Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 232
dicembre 1996 - gennaio 1997


Rivista Anarchica Online

Said, un poeta nella terra di nessuno
di Werner Ecke

Un poeta iraniano, straniero in patria come in esilio, oltre la logica del bianco e del nero

«Esistono polli che vengono macellati sia per un matrimonio che per un funerale.» (Ahmad Shamlu, poeta iraniano, alla domanda se il regime dello Scià sia stato peggiore del regime di Khomeini)

«Chi conosce l'esilio, ha appreso parecchie risposte vitali, ed ancora più domande vitali. Fa parte delle risposte la cognizione in primo luogo triviale che non c'è ritorno, perché mai il rientro nello spazio è recupero del tempo perduto». (Jean Améry)

Sono trascorsi 17 anni da quando lo Scià di Persia ha potuto, anch'egli, assaporare l'ebbrezza della fuga, dell'esilio, nonostante il tempo sia stato clemente nei suoi confronti. I continui spostamenti da un posto all'altro e l'umiliazione di essere dichiarato «persona non grata» durarono poco, il cancro pose fine alla diaspora del vecchio monarca. Nel frattempo andò avanti la rivoluzione islamica, che come tante altre rivoluzioni negli angoli remoti del mondo, venne accolta con grandi entusiasmi e speranze.
É del 1983 un libro intitolato «Dove muoio sono straniero» con il quale il poeta iraniano Said segna definitivamente il suo ingresso nella produzione letteraria in Germania. Nato nel 1947 a Teheran, a 17 anni Said lasciò l'Iran e si stabilì in Germania. Sin dal 1965 vive a Monaco di Baviera. Nemico della patria sotto lo Scià, tornò in Iran subito dopo la rivoluzione nel 1979, in compagnia della scrittrice Luise Rinser che definì quei giorni «un intervallo per prendere fiato». Lasciò l'Iran dopo sole cinque settimane per tornare ancora in Germania, ancora nemico della patria, questa volta sotto il regime di Khomeini. «Dove muoio sono straniero» è la testimonianza di quel viaggio, una testimonianza che allo stesso tempo è oracolo e sentenza. Non ci sarà ritorno e la rivoluzione si è rivelata il passaggio attraverso lo specchio di Alice: i regimi continuano, non ha importanza se a lati invertiti:
Il giorno 13 della rivoluzione
un detenuto viene risarcito per i suoi anni di galera,
un asino viene picchiato per la sua pigrizia,
un generale viene decorato per i suoi meriti,
un assassino viene impiccato per i suoi assassinii,
una casalinga viene imbrogliata sul latte,
un mendicante viene allontanato per il suo aspetto,
un forestiero viene sputato per la sua pronuncia,
un ministro viene acclamato per il suo discorso,
una coppia di innamorati viene bandita per l'amore,
un passero viene abbattuto per disturbo della quiete pubblica,
un uomo viene buttato fuori dall'autobus,
perché è senza biglietto.
Come pochi altri, i testi di Said non solo testimoniano lo sviluppo e gli eventi del suo paese, ma mettono in primo piano il rapporto tra individuo e regime di qualsiasi estrazione esso sia.
Che ciò non avvenga sotto forma di saggi ed analisi politiche ma attraverso poesie, radiodrammi o poemi, senz'altro è dovuto alla posizione di Said nella diaspora che è una posizione di fermo distacco e di scomoda irriverenza, sia nei confronti della tirannide in genere, sia nei confronti di una sinistra succube dell'eterno partito comunista. Ciò rende soli ma anche liberi di vedere oltre la storia e le mille ed una storia che la compongono.
In una lettera a Mehrdad Farjad (1993), compagno comunista giustiziato nel 1988, Said ripercorre la strada che infine lo rese vittima del suo stesso concetto di potere:
Ricordo quando durante un convegno ti precipitasti al podio, per difendere te e i tuoi compagni (...): «Sì, compagni, noi abbiamo l'Unione Sovietica, abbiamo carri armati, rubli, sputnik, radio, televisioni, riviste, giornali e tante altre cose. Ed impiegheremo tutto ciò contro il regime dello Scià ed anche contro di Voi, qualora ci ostacolaste.» (...)
Poi mi puntasti l'indice sul petto e dicesti quasi scherzando: «E te, fesso che non sei altro, ti mandiamo nel deserto, quando saremo al potere, con la zappa in mano, affinché coltivi il deserto - basta con gli articoli e scherzi simili.» E sai cosa era terribile in tutto ciò? - Ti credetti. (...)
Il tentativo di cavalcare la rivoluzione islamica, di partire dall'esilio parigino insieme a Khomeini, per poi regolare i conti una volta cacciato lo Scià e la cricca ad esso fedele, si rivelò una pia illusione. L'ironia della sorte vuole che oggi, a stare insieme nell'esilio parigino sono i monarchici insieme alla sinistra dogmatica che fu. Il gioco è pronto per ripetersi, fra cinque, dieci, vent'anni o quando sarà...
Affidare tali processi alla sola storiografia significherebbe trascurare ogni dimensione umana di una storia che, pur sempre, viene scritta da uomini in carne ed ossa. Said non descrive da una posizione estranea ma è parte integrante, ed è per questo che egli rende trasparente la storia, diffidando di ogni fanatismo e mettendo il dito sulle tante contraddizioni che accompagnano ogni processo storico e personale. Partendo da una delle ultime parole dell'ayatollah Khomeini che, in punto di morte, chiese di essere portato in osteria per un bicchiere di vino, ne «La confessione dell'ayatollah» (1987) fa rievocare a Khomeini tutte le tappe deliranti e tutte le atrocità nella costruzione della repubblica islamica ad immagine del Signore, per concludere:
«Signore, ho voluto forgiare per te un nuovo popolo e uomini nuovi, affinché si conformassero alla Tua repubblica. Signore, guarda con quanto eroismo i Tuoi figli hanno ucciso, affinché la Tua repubblica vincesse e la voce dell'Islam possa giungere da essa a tutti i popoli della terra. Sono morti in una guerra santa, per venire nel Tuo paradiso. Ma Tu sai quanto ero solo? Signore, perdona le mie debolezze e prendimi con Te, affinché finisca questa solitudine.»
Si tratta di un poeta scomodo soltanto per l'Iran e la stessa diaspora, che si gode il comodo esilio in Germania e che soltanto per questo, si può permettere il suo essere scomodo? - A parte il fatto che il suo esilio più che trentennale è tutt'altro che comodo, tra una miriade di lavori occasionali ed enormi difficoltà economiche, Said non è comodo neanche in Germania ed in Europa in genere. É stato il Ministero degli Esteri tedesco, quasi venti anni fa, a sconsigliare caldamente all'ambasciata Greca di Bonn di decorare Said per i suoi meriti indiscutibili nella resistenza al regime dei colonnelli greci. Ed è Said a rinfacciare all'Europa occidentale il tradimento dei suoi stessi valori nati con la rivoluzione francese. Nella Teheran degli anni '50 e '60, i libri di Camus, Sartre, Laffitte, Stendhal, Vercors e Gorki potevano essere venduti e scambiati soltanto clandestinamente. Quanto era amara la delusione per chi veniva nell'Europa occidentale, eterno miraggio libertario, quando si scopriva che i simboli della libertà e del suo pensiero, erano finiti sulle bancarelle, in svendita prima di essere mandati al macero. Nella sua «Lettera all'Europa», Said riparte da questa piccola osservazione per fornire una specie di resoconto sul suo rapporto con il vecchio continente, concludendo così:
«Di Dio è l'Oriente,
di Dio è l'Occidente!»
A questa frase di Goethe,
il rifugiato tra est e ovest aggiunge la sua, profana:
«La terra di nessuno in mezzo è nostra.»
Con nomi come Hans Magnus Enzensberger, Said condivide di essere voce fuori dal coro in Germania. Con scrittori come Manes Sperber, Jorge Semprun, Lion Feuchtwanger ed Oskar Maria Graf, condivide, oltre alla voce fuori dal coro, altri due fatti: di non aver accettato e di non accettare la logica del bianco e nero, di non essere stato tradotto o quasi in italiano. Dopo quindici anni di pubblicazioni, premi tedeschi ed europei, l'incarico al Pen-Club tedesco per gestire la sezione «writers in prison» («scrittori in prigione»), il solo quotidiano italiano Il manifesto ha pubblicato brani dei suoi radiogrammi «Io e lo Scià» e «La confessione dell'ayatollah».
Per sottolineare quanto si perde con tale embargo mentale, in conclusione si pubblica qui il discorso di Said, tenuto in occasione del premio «Adalbert von Chamisso» all'Accademia delle Belle Arti di Monaco di Baviera, il 22 febbraio 1991, mentre infuriava la guerra del Golfo:
Sono un barbaro,
signore e signori.
Sono un barbaro, perché
ritenevo che Saddam Hussein - questo beniamino malriuscito e coccolato da parte delle industrie belliche ad est ed ovest - fosse un fascista,
molto prima che non aggredisse il mio paese
devastandolo per otto lunghi anni con bombe, missili,
gas mostarda e gas nervini;
e molto prima ancora che questo dittatore non aggredisse
ed annettesse un altro paese.

Sono un barbaro,
perché ritenevo che Saddam Hussein fosse un assassino,
molto prima che il sacro odore petrolifero
non eccitasse il naso suscettibile
dell'opinione pubblica europea,
finché anch'essa diede dell'assassino
all'assassino.

Sono un barbaro,
perché né sto nel consiglio d'amministrazione della MBB
né prego per la pace, la domenica in chiesa.
E sono un barbaro,
perché ero della convinzione
che le crociate fossero finite da tempo,
anche se gli ayatollah le evocavano a gran voce;
adesso mi sono ricreduto -
grazie al presidente americano.

Sono un barbaro,
perché ho creduto nella sovranità degli europei -
dopo che da anni non parlano di altro che della «casa comune europea»!
E sono un barbaro,
perché ho creduto nella libertà di stampa,
convinto
che la stampa europea
non avrebbe accettato la censura militare dei generali americani.

Sono un barbaro,
perché anch'io in questo momento
sento con la popolazione civile irachena
che da settimane soffre sotto le bombe;
in parte sotto bombe
bandite giustamente da quell'ONU
nel nome della quale si sta svolgendo
«la più grande battaglia aerea della storia mondiale».

E sono un barbaro,
perché proprio oggi
non voglio dimenticarmi della frase
che Willy Brandt pronunciò, non a caso, il 9 novenbre 1989:
«Mai più togliere lo sguardo dove il diritto viene calpestato!»

E confesso,
signore e signori,
non senza orgoglio,
che ho impararto a compitare l'ABC della mia barbarie
qui nel mio duplice esilio,
grazie alla cultura europea e
grazie ai miei amici europei,
a quegli amici
che sanno distinguere tra mecenatismo e tolleranza da una parte
e tra tolleranza e fratellanza dall'altra parte.

E adesso
all'Accademia di Belle Arti,
la fondazione «Robert Bosch» e
l'Istituto di Tedesco come lingua straniera dell'Università
di Monaco di Baviera,
hanno onorato questo barbaro dandogli un premio letterario.

Posso intendere questa promozione soltanto come affermazione della mia barbarie,
che mi impone,
a prescindere da istinti e pulsioni,
da religioni e colori di pelle,
di rimanere fedele a quella parola d'ordine per quanto il prezzo possa essere alto,
per quanto l'Europa possa rendere difficile l'impresa e
per quanto fuori luogo possa sembrare la tribuna -
fedele a quella parola d'ordine,
che sin dalla mia prima gioventù non ha coniato soltanto la mia immagine dell'Europa
ma anche me stesso:
libertà, uguaglianza, fratellanza.