Rivista Anarchica Online
Quando le strade parlavano antifascista
di Enrique Santos Unamuno
I manifesti politici repubblicani della guerra di Spagna. Una mostra e un'intervista con Carles Fontserè
Si è chiusa il mese scorso la mostra milanese Spagna 1936-1939
Antifascismo, guerra, rivoluzione (13
settembre-13 ottobre), organizzata dal Comune di Milano e dall' Istituto Lombardo per la Storia della Resistenza
e dell'Età Contemporanea in collaborazione con l'Istituto Cervantes, che riuniva un'ottantina di manifesti
politici
antifascisti della guerra civile spagnola. Una scelta certo parziale rispetto ai circa 1500 manifesti sfornati in quei
tre anni dai diversi gruppi e associazioni della parte repubblicana, ma che ha potuto se non altro stuzzicare
l'attenzione del pubblico italiano, che non poteva avvicinarsi a documenti del genere dal 1976, anno in cui si
presentò alla Biennale di Venezia la mostra España: Vanguardia artística y realidad
social, 1936-1939 (nel testo
di presentazione della mostra, il suo direttore, Roberto Guerri, afferma erroneamente che i cartelloni rivoluzionari
vengono presentati «per la prima volta in Italia»). Molti manifesti provenivano dall'Archivo Histórico
Nacional
di Salamanca, molti altri dalla Biblioteca Universitaria dell'Università di Valencia e dal Centre
International de
Recherches sur l'Anarchisme di Lausanne. Pochi dal Arxiu Nacional de Catalunya. Dei tre centri principali
produttori di manifesti, Barcellona, Valencia e Madrid, il primo è forse sottorappresentato, a favore
soprattutto
del secondo, che fa la parte del leone. Per quanto riguarda gli autori, ci sono alcuni dei grandi come Carles
Fontserè, Arturo Ballester, Josep Renau, Josep Alumà y Jacint Bofarull (purtroppo con un solo
bellissimo
manifesto per la CNT-FAI). Presenti anche José Bardasano, Siwe, Alex Hinsberger, Manuel
Monleón, Vicente
Ballester Marco y Ramón Gaya. Per il resto, alcuni anonimi e molti rappresentanti (forse troppi) del
manifesto
fai da te, un po' ingenui e naif, di scarsa qualità artistica ma non privi di un loro interesse storico. La
mostra era divisa in cinque sezioni tematiche: il fronte antifascista, la rivoluzione, la guerra, la cultura, la vita
quotidiana, che permettevano di farsi un'idea delle funzioni del manifesto propagandistico all'interno del contesto
bellico. Ottimi i testi didascalici a cura di Claudio Venza (anarchico triestino e direttore della rivista di storia
Spagna Contemporanea), rispecchianti le complesse dinamiche ideologiche e politiche della parte
repubblicana,
appiattite ormai da troppo tempo, sebbene negli ultimi due anni abbiano destato un rinnovato interesse (dinamiche
che traspaiono anche dai manifesti, come si evince dalla significativa presenza delle donne soldato nella
cartellonistica anarchica o dall'insistenza sul versante militare, autoritario e accentratore della propaganda
comunista). In occasione dell'inaugurazione della mostra abbiamo avuto modo di parlare con Carles
Fontserè, di fede
anarchica e autore di alcuni dei più bei manifesti antifascisti (4 dei quali presenti alla mostra). Catalano
di
Barcellona, nato nel 1916, combattè il fascismo nelle Brigate Internazionali. Lasciò la Spagna
nel 1939 e visse
esiliato in Francia durante e dopo la 2ª Guerra Mondiale, disegnando e lavorando come scenografo, illustratore
e pittore. Tra il '49 e il '73 si stabilisce a New York e lì prosegue il suo itinerario artistico. Nel '73 torna
in
Catalogna, dove abita tuttora. Nel '95 è apparso in catalano il primo volume della sua autobiografia,
Memòries
d'un cartellista català (1931-1939) (Barcelona, Pòrtic). All'incontro era presente anche
Terry, compagna di
Fontserè. Ecco alcuni stralci di quella cordiale conversazione. Come sono stati gli anni
della guerra di Spagna? Avevo 20 anni. Sono nato nel seno di una famiglia di destra,
tradizionalista, di classe media. Voglio dire, non ho
un background proletario. Ero carlista come mio padre. Bisogna però rammentare che il
carlismo in Catalogna
era portatore di valori catalanisti prima della guerra civile. Solo dopo, con l'avvento del franchismo, è
degenerato.
I miei genitori si sono separati nel 1933 e il conseguente malessere familiare è andato di pari passo col
malessere
politico del paese. Quest'inquietudine personale si rifletteva nel mio animo. Così, quando gli anarchici
sabotavano le industrie o
compivano attentati io annuivo intimamente, in opposizione all'opinione della mia famiglia. A quei tempi mi
incuriosivano riviste di sinistra come Tierra y libertad o Solidaridad . Ho avuto anche
contatti con gruppi
anarchici e quando nel '36, anno del golpe franchista, abbiamo fondato il Sindicat de Dibuixants Professionals
ho conosciuto altri artisti di sinistra. Poi, nel settembre del '37 sono partito soldato con le Brigate Internazionali
e il 5 febbraio del '39 ho attraversato i Pirenei, fuggendo dall'oppressione
franchista. Com'è arrivato al manifesto politico? A 15 anni ero
già un grafico pubblicitario e un caricaturista. A quei tempi disegnavo per la rivista di destra
Reacción e per il quotidiano tradizionalista El Correo Catalán ed ero
conosciuto in Catalogna come
professionista, malgrado la mia giovane età. In questi disegni imitavo un po' lo stile di Helios
Gómez. Mesi prima
della guerra, nell'aprile del '36, abbiamo organizzato il Sindacato di cui parlavo prima. Dopo il golpe franchista
del 18 luglio mi è venuta l'idea di fare un manifesto. Altri due compagni ne fecero un altro. A partire da
quel
momento abbiamo organizzato un atélier collettivo e un comitato rivoluzionario e abbiamo cominciato
a produrre
manifesti. All'inizio questi manifesti non avevano sigle. Con un compagno del PSUC [Partito Socialista Unificato
Catalano, di ideologia comunista, ndt] portammo dei manifesti alla sede del suo Partito, che li fece editare. Io mi
sentivo anarchico e così portai il mio manifesto al sindacato anarchico CNT-FAI. Loro lo stamparono e
me ne
commissionarono degli altri, suggerendomi i testi. Il Sindacato diventò così una grande agenzia
di produzione.
Ci tengo a sottolineare che i primi manifesti videro la luce a Barcellona, dove c'era una fiorente industria di arti
grafiche. Alla lunga, la quantità di manifesti fatti a Madrid e Valencia è stata più grande,
ma soprattutto perché
noi di Barcellona eravamo giovani e dopo un po' siamo andati al fronte, mentre i disegnatori della Propaganda
del governo centrale hanno continuato a produrre manifesti per tutta la durata del conflitto. Quali
erano le funzioni svolte dalla propaganda grafica antifascista durante la rivoluzione e la guerra civile
spagnola? Dopo l'insuccesso del punch franchista in alcune zone della Spagna
repubblicana scoppiò una rivoluzione di
carattere libertario. Di moti rivoluzionari ce n'erano stati altri durante la Repubblica, ma per la prima volta
cominciarono a comparire manifesti per strada e chi lottava aveva la sensazione che dietro a tutto ciò ci
fossero
degli intellettuali, una maggioranza di gente di sinistra che appoggiava la rivoluzione. Questa iconografia
multicolore che copriva la città scaldava gli animi del popolo, in un'epoca in cui la televisione non
esisteva e sui
giornali non c'erano quasi illustrazioni. Ogni sede, ogni sindacato, ogni gruppo si disputavano i manifesti.
Contemporaneamente, nei paesi stranieri in cui vennero organizzate mostre di manifesti si ebbe la sensazione che
non si trattasse di una rivoluzione fugace ma di un movimento destinato ad affermarsi attraverso la lotta. Ecco
l'importanza di quei manifesti in quel momento. Era un altro concetto, un'altra epoca, un'altra
economia. Quali sono stati i modelli iconografici cui si sono ispirati gli autori di questi
manifesti? In quel periodo io non ero un professionista formato. Avevo 20 anni quando feci il
primo manifesto e 21 quando ne creai l'ultimo. D'altro canto, ero un autodidatta.
La mia idea di manifesto proveniva dalle edicole, dalle riviste sfogliate qua e là, in biblioteca. In quel
periodo non
c'erano libri specializzati e se c'erano non erano di sicuro alla portata di un ragazzo di 15 anni. Non c'era dietro
uno studio rigoroso, una pianificazione. Si trattava di un'ispirazione che veniva dalla strada. Forse potrei fare il
nome di John Heartfield [suggerimento di Terry]. Esiste ancora un'arte popolare politicamente
impegnata? Di sicuro il manifesto non ha più una funzione importante dagli anni '50
e '60. Oggi il manifesto politico
elettorale ha una funzione diversa, tecnicamente non è un manifesto ma una fotografia ingrandita e
attaccata in
quantità enormi. La quantità, la massa, diventa più importante della
qualità. Cosa pensa del fenomeno metropolitano dei graffiti? É
vero che sostituisce per certi versi i nostri manifesti. Noi siamo stati in qualche modo dei precursori, ma non
sono molto al corrente di questi movimenti. Non capisco se sia della controcultura con un'intenzione politica o
solo una facciata, come alcuni hippies che ho visto a New York negli anni sessanta e che adesso siedono dietro
a lussuose scrivanie con tanto di cravatta e completo elegantissimo. Non so se ci sia dietro un messaggio politico.
É comunque vero che ci sono esempi molto validi e interessanti da un punto di vista artistico e
grafico. Crede che le nuove tecnologie informatiche possano aiutare alla diffusione del
libertarismo? Cosa pensa
della propaganda anarchica su Internet? Per la verità non ne so niente. La mia prima
reazione è di diffidenza, ma senza una base. Noi non guardiamo quasi
mai la tv. [ndt. A questo punto interviene Terry: «Quello che leggiamo è che c'è molta
spazzatura. E poi, chi
immette tutta quella informazione? É tutto controllato»]. La cosa importante è capire se si tratti
solo di
informazione scambiata tra piccoli gruppi o se abbia la forza per trasformare le società e le forme di vita.
Ma in
realtà dovrei essere io a chiederlo a te. Le sembra concepibile una televisione
libertaria? Credo che la tv sia controllata dal potere politico e soprattutto economico. In Spagna
concretamente, la corruzione
del PSOE [Partito Socialista Operaio Spagnolo, di centro-sinistra, ndt] è stata mascherata e protetta in
modo
scandaloso dalla tv di Stato. Sono riusciti ad affondare la sinistra in Spagna. Io non me la sentirei di dire a
qualcuno: io sono di sinistra. Hanno distrutto l'idea di una nuova possibilità politica. In Spagna e in
Catalogna,
oggi come oggi, l'idea di una sinistra non esiste più. Da un punto di vista diciamo ideologico «contro
Franco
stavamo meglio», anche dal punto di vista catalano. Una domanda inevitabile: cosa pensa delle
polemiche sorte in Spagna e altrove sul film di Ken Loach, Terra
e libertà? Il fatto che sia stato presentato questo film ha significato che molti
giovani abbiano scoperto la guerra civile dal
punto di vista dei rivoluzionari, l'ha fatta diventare «di moda». Io stesso ho realizzato un manifesto del film (che
pure non ho visto) per una rassegna di cinema sulla guerra civile. Se mi avessero chiesto di farne uno per
La
corazzata Potëmkin non l'avrei fatto di certo. É un fenomeno positivo, sebbene non conosca
le polemiche di cui
parli. É chiaro che nella Spagna del '36 il Partito Comunista aveva una minima presenza e due anni
più tardi
aveva in mano le redini dello stato repubblicano. Anche dal punto di vista catalano, quando Franco sospese lo
statuto di autonomia della Catalogna pioveva sul bagnato, poiché era già stato azzerato dal
governo centrale
repubblicano di Negrín. Una mostra come questa di Milano: è un mero esercizio
della memoria o può insegnare a chi non c'era, ai
più giovani , qualcosa anche sul presente o sul futuro? Non ti posso rispondere. Forse
dovresti chiederlo a loro.
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