Rivista Anarchica Online
I giornalisti e mia nonna
di Paolo Finzi
I rapporti degli anarchici coi giornalisti non sono mai stati facili. Nella grande
maggioranza dei casi,
quando si fanno vivi, quando - per esempio - ci telefonano in redazione per chiedere informazioni o
un appuntamento, ci si drizzano le orecchie. E' raro che vogliano sapere, capire, informare. In genere
si fanno vivi con i loro bravi pregiudizi già ben radicati, con le loro informazioni di seconda o terza
mano (o velina), e cercano di usarti per accentuare il colore del loro pezzo, per poter usare il virgolettato
che ti attribuiscono per dare una parvenza di pluralismo ed obbiettività al loro articolo. Non è
solo una questione di serietà individuale e di deontologia professionale. Il fatto è che
l'anarchismo, gli anarchici, da sempre costituiscono per la grande stampa (ed ora anche le tv) un terreno
particolarmente favorevole per le loro ricorrenti incursioni sensazionalistiche, spesso al servizio di un
preciso disegno politico. Ritorno con la mente alla strage di Stato, al dicembre '69. Anzi, ai mesi precedenti,
quando in seguito
agli attentati del 25 aprile '69 alla Fiera ed alla Stazione Centrale di Milano (attribuiti ad anarchici, tre
anni dopo del tutto scagionati) iniziò una campagna-stampa anti-anarchica che servì a preparare
il
terreno politico-psicologico alla criminalizzazione dell'anarchismo all'indomani della bomba di piazza
Fontana. Eppure, la prima reazione pubblica all'assassinio in questura di Giuseppe Pinelli fu la
convocazione, presso la sede (allora in piazzale Lugano) del circolo anarchico "Ponte della Ghisolfa",
di una conferenza-stampa per comunicar3 ai giornalisti (sì, proprio a loro) le nostre parole d'ordine: la
strage è di Stato, Valpreda è innocente, Pinelli è stato assassinato. "Farneticante
conferenza-stampa
degli anarchici" titolava all'indomani il Corriere della Sera (che non era nemmeno, allora, il
più
reazionario: palma che spettava a La Notte di Nino Nutrizio e, in seconda battuta, al Corriere
d'Informazione, edizione pomeridiana e popolare del Corsera). E i giornali furono lo
strumento
principale utilizzato dal Potere per sostenere l'operazione politica che nella strage di piazza Fontana
aveva avuto il suo più clamoroso manifestarsi: lo spostamento a destra dell'asse politico del Paese.
Eravamo alla fine del '69, nel pieno dell'onda lunga dei grandi movimenti di massa iniziati nel maggio
'68. Eppure, a partire (simbolicamente) da quella conferenza-stampa iniziò un'opera capillare di presa
di
contatto e di sensibilizzazione di tanti giornalisti, alcuni dei quali (ricordavamo su queste colonne, due
numeri fa, Camilla Cederna) maturarono proprio nella temperie di quelle vicende una nuova coscienza
civile, una molla verso l'impegno sociale, vorrei dire una nuova deontologia professionale che li portò,
in varia misura, in rotta di collisione con i disegni del potere. Nacquero, in questo contesto, i vari
comitati di "giornalisti democratici", il Bollettino di controinformazione democratica, si
svilupparono
tante inchieste (o meglio, come si diceva allora, controinchieste). Fu un impegno di tanti singoli giornalisti,
che portò anche a clamorose rotture nelle redazioni, ma fu
soprattutto un nuovo clima nel quale un po' alla volta si operarono profonde revisioni di linea politico-editoriale.
Emblematico il caso del Corriere della Sera, che dopo essere stato uno dei capi-cordata della
criminalizzazione anti-anarchica arrivò - nel '72 - a sostenere in un famoso editoriale l'opportunità
di
approvare una disposizione di legge che permettesse la scarcerazione degli imputati di strage in attesa
di giudizio. Una legge fatta apposta per permettere la scarcerazione di Pietro Valpreda e che, non a caso,
fin da allora fu chiamata la "legge Valpreda". Queste cose mi vengono in mente oggi, di fronte
all'atteggiamento esagitatamente anti-giornalisti
assunto da una parte del movimento degli squatter torinesi, culminato - almeno fino al momento in cui
scrivo queste note - nel pestaggio di un giornalista durante le esequie di Edoardo Massari (in un
contorno di parabrezza rotti, minacce personali, ecc.) E mi ricordo di quando - all'inizio del '70 - Enzo
Tortora, allora giornalista noto ma non ancora
notissimo al grande pubblico (come sarebbe avvenuto negli anni successivi grazie prima ad alcune
fortunate trasmissioni tv e poi per la drammatica vicenda repressiva di cui sarebbe stato vittima), venne
inseguito, sputacchiato e minacciato da alcuni libertari nel palazzo di Giustizia di Milano. Gli
imputavano dei pezzi decisamente brutti, anti-anarchici, che Tortora aveva pubblicato sui quotidiani.
Il fatto ebbe, inevitabilmente, una grandissima eco sui mass-media e venne genericamente attribuito agli
anarchici. Il movimento anarchico organizzato milanese, in un comunicato-stampa, pur criticando Tortora
per i
suoi scritti, si dissociò nettamente da quell'aggressione di sapore squadristico. Pensavamo (e pensiamo)
che si possa essere contro al repressione, le menzogne, il potere, senza venire meno al rispetto delle
persone, al rifiuto della violenza sopraffattrice, a comportamenti che al nostro anarchismo ripugnano. Se vuoi
essere rispettato - mi diceva mia nonna Lavinia - impara a rispettare gli altri. Non era
anarchica, ma era piena di buon senso.
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