Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 2 nr. 10
febbraio 1972


Rivista Anarchica Online

I nuovi padroni
di Emilio Cipriano

Il potere dei dirigenti nelle imprese multinazionali

Berle e Means, due economisti americani, nel 1933, in pieno New Deal Roosveltiano, formularono delle ipotesi sull'indirizzo che la forma della proprietà andava assumendo che a quei tempi sembrarono perlomeno avventate o irreali.
Essi dicevano che il capitalismo negli U.S.A. nella sua forma classica andava sparendo e adesso si andava sostituendo un altro assetto economico-sociale dipendente dai nuovi rapporti di produzione che progressivamente andavano instaurandosi.
Berle e Means facevano parte della classe dirigente (Berle era consigliere del presidente Roosevelt), non proponevano alternative rivoluzionarie, ma analizzavano la realtà sociale ed economica per fornire mezzi operativi alla classe padronale.
Purtroppo le loro analisi sarebbero servite, qualora lo si fosse voluto, anche ai rivoluzionari, ma questi non ne tennero conto e continuarono a basare le loro azioni sua analisi vecchie di un secolo.
Oggi ci troviamo quindi nella assurda situazione di dover recuperare il tempo perduto (nel frattempo la classe dirigente ha affinato e aumentato le sue conoscenze) e di cercare, finalmente si spera, di indirizzare in modo correttamente rivoluzionario la nostra lotta contro gli sfruttatori.

Le imprese multinazionali
Il mondo produttivo "occidentale" è oggi dominato da alcune grandi imprese che regolano e determinano i consumi di due terzi del globo; alludo alle cosidette imprese multinazionali.
Per imprese multinazionali si intendono quelle società che operano in più paesi e che, articolandosi in varie forme produttive sia a carattere orizzontale (sviluppo massiccio di una stessa produzione) sia a carattere verticale (insieme di più processi produttivi), sono in grado di controllare il mercato (1) non secondo le necessità che questo esprime bensì secondo i loro programmi di vendita o di espansione.
Questo tipo di impresa, prefigurazione dell'impresa di domani, nasce inizialmente in paesi particolarmente dinamici economicamente e ad alto livello di sviluppo capitalistico ma con mercato nazionale ristretto: Svizzera e Olanda. Queste imprese che stanno soffocando oggettivamente il mercato, nascono paradossalmente da esigenze tipicamente liberistiche creando nei paesi stranieri (ove si vorrebbe indirizzare l'eccedenza produttiva, ostacolata però dalle restrizioni e difficoltà doganali) imprese affiliate che si inseriscono, dall'interno, nel mercato estero. È il caso della Nestlè, della Unilever, della Philips.
Negli anni '50 e '60 assistiamo allo sviluppo delle multinazionali statunitensi, dirette a creare filiali soprattutto in Europa e nell'America latina.
Le imprese americane in molti casi divengono multinazionali per sfruttare appieno, in modo massiccio ed esteso geograficamente, le nuove tecniche produttive messe a punto grazie alla concentrazione oligopolistica avvenuta nel loro paese.
A volte problemi di ordine fiscale, legislativo (legge anti-trust), di politiche di intervento inducono alla multinazionalità.
Le ragioni iniziali sono molteplici, complesse, derivanti dal combinarsi di più fattori, l'importante è comunque il dato di fatto oggi esistente: un numero relativamente piccolo di imprese controlla mercati di ampiezza mondiale e i bilanci di queste sono in molti casi superiori, come valori, a quelli di moltissimi stati.

I presupposti del nuovo potere
L'articolarsi in campo internazionale dell'attività imprenditoriale ha creato, con l'aumento delle esigenze finanziarie (aumento progressivo del capitale sociale) una complessità di rapporti interaziendali e di vendita che hanno richiesto un ampliamento smisurato delle conoscenze. Il problema della dirigenza dell'impresa è divenuto il cardine dello sviluppo o della sua sopravvivenza.
Importante è allora determinare chi, e in nome di quale interesse, domina la vita delle imprese multinazionali.
Istituzionalmente il potere nelle società è detenuto dai proprietari, cioè dagli azionisti. Ma nelle dimensioni assunte dalle grandi imprese il detentore di azioni quale reale capacità ha di influire, oggi, sulle scelte operative?
Bisogna a questo riguardo considerare l'entità del possesso azionario di un individuo, una famiglia o un un ristretto gruppo nelle grandi imprese; vediamo allora una tendenza alla polverizzazione della partecipazione azionaria e conseguentemente una progressiva incapacità degli azionisti a governare la propria società.
Quando la polverizzazione raggiunge gradi elevati, e le duecento maggiori imprese U.S.A. ne sono un esempio tipico, il potere sulla società passa ai dirigenti di questa, e non solo perché gli azionisti non hanno voce sufficientemente valida in capitolo, ma anche perché il potere nell'impresa è detenuto da chi prende le iniziative operative (i dirigenti) e non da chi ha un potere formale di sanzione o di veto (capitalisti azionari).
Il processo di polverizzazione della proprietà merita, data l'importanza strategica che ne deriva, una giustificazione quantitativa. Prendiamo come esempio le duecento maggiori imprese U.S.A. (2). Nel 1929 presentavano questa situazione:
1. Società sulle quali un unico proprietario o gruppo ristretto deteneva almeno l'80% del capitale: 6%
2. Società nelle quali un gruppo di controllo deteneva una quota di capitale variabile dal 50% all'80%: 5%
3. Società nelle quali il gruppo di controllo deteneva una quota di capitale dal 20% al 50%: 24%
4. Società nelle quali il controllo era attuato attraverso speciali strumenti legali (azioni privilegiate di voto, società fiduciarie-holdings): 21%
5. Società nelle quali non esisteva una partecipazione azionaria capace di influire sull'operato del consiglio di amministrazione: 44%
Dopo poco più di trent'anni la situazione si è evoluta a favore del controllo da parte del consiglio di amministrazione. Ecco i dati del 1963.
1. Società nelle quali un unico proprietario o un gruppo ristretto detiene almeno l'80% del capitale: nessuna
2. Società nelle quali un gruppo di controllo detiene una quota di capitale variabile dal 50% all'80%: 2,5%
3. Società nelle quali il gruppo di controllo detiene una quota di capitale dal 20% al 50%: 9%
4. Società nelle quali il controllo è attuato attraverso speciali strumenti legali (azioni privilegiate di voto, società fiduciarie-holding): 4%
5. Società nelle quali non esiste una partecipazione azionaria capace di influire sull'operato del consiglio di amministrazione: 84,5%
A maggior chiarimento precisiamo che nel 1929 per le imprese controllate dal consiglio di amministrazione alla proporzione del 44% sul numero corrispondeva il 58% dell'attivo patrimoniale complessivo.
Nel 1963 la proporzione si è maggiormente sviluppata e contro l'84,5% delle imprese troviamo che il patrimonio attivo controllato assomma all'85% del totale. Questo significa che mentre nel 1929 le imprese controllate dal consiglio di amministrazione erano solo le più grosse, nel 1963 il processo si è esteso anche a quelle relativamente piccole (relativamente si intende perché stiamo parlando di imprese, dalla più grande alla più piccola, di dimensioni gigantesche).
Questi dati ci sembrano oltremodo significativi; quando il controllo manageriale raggiunge tali livelli ha ancora senso parlare di capitalismo?
Il fenomeno fondamentale dell'economia occidentale è la tendenza a relegare il capitalista dalla funzione di imprenditore a quella di un detentore di un titolo di proprietà (l'azione) che gli assicura una rendita, ma che gli nega la possibilità di gestire l'impresa.
D'altro canto il dirigente, da impiegato subalterno del capitalista assume le funzioni imprenditoriali di un'impresa che non è sua.
Abbiamo anche casi che superficialmente sembrerebbero smentire questa tendenza (anche se in fondo i casi isolati non potrebbero inficiare l'aspetto generale) e cioè casi di proprietari che controllano la loro impresa (basti pensare ad una tipica impresa multinazionale italiana: la FIAT). Dobbiamo allora precisare che per dirigere un'impresa non è sufficiente esserne il padrone assoluto di maggioranza, ma che nella impresa bisogna esercitare l'autorità, bisogna cioè trasformare la propria funzione da quella di capitalista a quella di dirigente e soprattutto suddividere la propria autorità con gli altri dirigenti non proprietari.
Agnelli per rifarsi all'esempio di prima, detiene il potere all'interno della sua impresa non solo perché ne è il proprietario maggioritario, ma soprattutto perché è il vertice della piramide dei dirigenti della FIAT. Ma a questo punto la funzione economico-sociale di Agnelli è ancora esclusivamente quella di capitalista o non già anche (forse prevalentemente) quella di un tecnocrate?

Il perpetuarsi della disuguaglianza
Se i capitalisti stanno perdendo o hanno perso potere, se questo è stato o viene assunto dai dirigenti delle grandi imprese, visto però che formalmente il diritto di proprietà privata non è scomparso, in nome di che cosa comandano i dirigenti?
La risposta a questo quesito è fondamentale, anche perché ci troviamo di fronte ad una marea di analisi marxiste (le più intelligenti, però) tutte tendenti ad affermare l'assurda proposizione che "il capitale (e quindi la sua funzione) sopravvive come istituzione alla scomparsa dei capitalisti"; ciò significa affermare che gli interessi sopravvivono ai rapporti sociali di cui sono espressione. Visione veramente idealista e ascientifica, nonostante la presunta scientificità dei nostri "cugini" marxisti.
Quindi i dirigenti comandano nell'interesse del loro specifico gruppo sociale. E la società verso la quale ci avviamo non è più capitalistica. La quantità diviene qualità, e se un sistema può consentire fenomeni atipici, oltre un certo livello certi fenomeni non fanno più parte della patologia del sistema, e ci troviamo dinnanzi un altro sistema economico, un altro assetto sociale: la società tecnoburocratica, dove il privilegio è determinato non dalla proprietà dei mezzi di produzione, ma dal possesso che di questi si detiene grazie alla posizione di potere occupata nel processo produttivo.
Nelle grandi società, nelle imprese multinazionali, questo passaggio di potere è già avvenuto; l'economia cosidetta occidentale presenta ancora, è vero, numerosi esempi di capitalismo, a volte perfino sacche di pre-capitalismo, ma dato che la storia la fanno coloro che detengono la forza maggiore questa è indiscutibilmente la tendenza generalizzantesi verso la quale ci avviamo.
I gruppi dirigenti delle imprese multinazionali, come tutti i gruppi di potere, hanno interesse ad ampliare questo loro potere, e ottengono questo risultato ampliando l'area diretta od indiretta di influenza delle imprese a cui sono a capo; nel contempo svolgono una funzione economica-sociale oggettivamente valida (in conformità, beninteso, ai presupposti dell'attuale società gerarchica basata sulla disuguaglianza) e grazie alla posizione assunta come gruppo si assicurano attraverso il processo di aggregazione dei nuovi dirigenti un meccanismo che assicura il controllo delle nuove leve, instaurando un sistema di difesa del gruppo come elemento privilegiato.
Questa è una delle forme di perpetuazione della disuguaglianza così come nella società borghese il diritto ereditario assicurava il perpetuarsi della disuguaglianza in una società in cui il potere era basato sui rapporti patrimoniali.

Emilio Cipriano

(1) Ammesso che si possa parlare ancora correttamente di mercato oggi. Infatti mancano quelli che secondo l'economia classica sono i presupposti da cui esso trae origine e validità. Il mercato, per essere tale, (nella definizione che ancora si tiene generalmente valida) deve essere il momento di incontro tra le molteplici forze produttive e la grande massa dei consumatori e soprattutto luogo di formazione del prezzo a cui una quantità di prodotti viene venduta.
Il concentramento delle imprese e la conseguente eliminazione della concorrenza ha portato le grandi imprese a considerare il mercato non più come momento di formazione del prezzo e della quantità vendibile, ma ad un enorme spaccio dove chi può o vuole compra ad un prezzo predeterminato.
(2) L'esempio delle duecento maggiori imprese U.S.A. è significativo perché esse sono grandi imprese a livello nazionale e contemporaneamente imprese multinazionali. Per convincersi della significatività del riferimento, basta puntare la nostra attenzione su tre di queste società (i nostri dati si riferiscono all'anno 1965).

GENERAL MOTORS COMPANY
Fatturato:

Attivo patrimoniale:
Capitale sociale:
Profitti:
Dipendenti diretti:
Azionisti:

20.734 milioni di dollari
12.600 milioni di dollari
8.237 milioni di dollari
2.126 milioni di dollari
735.000
1.310.000
Presente pressocché in tutti i paesi del mondo, la produzione viene distribuita attraverso 20.000 concessionari e distributori.
FORD MOTOR COMPANY
Fatturato:
Attivo patrimoniale:
Capitale sociale:
Profitti:
Dipendenti diretti:
Azionisti:
11.500 milioni di dollari
7.600 milioni di dollari
4.500 milioni di dollari
703 milioni di dollari
365.000
393.300
Presente pressocché in tutti i paesi del mondo.
STANDARD OIL COMPANY OF NEW JERSEY
Fatturato:
Attivo patrimoniale:
Capitale sociale:
Profitti:
Dipendenti diretti:
Azionisti:
11.500 milioni di dollari
13.000 milioni di dollari
8.600 milioni di dollari
1.000 milioni di dollari
148.000
728.000
Presente con 275 affiliate in quasi tutti i paesi: U.S.A. e Canada 114, Europa 77, America latina 43, Asia 14, Africa 9, altri paesi (tra cui Ungheria e Polonia!) 18.