Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 231
novembre 1996


Rivista Anarchica Online

In groppa al toro
di Carlo Oliva

"Andare in Europa", lo dicono tutti, è un nostro dovere, guai se si mancasse l'obiettivo. Ma è proprio così?

Raccontano i poeti che la giovane Europa, figlia di Agenore, re di Tiro, stava giocando sulla spiaggia con certe amiche quando Zeus, colpito dal suo fascino, le si presentò sotto forma di un bellissimo toro: tanto bello, in effetti, che la fanciulla non resistette alla tentazione di salirgli in groppa, con l'ovvio risultato di essere trascinata oltre il mare, verso occidente, fino all'isola di Creta, dove il dio la fece, come pudicamente si dice, sua sposa. Il mito non è di facilissima interpretazione: può ricordare chissà quali antichi rapporti tra Creta e la costa siriaca o lo si può ricondurre, più banalmente, a un'ennesima riproposizione eziologica di fenomeni astronomici (la luna, si sa, sorge a oriente e tramonta a occidente). O magari vi si può vedere, con un po' di buona volontà, un'anticipazione dell'interesse che la futura Unione Europea avrebbe dimostrato per la conservazione del patrimonio zootecnico. Quello che è certo, mitologicamente parlando, è che da quel rapimento ebbe origine la famiglia reale cretese, i cui esponenti, com'è noto, furono i primi a cercare di ricondurre a una qualche unità, sotto il loro scettro, quelle terre occidentali cui la loro progenitrice aveva dato il nome. Non ci sarebbero riusciti, perché i soliti Ateniesi, gli stessi che ai giorni nostri non riescono neanche a rientrare nei parametri di Maastricht, ritennero troppo gravosi i sacrifici richiesti a tal fine (le dodici fanciulle e i dodici giovinetti da immolare annualmente al Minotauro, un'altra delle inquietanti ipostasi taurine che allignano nelle storie cretesi), ma avrebbero inaugurato una tendenza di lungo periodo, visto che sulla necessità di unificare l'Europa, con o senza tori, e sui sacrifici relativi continuiamo a discutere anche noi.
Ma forse anche quest'ultima affermazione è un mito. In fondo, se sui sacrifici, ogni tanto, qualche (magro) dibattito si sviluppa, sul problema di fondo dell'unità europea non si discute affatto, non più di quanto la mitica principessa fenicia abbia discusso con le amiche l'opportunità di saltare in groppa al divino quadrupede. Quella di «andare in Europa» è una necessità affermata da tutto il sistema delle comunicazioni pubbliche in modo così perentorio che a nessuno, nemmeno a un cattivaccio istituzionale come Bertinotti, è concesso di porla in dubbio. Anche oggi, quando il problema è stato accuratamente deprivato di tutte le sue componenti storiche, culturali e sociali e si riduce a una serie di operazioni bancarie, cioé a un programma complesso quanto si vuole, ma inquadrabile in un sistema di coordinate abbastanza coerenti, non è facile imbattersi in qualche seria agomentazione pro e contro. Siamo tutti d'accordo sul fatto che aderire all'unione monetaria, naturalmente nel gruppo dei «paesi di testa», è una necessità imprescindibile, ma sappiamo dire ben poco sui motivi di questa imprescindibilità. Al massimo si può sentir bofonchiare qualcosa sui tassi d'interesse e sul fatto che in caso contrario la nostra valuta cadrebbe nell'abisso, che non è certo una preoccupazione da poco, ma che si scontra con quella, che pure circola abbastanza tranquillamente, per cui lutti e rovine di ogni genere potrebbero sopravvenire qualora la stessa valuta salisse troppo in alto.
Personalmente, come credo di aver già confidato ai lettori di questa rivista, sento parlare di Europa unita da quarant'anni, e mi sono sempre stupito della pochezza con cui se ne suole argomentare la necessità. Nessuno rimpiange il nazionalismo, figuriamoci, ma non è chiarissimo perché mai si dovrebbe unificare l'Europa e non l'Eurasia, l'Eurafrica, l'Eurasiafrica, l'emisfero boreale, o, visto che ci siamo, il mondo intero. Per motivi storici? La storia d'Europa, lo sappiamo tutti, è una storia di contrapposizioni violente e di guerre continue, l'ultima delle quali si è spenta solo da pochi mesi (e se ci si vuole limitare alla parte occidentale del continente, la pace che vi regna non supera il mezzo secolo d'età). Nè a questa sequela di reciproci sbudellamenti ha mai fatto ostacolo l'unità culturale che l'Europa esprime da secoli, unità che peraltro si estende a pieno titolo a popoli e paesi posti ben al di là dei suoi tradizionali (e malcerti) confini. E non sembra proprio che, in questa età di globalizzazione dell'economia, si possa identificare sul piano continentale una qualche forma di unità produttiva, il che non toglie che i concreti interessi economici dei singoli paesi, come si è visto benissimo in occasione delle recenti risse tra Francia e Italia, siano tutt'altro che spenti. E ideologicamente l'europeismo è sempre stato una sorta di «terza via» tra quelli che una volta si definivano, con qualche imprecisione, nazionalismo borghese e internazionalismo proletario e come tutte le terze vie ha sempre avuto non poche difficoltà a decollare.

Forche caudine
In compenso, non sfugge a nessuno che i vari tentativi istituzionali di costruzione europea, come si sono succeduti in questo mezzo secolo, avevano tutti degli obiettivi assolutamente precisi. Se nell'immediato dopoguerra l'ideale europeo è stato elaborato come quadro valori attraverso cui superare l'annosa ostilità tra Francia e Germania (in soldoni, per far digerire ai francesi il riarmo tedesco) esso, in seguito, ha dimostrato una straordinaria versatilità. Lo si è utilizzato per coordinare le politiche energetiche della grande industria continentale e per costruire il mercato comune di cui essa aveva bisogno per il suo sviluppo. In seguito, sotto l'ombrello europeo si è trattato e ritrattato per definire su scala regionale quelle che una volta si sarebbero definite le «aree di influenza» economica. E oggi le forche caudine dell'unione monetaria vengono erette e presidiate a garanzia dell'impegno di tutti i paesi membri a smantellare la legislazione sociale e lo stato assistenziale. Il tutto in una prospettiva sempre più arcignamente «tecnica», in cui le scelte vengono presentate come oggettivamente necessitate e quindi già compiute da qualcuno dotato della competenza necessaria e sottratte, di conseguenza, a qualsiasi ipotesi di verifica collettiva e con l'esclusione accurata di ogni dimensione politica. In quarant'anni di apparente impegno comune, i governi europei non sono riusciti neanche ad abbozzare uno straccio di posizione unitaria verso il resto del mondo: basta confrontare la politica estera di Roma e Londra, sempre prona alla volontà degli Stati Uniti, con le velleità di Parigi, o pensare alle tensioni che dividono oggi Italia e Germania in tema di riforma del Consiglio di sicurezza dell'ONU. E quanto alle decisioni che in comune concretamente si prendono, nessuno ha mai sentito la necessità di sottoporle a una qualsiasi, sia pur mediatissima, verifica popolare. Tanto è vero che dei molti inutili organismi rappresentativi di cui menano vanto le «democrazie» occidentali non ce n'è uno più platealmente inutile del parlamento europeo.
In definitiva, per comprendere il significato del processo unitario di cui tanto si parla, bisognerebbe forse rendersi conto che l'Europa unita non è affatto un fine, ma un mezzo. Non siamo chiamati a realizzare l'unità europea mediante l'unione monetaria, ma viceversa. Il problema non è quello di superare una forma politica già superata di suo, come lo stato nazionale, quanto quello di costruire un nuovo patto sociale in un'area in cui gli equilibri sociali del passato vanno radicalmente rivisti. Alle classi sociali soccombenti, in definitiva, si chiede di autolimitarsi in nome di un asserito interesse comune.
Niente di nuovo, certo. Il fatto è che non mancano proprio le condizioni per un'operazione del genere. In fondo, l'area di cui stiamo parlando è caratterizzata da un livello di ricchezza sempre più divaricato rispetto alla media mondiale. L'Europa, come le sue ex colonie a popolazione prevalentemente europea, in fondo è una fortezza assediata: una regione di alti consumi e larghe disponibilità circondata dalla fame, dalla miseria e dalla disperazione che crescono in tutto il pianeta. E si sta organizzando per resistere all'assedio (e per continuare a sfruttare le risorse e il lavoro altrui, secondo quello che è uno dei portati storici più sgradevoli della sua pretesa «civiltà»), erigendosi in forme nuove. La prospettiva che sembra d'intravedere in questi giorni è quella di una specie di timocrazia autoritaria, in grado di mettere tra parentesi i tradizionali impacci di stampo democratico e di porsi esplicitamente l'obiettivo di escludere i nuovi postulanti e meglio controllare l'ordine sociale interno. O forse, naturalmente, no: forse i valori e la tradizione democratica sono abbastanza radicati nei nostri paesi da permetterci di contrastare, e magari invertire, questo preoccupante processo. In questo caso, la condizione primaria è quella di rendersi conto di quanto sta succedendo. Anche la nostra eroina eponima, se avesse saputo quello che l'aspettava, forse non sarebbe saltata in groppa a quel bellissimo toro...