Rivista Anarchica Online
Said, un poeta nella terra di nessuno
di Werner Ecke
Un poeta iraniano, straniero in patria come in esilio, oltre la logica del bianco e del nero
«Esistono polli che vengono macellati sia per un matrimonio che per un funerale.»
(Ahmad Shamlu, poeta
iraniano, alla domanda se il regime dello Scià sia stato peggiore del regime di Khomeini)
«Chi conosce l'esilio, ha appreso parecchie risposte vitali, ed ancora più domande vitali. Fa parte
delle risposte
la cognizione in primo luogo triviale che non c'è ritorno, perché mai il rientro nello spazio
è recupero del tempo
perduto». (Jean Améry)
Sono trascorsi 17 anni da quando lo Scià di Persia ha potuto, anch'egli, assaporare l'ebbrezza della
fuga,
dell'esilio, nonostante il tempo sia stato clemente nei suoi confronti. I continui spostamenti da un posto all'altro
e l'umiliazione di essere dichiarato «persona non grata» durarono poco, il cancro pose fine alla diaspora del
vecchio monarca. Nel frattempo andò avanti la rivoluzione islamica, che come tante altre rivoluzioni negli
angoli
remoti del mondo, venne accolta con grandi entusiasmi e speranze. É del 1983 un libro intitolato
«Dove muoio sono straniero» con il quale il poeta iraniano Said segna
definitivamente il suo ingresso nella produzione letteraria in Germania. Nato nel 1947 a Teheran, a 17 anni Said
lasciò l'Iran e si stabilì in Germania. Sin dal 1965 vive a Monaco di Baviera. Nemico della patria
sotto lo Scià,
tornò in Iran subito dopo la rivoluzione nel 1979, in compagnia della scrittrice Luise Rinser che
definì quei giorni
«un intervallo per prendere fiato». Lasciò l'Iran dopo sole cinque settimane per tornare ancora in
Germania,
ancora nemico della patria, questa volta sotto il regime di Khomeini. «Dove muoio sono straniero»
è la
testimonianza di quel viaggio, una testimonianza che allo stesso tempo è oracolo e sentenza. Non ci
sarà ritorno
e la rivoluzione si è rivelata il passaggio attraverso lo specchio di Alice: i regimi continuano, non ha
importanza
se a lati invertiti: Il giorno 13 della rivoluzione un detenuto viene risarcito per i suoi
anni di galera, un asino viene picchiato per la sua pigrizia, un generale viene
decorato per i suoi meriti, un assassino viene impiccato per i suoi
assassinii, una casalinga viene imbrogliata sul latte, un mendicante viene
allontanato per il suo aspetto, un forestiero viene sputato per la sua
pronuncia, un ministro viene acclamato per il suo discorso, una coppia di
innamorati viene bandita per l'amore, un passero viene abbattuto per disturbo della quiete
pubblica, un uomo viene buttato fuori dall'autobus, perché è
senza biglietto. Come pochi altri, i testi di Said non solo testimoniano lo sviluppo e gli eventi del suo
paese, ma mettono in primo
piano il rapporto tra individuo e regime di qualsiasi estrazione esso sia. Che ciò non avvenga sotto
forma di saggi ed analisi politiche ma attraverso poesie, radiodrammi o poemi,
senz'altro è dovuto alla posizione di Said nella diaspora che è una posizione di fermo distacco
e di scomoda
irriverenza, sia nei confronti della tirannide in genere, sia nei confronti di una sinistra succube dell'eterno partito
comunista. Ciò rende soli ma anche liberi di vedere oltre la storia e le mille ed una storia che la
compongono. In una lettera a Mehrdad Farjad (1993), compagno comunista giustiziato nel 1988, Said
ripercorre la strada che
infine lo rese vittima del suo stesso concetto di potere: Ricordo quando durante un convegno ti
precipitasti al podio, per difendere te e i tuoi compagni (...): «Sì,
compagni, noi abbiamo l'Unione Sovietica, abbiamo carri armati, rubli, sputnik, radio, televisioni, riviste,
giornali e tante altre cose. Ed impiegheremo tutto ciò contro il regime dello Scià ed anche contro
di Voi, qualora
ci ostacolaste.» (...) Poi mi puntasti l'indice sul petto e dicesti quasi scherzando: «E te, fesso
che non sei altro, ti mandiamo nel
deserto, quando saremo al potere, con la zappa in mano, affinché coltivi il deserto - basta con gli articoli
e
scherzi simili.» E sai cosa era terribile in tutto ciò? - Ti credetti. (...) Il tentativo di cavalcare
la rivoluzione islamica, di partire dall'esilio parigino insieme a Khomeini, per poi regolare
i conti una volta cacciato lo Scià e la cricca ad esso fedele, si rivelò una pia illusione. L'ironia
della sorte vuole
che oggi, a stare insieme nell'esilio parigino sono i monarchici insieme alla sinistra dogmatica che fu. Il gioco
è pronto per ripetersi, fra cinque, dieci, vent'anni o quando sarà... Affidare tali processi alla
sola storiografia significherebbe trascurare ogni dimensione umana di una storia che,
pur sempre, viene scritta da uomini in carne ed ossa. Said non descrive da una posizione estranea ma è
parte
integrante, ed è per questo che egli rende trasparente la storia, diffidando di ogni fanatismo e mettendo
il dito sulle
tante contraddizioni che accompagnano ogni processo storico e personale. Partendo da una delle ultime parole
dell'ayatollah Khomeini che, in punto di morte, chiese di essere portato in osteria per un bicchiere di vino, ne
«La
confessione dell'ayatollah» (1987) fa rievocare a Khomeini tutte le tappe deliranti e tutte le atrocità
nella
costruzione della repubblica islamica ad immagine del Signore, per concludere: «Signore, ho voluto
forgiare per te un nuovo popolo e uomini nuovi, affinché si conformassero alla Tua
repubblica. Signore, guarda con quanto eroismo i Tuoi figli hanno ucciso, affinché la Tua repubblica
vincesse
e la voce dell'Islam possa giungere da essa a tutti i popoli della terra. Sono morti in una guerra santa, per venire
nel Tuo paradiso. Ma Tu sai quanto ero solo? Signore, perdona le mie debolezze e prendimi con Te,
affinché
finisca questa solitudine.» Si tratta di un poeta scomodo soltanto per l'Iran e la stessa diaspora, che si
gode il comodo esilio in Germania e
che soltanto per questo, si può permettere il suo essere scomodo? - A parte il fatto che il suo esilio
più che
trentennale è tutt'altro che comodo, tra una miriade di lavori occasionali ed enormi difficoltà
economiche, Said
non è comodo neanche in Germania ed in Europa in genere. É stato il Ministero degli Esteri
tedesco, quasi venti
anni fa, a sconsigliare caldamente all'ambasciata Greca di Bonn di decorare Said per i suoi meriti indiscutibili
nella resistenza al regime dei colonnelli greci. Ed è Said a rinfacciare all'Europa occidentale il tradimento
dei suoi
stessi valori nati con la rivoluzione francese. Nella Teheran degli anni '50 e '60, i libri di Camus, Sartre, Laffitte,
Stendhal, Vercors e Gorki potevano essere venduti e scambiati soltanto clandestinamente. Quanto era amara la
delusione per chi veniva nell'Europa occidentale, eterno miraggio libertario, quando si scopriva che i simboli della
libertà e del suo pensiero, erano finiti sulle bancarelle, in svendita prima di essere mandati al macero.
Nella sua
«Lettera all'Europa», Said riparte da questa piccola osservazione per fornire una specie di resoconto
sul suo
rapporto con il vecchio continente, concludendo così: «Di Dio è
l'Oriente, di Dio è l'Occidente!» A questa frase di
Goethe, il rifugiato tra est e ovest aggiunge la sua, profana: «La terra di
nessuno in mezzo è nostra.» Con nomi come Hans Magnus Enzensberger, Said condivide di
essere voce fuori dal coro in Germania. Con
scrittori come Manes Sperber, Jorge Semprun, Lion Feuchtwanger ed Oskar Maria Graf, condivide, oltre alla voce
fuori dal coro, altri due fatti: di non aver accettato e di non accettare la logica del bianco e nero, di non essere stato
tradotto o quasi in italiano. Dopo quindici anni di pubblicazioni, premi tedeschi ed europei, l'incarico al Pen-Club
tedesco per gestire la sezione «writers in prison» («scrittori in prigione»), il solo quotidiano italiano Il manifesto
ha pubblicato brani dei suoi radiogrammi «Io e lo Scià» e «La confessione
dell'ayatollah». Per sottolineare quanto si perde con tale embargo mentale, in conclusione si pubblica
qui il discorso di Said,
tenuto in occasione del premio «Adalbert von Chamisso» all'Accademia delle Belle Arti di Monaco di Baviera,
il 22 febbraio 1991, mentre infuriava la guerra del Golfo: Sono un barbaro, signore
e signori. Sono un barbaro, perché ritenevo che Saddam Hussein -
questo beniamino malriuscito e coccolato da parte delle industrie belliche ad est
ed ovest - fosse un fascista, molto prima che non aggredisse il mio
paese devastandolo per otto lunghi anni con bombe, missili, gas mostarda e
gas nervini; e molto prima ancora che questo dittatore non aggredisse ed
annettesse un altro paese.
Sono un barbaro, perché ritenevo che Saddam Hussein fosse un
assassino, molto prima che il sacro odore petrolifero non eccitasse il naso
suscettibile dell'opinione pubblica europea, finché anch'essa diede
dell'assassino all'assassino.
Sono un barbaro, perché né sto nel consiglio d'amministrazione della
MBB né prego per la pace, la domenica in chiesa. E sono un
barbaro, perché ero della convinzione che le crociate fossero finite
da tempo, anche se gli ayatollah le evocavano a gran voce; adesso mi sono
ricreduto - grazie al presidente americano.
Sono un barbaro, perché ho creduto nella sovranità degli europei
- dopo che da anni non parlano di altro che della «casa comune europea»! E
sono un barbaro, perché ho creduto nella libertà di
stampa, convinto che la stampa europea non avrebbe
accettato la censura militare dei generali americani.
Sono un barbaro, perché anch'io in questo momento sento
con la popolazione civile irachena che da settimane soffre sotto le bombe; in
parte sotto bombe bandite giustamente da quell'ONU nel nome della quale
si sta svolgendo «la più grande battaglia aerea della storia mondiale».
E sono un barbaro, perché proprio oggi non voglio
dimenticarmi della frase che Willy Brandt pronunciò, non a caso, il 9 novenbre
1989: «Mai più togliere lo sguardo dove il diritto viene calpestato!»
E confesso, signore e signori, non senza
orgoglio, che ho impararto a compitare l'ABC della mia barbarie qui nel mio
duplice esilio, grazie alla cultura europea e grazie ai miei amici
europei, a quegli amici che sanno distinguere tra mecenatismo e tolleranza
da una parte e tra tolleranza e fratellanza dall'altra parte.
E adesso all'Accademia di Belle Arti, la fondazione «Robert
Bosch» e l'Istituto di Tedesco come lingua straniera dell'Università di
Monaco di Baviera, hanno onorato questo barbaro dandogli un premio letterario.
Posso intendere questa promozione soltanto come affermazione della mia
barbarie, che mi impone, a prescindere da istinti e
pulsioni, da religioni e colori di pelle, di rimanere fedele a quella parola
d'ordine per quanto il prezzo possa essere alto, per quanto l'Europa possa rendere difficile
l'impresa e per quanto fuori luogo possa sembrare la tribuna - fedele a quella
parola d'ordine, che sin dalla mia prima gioventù non ha coniato soltanto la mia
immagine dell'Europa ma anche me stesso: libertà, uguaglianza,
fratellanza.
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