco che vedere la luce deriva da una sensibilità di classe, o meglio, dato che sono delle luci «pittoresche» che sono certamente gustate dalla fornaia, ciò che è socialmente marcato è la vista «vaga», la vista senza contorni, senza oggetto, senza figurazione, la vista di una trasparenza, la vista d'una non-vista (questo valore infigurale che c'è nella buona pittura e che non c'è nella cattiva). Insomma, niente di più culturale dell'atmosfera, niente di più ideologico del tempo che fa» (Barthes di Roland Barthes, Einaudi, Gli struzzi 220, pp. 198). Esistono dunque ambiti culturali o di classe in cui è racchiusa la bellezza. Il mantenimento di tali ambiti, la massificazione dei gusti all'interno degli stessi e un'adeguata pianificazione della «bellezza» sono le basi sulle quali l'industria costruisce le proprie fortune. L'obiettivo del discografico è quello di vendere milioni di dischi, quello dell'editore di produrre il bestseller, ecc. e tutto ciò non sarebbe possibile al di fuori di quest'ordine di cose.
Non a caso questa civiltà ha prodotto mestieri inqualificabili come quello di: «opinion maker» (formatore d'opinione). Lugubre, se si pensa che esso nasce anche per espressa delega di milioni di individui che hanno rinunciato a formarsi delle opinioni usando il proprio cervello, preferendo acquistare a prezzi salatissimi (si paga in libertà) opinioni, concetti e idee preconfezionate. E invece dell'insicurezza che dovrebbe derivar loro da questa specie di morte, vomitano banalità e luoghi comuni con la sicurezza dell'imbecille che ha fatto l'acquisto con il marchio di garanzia e passerebbero sul cadavere di chiunque pur di veder confermate le loro «buone ragioni». Così come c'è sempre qualcuno che trova onorevole fare il boia, anche nel caso dei formatori d'opinione non v'è alcuno che si ritenga disonorato da una simile «professione». Ed ecco che i nostri bei pensierini, pilotati dall'industria del dominio per mezzo di questi sudici cervelli, ci portano ad essere devoti adoratori del dio merce e ad una ricerca estetica (ricerca del bello) che si applica con assoluta indifferenza ad un lampadario o ad un individuo. Più si producono linguaggi o scienze che ci accomunano alle merci, più diventa sostanziale la cinica considerazione che: «non c'è nulla che non sia in vendita». Ma finché si tratta dell'acquisto di un lampadario, si può anche dire che siamo vittime del mercato; è quando si entra nel più delicato ambito dei rapporti umani che finiamo sicuramente per contribuire alla nostra e all'altrui infelicità.
Questo estetismo manierato, dilatato dal televisionismo, ci pone in una condizione di irrealtà: c'è un'orrenda analogia tra la nostra vita attuale ed un qualunque filmetto. Il mondo esterno è demotivato, monotono, non provoca in noi alcuna sostanziosa curiosità, poiché confondiamo il vivere con il sopravvivere, il reale con ciò che appare ai nostri occhi. La realtà diventa un flusso di immagini, noi non siamo che un'immagine (E' sorprendente, nonostante i «progressi» nel campo
educativo, che al bambino rimanga ancora la voglia di spaccare i giocattoli per vedere cosa c'è dentro).
Purtroppo la risposta a questa disumana condizione non è certo un'organica difesa, ma o un'irrazionale violenza o la fuga verso le cosiddette scienze magiche, le quali non possono risolvere il problema poiché non le cose in se stesse possono produrre un cambiamento, ma un diverso atteggiamento della mente e del corpo nei confronti delle cose. Nessuno vuol qui negare la ricerca estetica anzi, purché questa faccia riferimento alla volontà di rendere inattivi i condizionamenti dominanti, ad una critica globale e soprattutto ad un suo inserimento in un più generale progetto di cultura libertaria, essa è benvenuta. Certo stiamo parlando di una utopia, ma è l'unica alternativa alla pappa scotta che ci è stata servita.
Quando la ricerca estetica produce emarginazione e sofferenza, quando la bellezza non s'armonizza con la nostra vita, allora sospettiamo. La bellezza è un progetto individuale, un progetto di libertà.

L'immaginario
Parlo di immaginario e debbo accennare all'emozione, debbo parlare di educazione, di manipolazione; il discorso è inevitabile e s'allarga.
L'immagine della «sfera emotiva» rende bene l'idea del modo in cui l'individuo entra in contatto col mondo esterno. Conduttore, mediatore, filtro, l'emozione è il passaggio obbligato per ogni forma di conoscenza. La razionalità come ci viene presentata è un falso; lo stereotipo dell'uomo freddo e calcolatore è ridicolo, ma non è affatto ridicola la manipolazione che vien fatta delle nostre emozioni. Educare, purtroppo, vuol dire anche questo; abituare il fanciullo a convivere con la noia, abituarlo a pensare al mondo senza piacere, convincerlo intimamente dell'impossibilità di unire il lavoro ad un gioioso coinvolgi mento (politica dei sacrifici e del dovere).
Attribuendo inoltre un carattere sostanzialmente femmineo al manifestarsi dell'emozione (maschio è colui che ha il controllo delle emozioni), si contribuisce al mantenimento della discriminazione tra i sessi. L'emozione, inizialmente libera di espandersi in ogni direzione, viene così ad essere convogliata su alcuni «valori»; questo convogliamento, a cui diamo il nome di cultura, agisce da
ostacolo tra la sfera emotiva e il mondo esterno. Contemporaneamente ad esso, entrano in atto i meccanismi di difesa dell'individuo. Tutta la fenomenologia dell'adattamento e del disadattamento, ha a che fare con questa manipolazione. L'immaginario, per sua natura nascosto, protetto, diventa così un barometro sensibile della nostra condizione. Siano esse conscie o inconscie, le nostre fantasie culturalmente e socialmente «emendabili», trovano in esso un porto, un asilo. Così paranoie, ossessioni e utopie, si trovano a convivere in doloroso e precario equilibrio nel nostro immaginario, tra compromessi, lacerazioni, repressioni. Che fare dunque di quest'immaginario?
Esiste un timore e un pudore a parlare dettagliatamente dei nostri immaginari: timore che lo svelarsi della loro essenza annulli il miracolo della transustanziazione in piacere; pudore o vergogna che il parlarne ne riveli una dubbia sostanza. E l'utopia, quella che in un certo senso è la parte migliore del nostro immaginario, nonostante divori gran copia di carta e inchiostro, rimane estranea ad un vissuto in cui progetti e soprattutto esperienze sono lettera morta. Nella vita quotidiana essa risulta impotente, accantonata, negletta e il nostro immaginario cade in una rete di fantasie imposte.
Ogni generazione ha avuto i suoi miti, i suoi tic (oggetto a volte di riproposizioni), ma quando altri miti sono sopraggiunti, i primi sono decaduti: ciò che un tempo arrapava può oggi far sorridere e può verificarsi il caso che ciò che oggi fa sorridere possa un giorno fare arrapare. Il nostro è un immaginario di serie, in gran parte in mano altrui, ma dato che esso ci appartiene totalmente, è bene fare ogni tentativo per riappropriarcene. Il lato più pericoloso in questa storia è legato al meccanismo dei riflessi condizionati; pericoloso in quanto, oltre che per il sesso, la campanella del condizionamento suona ormai troppe volte nella giornata dei «poveri mortali», tanto da far spesso dubitare che ad essi sia rimasta una qualche capacità raziocinante. E' sgradevole pensare che le nostre emozioni manipolate riaffiorino al contatto di preordinate forme di sollecitazione (ad esempio la pubblicità): ciò che dobbiamo immaginare, ciò che ci deve eccitare o commuovere, il simbolo che dobbiamo cogliere. «Quanti centimetri di pelle mi fai vedere oggi padrone?». Ogni persona si dissolve così in un'immagine, ogni immagine parla questo tirannesco linguaggio. Ancor più sgradevole è il pensare che finché una campanella suonerà nella nostra testa, non avremo garanzia che ad essa non se ne aggiungano altre: troppi uomini son già morti convinti per la patria.
Esiste invero una forma di fariseismo in chi fa una graduatoria dei condizionamenti, in chi dice ad esempio: «io alla partita non ci vado e non capisco come si faccia ... », senza rendersi conto di rimanere a sua volta all'interno di condizionamenti socialmente tollerati dal proprio gruppo d'appartenenza. Come spiegare certe esistenze di compagni e di rivoluzionari che, esemplari fino alla tal data, cambiano poi di segno, se non pensando ad una breccia aperta dal sistema attraverso il tallone dei condizionamenti?
La mancanza di modestia, il sentirsi dei piccoli draghi, rende ancor più pericolosa la nostra condizione. Troppi compagni continuano a pensare: «tanto non mi faccio integrare, tanto non mi faccio coinvolgere ... » atteggiamento che li porterà in seguito a negare valore a quelle scelte etiche che essi non hanno fatto. Tali scelte non provocano effetti appariscenti o sconvolgimenti improvvisi; esse sono lo scorrere sotterraneo della rivoluzione delle coscienze, senza la quale qualunque rivoluzione rimane priva di sostanza e di efficacia. Per scrollarci il basto di dosso è allora necessario, senza togliere importanza all'attività politica genericamente intesa, ridare valore alle scelte individuali, riunire in un sol corpo l'utopia alla sua pratica quotidiana, senza più rimandi al giorno della resurrezione-rivoluzione.
Essendo l'immaginario il luogo deputato dei sogni e delle utopie, lo si è ancor più astratto dalla nostra vita reale, per il sacro terrore di rovinarlo. Questa latitanza ha consentito una completa libertà di manovra a chi ha sempre avuto interesse ad una sua fittiza libertà per poterlo colmare della più spregevole mercanzia. Anche per paura di gestire ci troviamo gestiti. La possibilità di affrontare positivamente i nostri conflitti, anziché tacitarli, parte anche da un diverso atteggiamento nei confronti della mente. Come mai un attacco all'immaginario, di fatto, non è considerato altrettanto lesivo di un attacco portato dal potere alle nostra persone fisiche?

Rompere la regola
La comune ha per me un valore simbolico; essa ha rappresentato da un lato la tensione ad un cambiamento sostanziale del modo di vita attuale, dall'altro l'assoluta incapacità a produrre strutture slegate dal cliché antagonista, impostate ad una maggiore complessità e varietà di situazioni, prodotte da necessità individuali non necessariamente accomunabili. Il suo fallimento rappresenta anche il comodo alibi per negare, nella situazione contingente, qualsiasi valore alla sperimentazione. Molte volte accade che dopo una scelta iniziale di lotta, subentri il «normale» tran tran che, come nella vita quotidiana, stagna tra l'abitudine, le difficoltà, la sfiducia e la comodità in una monotonia e in un grigiore di toni allarmanti. Il tutto è però prontamente tacitato da massiccie dosi di presunzione: ... e la routine continua. L'utopia in tal modo si degrada al ruolo di fantasticheria; dell'operaio, dello statale, dell'emarginato che, anarchici fin che si vuole, disperdono la propria tensione etica nei mille rivoli della banalità quotidiana. Si presenta anche qui il rischio delle soluzioni moraliste o licenziose: è solo un moralista il sognatore che, rimanendo estraneo alla sperimentazione, vuole un cambiamento radicale con «l'eliminazione dello stato». Mentre il «realista» che punta tutto sulla fabbrica e sulla questione economica diventa licenzioso, poiché finisce per difendere le strutture stesse del dominio, anche se su di esse cerca di modellare una veste anarchica. Così nel corso del tempo alcuni verranno trascinati via dalla corrente, altri finiranno in qualche ansa dove, girando in tondo, finiranno per perdere l'orizzonte, sprecando ognuno le proprie energie e le proprie possibilità.
Il terreno della pratica è dunque negletto; su di esso crescono solamente le erbacce del sistema e a poco giova deprecare, se non proviamo a buttare nella terra, concimata dalle idee, il seme anarchico, l'utopia; se non tentiamo l'impossibile, vista la miseria del possibile, perché l'utopia è il riprodursi della volontà contro ogni fallimento, contro ogni evidenza che si misuri sul calcolo matematico, sul metro della logica contingente, ma che è sempre in sintonia con il calcolo umano, con le esigenze e le necessità inderogabili di chi aborre il dominio.
La creatività, che è stata purtroppo confusa in questi anni con l'imbecillità, che è servita unicamente ad innalzare il livello dello spettacolo nel quotidiano panorama di squallore e di noia, deve tornare a riprendere il suo originale significato proprio attraverso quella sperimentazione che esce dall'ambito della «loro» ragionevolezza, del «loro» buon senso, della «loro» scienza, senza sensi di inferiorità, con consapevolezza per il maggior carico di difficoltà e di ostacoli che il «loro» odio per la libertà porrà sulla nostra strada, pronti a difendere con decisione ogni nostra conquista.
Questa cavatina finale potrà suscitare alcuni dubbi per la scarsa attinenza al tema. In realtà è impossibile proporre valide soluzioni rimanendo all'interno di un ambito specifico. La specializzazione, la divisione, la settorializzazione, sono la linea di condotta e la logica in cui si muove il dominio. Il «divide et impera» è stato applicato efficacemente al di là del suo ambito precipuo, poiché lo stato è nemico d'ogni libertà ed ogni uomo libero rappresenta per esso una minaccia. E dunque l'uomo và diviso non solo dagli altri, ma anche da se stesso, dalla possibilità di comprendersi. L'uomo è confuso, la sua vita è un susseguirsi monotono di situazioni frammentate prive di nesso. Il nostro sforzo è viceversa quello di unire, capire che non c'è possibilità di soluzione di alcun problema, sia esso il lavoro od il sesso, se non è messo in relazione con gli altri. E' impossibile, ed è un esempio, avere una vita sessuale libera e felice continuando a fare otto ore al giorno di lavoro sottoposto (scusate l'ovvietà), così come non è possibile un immaginario libero da condizionamenti se tutta la nostra vita è impostata da altri.
Solo rompendo la regola, solo minando le nostre «sicurezze» sociali, solo in una continua tensione etica di trasformazione, solo con il coraggio di iniziare senza aspettare fantomatiche masse, potremo tentare l'impossibile, un contagio di libertà, nulla di incerto: l'utopia.