Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 231
novembre 1996


Rivista Anarchica Online

Anarchia in libreria
di Francesco Berti

Non succedeva dai tempi del '68. Gli scaffali delle librerie si sono riempiti di libri sull'anarchia. Cerchiamo di capire come e perchè.

Come giustamente sottolineava Pino Cacucci nel numero di maggio («A» 228), si assiste, nelle librerie, ad un curioso fenomeno. Qualunque osservatore sensibile alle problematiche libertarie, avrà notato che in questi ultimi mesi la presenza di libri su e di anarchici da quasi nulla o inconsistente si è fatta via via sempre più significativa, sino ad assumere la dimensione di un piccolo fenomeno. La cosa è tanto più strana ed interessante soprattutto se si tiene conto che la maggior parte di questi libri non proviene dai circuiti militanti né dalle case editrici libertarie; neppure si può dire, inoltre, che abbia alle spalle una precisa scelta editoriale di un editore specifico o di un gruppo di editori. Apparentemente, niente di tutto questo. Si tratta di un fenomeno invero inspiegabile, forse casuale, anche perché non vi è, come negli anni '60 e '70, un movimento o dei movimenti giovanili controculturali tendenzialmente libertari, oppure con tratti marcatamente anarchici.
Slegata dall'anarchismo militante, decontestualizzata rispetto alle mode e ai movimenti giovanili, sia pure quelli dell'area «antagonista» (orrendo termine) o di sinistra, la presenza anarchica e libertaria nelle librerie non sembra rispondere a nessuna logica: eppure, non occorre essere esperti di economia per capire che dietro una consistente «offerta» ci deve pure essere una altrettanto decisa «domanda».
I «bisogni» non sono mai totalmente indotti dall'alto, esiste sempre una interrelazione reciproca tra i due termini della questione. Anche perché, nel nostro caso, non ci riesce di capire quale potrebbe essere l'interesse di queste case editrici -soprattutto di quelle più grandi ed affermate, di quelle cioé più organiche al «sistema», più legate alle strutture di potere economico e finanziario - nel risvegliare nei lettori una curiosità, ed in alcuni casi una vera e propria simpatia, per il «mondo» anarchico.
Dunque: da dove viene questa «domanda», se non esiste una specifica area libertaria, intesa in senso lato, di riferimento?
Oppure esiste davvero, anche se noi, intesi come giornali e case editrici anarchiche, non riusciamo a raggiungerla in maniera continuativa sistematica organica? Una delle possibili e banali spiegazioni di questo fenomeno editoriale, può essere che si comincino a sentire gli effetti del crollo del Muro di Berlino, della fine del comunismo, della crisi della soffocante egemonia marxista nell'ambito della cultura. Infatti è vero che a sinistra si è aperta una voragine tale per cui vi è un vuoto culturale incredibile: il comunismo e il socialismo democratico - soprattutto italiano - non hanno certo un posto d'onore nell'immaginario collettivo, e tutti i testi, storici o meno, che a queste idee fanno riferimento, non trovano più quel consenso di pubblico e quel numero di vendite degli anni passati. Al di là di tutte queste interpretazioni, e di altre possibili, resta comunque il fatto che questo fenomeno non può che farci piacere, ed anche sollevarci un poco il morale. Di seguito, riporto i titoli (solo parziale) dei libri che ho trovato attinenti il fenomeno in questione - e di questa ricerca devo ringraziare di cuore Fausta e Mauro della Libreria Utopia di Milano, senza l'aiuto dei quali questo mio lavoro sarebbe risultato molto più incompleto.
Ho preferito, per comodità e per non annoiare troppo i lettori con un lunghissimo elenco, soffermarmi, per questa volta sui testi che descrivono la storia, le idee, i fatti che hanno caratterizzato o che caratterizzano il pensiero ed i movimenti anarchici e libertari, comprese le riedizioni di autori «classici» o i saggi di autori contemporanei. In futuro saranno invece trattati quei testi che, nella forma del romanzo storico o d'avventura, trattano, in maniera più o meno dettagliata, di anarchici - esistiti o solo immaginati, delle loro vicende umane e politiche.
Per ciascun libro ho fatto una piccola scheda, eccetto quelli già recensiti su «A». Questo elenco generale, sicuramente incompleto, ha pure il difetto di essere troppo sintetico. Ritorneremo perciò, di volta in volta, sui testi che maggiormente ci sembrano meritevoli di lettura, con una recensione più approfondita.

M. Bakunin, Stato e anarchia, introduzione di Maurizio Maggiani, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 255, £ 13.000 (recensito su «A» n° 228, maggio 1996 da Pino Cacucci)

M. Bakunin, Tre conferenze sull'anarchia, Introduzione di Anselm Jappe, Manifestolibri, Roma 1996, pp. 59, £ 8.000
Si legge nella quarta di copertina: «Nel maggio 1871, mentre la Comune di Parigi lotta ancora contro i suoi nemici, Bakunin cerca di organizzare in Svizzera azioni di sostegno agli insorti parigini. A questo scopo tiene in lingua francese queste tre conferenze agli operai della valle di S. Imier nel Giura, nelle quali riassume in termini diretti e vivaci le proprie idee sulla società e sulla rivoluzione.

Pietro Gori, Addio Lugano Bella. Scritti scelti. M. & B. Publishing, Milano 1996, pp. 318, £ 30.000
Si tratta di una raccolta di articoli, conferenze, interviste a Pietro Gori (1865-1911), del leggendario poeta ed avvocato anarchico messinese, a cui la Bibioteca Franco Serantini di Pisa ha recentemente dedicato una serie di iniziative, seguite da un numeroso pubblico, nei luoghi dell'alta toscana (Portoferraio, Piombino, Rosignano) dove il mito goriano si è maggiormente radicato e consolidato nella prima metà del '900.
I testi, tratti dalla raccolta delle opere di Gori, pubblicate a Milano per le Edizioni Moderne nel 1946-47, svariano, com'era costume di Gori, uomo dotato non solo di rara sensibilità umana ed artistica, ma anche di grande cultura ed erudizione, tra i più disparati argomenti: socialismo legalitario ed anarchismo; interventi su Sante Caserio; scienza e religione; marxismo e anarchismo; lotte operaie; sociologia politica; problemi della delinquenza, ecc. Un testo sicuramente ben assemblato che, come si può evincere dalle note degli editori, «vuole solo essere un invito a riscoprire questa affascinante figura di politico ed intellettuale». Da sottolineare, infine, una appendice bibliografica sull'anarchismo e sulle opere goriane, utile strumento anche per chi già conosce il personaggio e il contesto storico-politico nel quale si trovò ad operare.

Francisco Ferrer Y Guardia, La scuola moderna, M. & B. Publisching, Milano 1996, pp. 142, £ 15.000
È questo un testo in cui Ferrer riassume con efficacia gli insegnamenti, le idee, la storia dell' «Escuela Moderna» da lui fondata. Francisco Ferrer (1859-1909), pedagogista libertario spagnolo, uno dei padri della pedagogia libertaria, per la sua azione rivoluzionaria e per le sue attività di organizzatore di scuole libertarie, che in Spagna dapprima, un po' in tutto il mondo poi si diffusero con un notevole successo, fu perseguitato dallo stato spagnolo e dalla chiesa cattolica: questa non poteva accettare che venisse messo in crisi, su basi dichiaratamente atee e razionaliste, il proprio monopolio della cultura, con il quale contribuiva a mantenere il popolo e le classi oppresse in una condizione psicologica e culturale, oltreché materiale, di inferiorità, ignoranza e subordinazione. Per questo, infine, Ferrer fu pretestuosamente arrestato (come presunto organizzatore dei moti del 1909, la tristemente famosa semana tragica), e, dopo un processo-farsa, condannato a morte ed assassinato, tra le indignazioni e le proteste di tutta l'opinione pubblica mondiale progressista.

Alexander S. Neill, I ragazzi felici di Summerhill. Il piacere di educare e di essere educati. Prefazione di Erich Fromm, Red Edizioni, Como 1996, pp. 203, £
Nella nota introduttiva, si può leggere: «Autoregolazione è una parola che ricorre spesso in questo libro, insieme con libertà, amore, approvazione: sono questi i concetti fondamentali che caratterizzano l'azione educativa di Summerhill, piccola scuola libertaria, fondata negli anni '20 in Inghilterra. Un'esperienza contro corrente che, col suo rifiuto di ogni forma di autoritarismo e di indottrinamento passivo, costituisce tutt'ora un potente stimolo a ripensare in modo nuovo le relazioni tra adulti e bambini, ponendo così le basi per una trasformazione degli stessi rapporti sociali. Nella prima parte del libro, Alexander S. Neill (il fondatore e l'organizzatore, 1883-1973) ci fa conoscere da vicino la sua scuola-comunità: come è organizzata, quali attività si svolgono, che parte vi hanno le materie di studio o lo sport, e quale la libera espressione della personalità infantile, che cosa significhi autogoverno...
Nella seconda parte del libro, «L'educazione del bambino», l'autore ci presenta i princìpi della sua pedagogia, le sue idee su come permettere ai bambini di crescere felici, valide non solo nella scuola ma anche in famiglia. I racconti, di cui sono protagonisti i bambini, le fotografie, che li ritraggono «al lavoro», ci mostrano i frutti di questo modo di vivere con loro.

Raoul Vaneigem, La scuola è vostra. Dedicato agli studenti. (Recensito da Filippo Trasatti in «A» 229) Nota a margine di Domenico Starnone, Marco Tropea Editore, Milano 1996, 94 pp., £ 10.000
Anche questo si potrebbe definire ormai un «classico» della pedagogia libertaria, nonostante si tratti di un autore contemporaneo e (quindi) di un testo recente. Vaneigem (1934), situazionista anarchico attivo soprattutto negli anni '60, collaboratore di Guy Debord e dell'Internazionale Situazionista, da un lato apporta una critica pungente, con il consueto stile sarcastico e provocatorio tipico dei situazionisti, al modello vigente di scuola, i cui caratteri fondanti, autoritari ed alienanti, sono sempre più simili a quelli delle imprese, dall'altro «mostra ciò che la scuola potrebbe essere: la culla dell'autonomia, del sapere e della creazione».

Ivan Illich, Disoccupazione creativa. Un'alternativa desiderabile all'attuale declino delle forme tradizionali d'impiego, Red Edizioni, Como 1996, 89 pp., £ 15.000
Di Ivan Illich (1926), intellettuale libertario tra i più conosciuti dell'epoca contemporanea, pedagogista e teologo dissidente (rispetto al Vaticano), sono usciti in traduzione italiana già molti libri, tra cui vale la pena di segnalare Nemesi medica, Nello specchio del passato (Red Edizioni), Descolarizzare la società, Per una storia dei bisogni e Conversazioni con Ivan Illich (Eleuthera). In quest'ultima fatica, Illich «analizza le nuove forme di povertà che derivano dalla diffusione su scala planetaria di un modello di sviluppo ad alta intensità di merci e di capitali». La sua critica radicale «è rivolta ai poteri simbolici di cui si servono i «padroni delle professioni» per creare bisogni che solo loro sono in grado di soddisfare. La strategia suggerita per ridurre la dipendenza dal mercato consiste in un diverso agire politico, sottratto ad ogni «tutela professionale», che abbia come obiettivo un nuovo equilibrio tra le attività svincolate da leggi di mercato, utili a sé e agli altri (la «disoccupazione creativa», appunto), e il diritto all'impiego».

Max Stirner, L'unico e la sua proprietà, Demetra edizioni, Collana acquarelli. Gli anarchici, Prato, 1995, 418 pp., £ 12.000
Si tratta dell'ennesima riedizione del testo più importante del cosiddetto «individualismo anarchico», nonché di uno dei trattati politico-filosofici più importanti di tutto il XIX° secolo, a cui si ispirò ripetutamente Friedrich Nietzsche. Stirner (pseudonimo di Johann Kaspar Schmidt, 1806-56) conduce alle estreme conseguenze le idee secolarizzatrici principiate dai Lumi: negando qualunque legittimità e fondamento a tutte le istituzioni umane, nonchè ai miti fondanti sulle quali pretendono di reggersi, ne ricava al contempo l'affermazione dell'individualità quale unica forma reale, concreta e non metafisica di esistenza e, conseguentemente, la sua irriducibilità ad ogni progetto collettivo e totalizzante. Se Dio e l'umanità hanno fondato la loro causa sul nulla, allora è lecita la rivolta individuale permanente a questa menzogna istituzionalizzata: l'io in rivolta fonda la propria volontà negatrice nell'eguale non fondamento di ogni progetto, essendo l'individuo il nulla di ogni altro, il suo tutto, l'unico.

Henry David Thoreau, La disobbedienza civile e Vita senza principi, Demetra Edizioni, Collana acquarelli. Gli anarchici, Prato 1995, 92 pp., £ 6.000
Cosa aggiungere a quanto già scritto su questo classico del pensiero libertario, al quale si sono ispirate generazioni ribelli dell'800 e del '900, e che conserva tutt'oggi, nonostante siano passati quasi 150 anni dalla sua prima edizione, una freschezza e un fascino ancora attualissimi? Thoureau (1817-62), libero pensatore, scrittore, poeta e polemista bonstoniano può essere a fatica fatto rientrare in una scuola ben precisa di pensiero politico: egli fa parte di quella schiera eterogenea di pensatori radicals statunitensi, i cui caratteri comuni possono essere rinvenuti in una concezione radicalmente individualista e libertaria, che si differenzia notevolmente dalle teorie anarchiche europee, intrise di socialismo e collettivismo. In alcuni punti de La disobbiedenza civile, la diffidenza di Thoreau verso lo stato ed i governi sfocia in considerazioni genuinamente anarchiche. In un famoso passo, con il quale fa iniziare il suo pampleth, egli afferma: «Di tutto cuore, faccio mia l'affermazione: «Il migliore dei governi è quello che governa meno»; e vorrei vederla messa in pratica più rapidamente e sistematicamente. Se attuata, essa porta in fine a questo risultato, in cui parimenti credo: «Il migliore dei governi è quello che non governa del tutto»... Di qui, Thoerau muove per sostenere la superiorità della coscienza individuale sulla legge e perciò la possibilità di rivoltarsi in maniera nonviolenta ad essa nel caso che la seconda non collimi con la prima. Libertà individuale, antimilitarismo, nonviolenza e mutuo appoggio sono alcune delle importanti tematiche affrontate con efficace semplicità in questo importante e famoso scritto.

Henry David Thoreau, Walden o Vita nei boschi, La Biblioteca ideale tascabile, Editoriale Opportunity Book, Milano 1995, 314 pp., £ 5.000
Si tratta chiaramente, come del resto è facile intuire, di una ristampa di un altro testo importante di Thoureau, anche questo diventato un cult che ha attraversato ed ispirato moltissime generazioni. Scritto nel 1854, Walden è il diario di un solitario soggiorno che Thoureau trascorse in una foresta del New England, dove si rifugiò per due anni, conducendo una vita semplicissima ed austera, alla ricerca di un'armonia con la natura e con se stesso. L'amore per la natura che traspira dalle pagine di questo saggio-romanzo ne fa uno dei testi anticipatori delle tematiche ecologiste sviluppatesi un secolo più tardi. Ma in Walden, Thoureau non rinuncia alle considerazioni sulla società del suo tempo, sul progresso e sulle sue ambiguità, sulle tematiche antimilitariste ed antiautoritarie. Anzi, queste ben si inseriscono nel resto della narrazione, che mantiene, come è costum dell'autore, uno stile sobrio, asciutto, semplice, quasi dettato dall'amata natura nella quale Thoureau si era immedesimato e riflesso.

Helmut Ortner, Sacco e Vanzetti. Una tragedia americana, Zambon Editore, 1996, 278 pp., £ 20.000
2 Un nuovo studio di un autore tedesco «riapre» - ma quando mai si era chiuso? - il tragico caso dei due anarchici italiani assassinati sulla sedia elettrica negli Stati Uniti nel 1927. Dopo otto anni di detenzione, uno stato «democratico» solo con i ricchi condannò alla morte i nostri compagni attraverso una farsa processuale tra le più indegne della storia, con l'appoggio della parte più reazionaria, clericale e razzista dell'opinione pubblica che vedeva riassunte, in Sacco e Vanzetti, le due caratteristiche più spregevoli per gli occhi miopi e delicati della borghesia statunitense: l'appartenenza ad una nazione considerata inferiore, ironia della sorte, perché Sacco e Vanzetti si consideravano, come tutti gli anarchici, cittadini del mondo intero, anche se non rinnegarono mai il proprio paese e le proprie origini e il fatto di essere proletari e per di più anarchici. Ortner ricostruisce in maniera esauriente il clima di quegli anni, nei quali in tutti gli Stati Uniti venivano perseguitati, arrestati ed uccisi centinaia di militanti sindacalisti, socialisti ed anarchici, per lo più immigrati dalle regioni più povere dell'Europa.

A. Sofri (a cura di), Il malore attivo dell'anarchico Pinelli, Sellerio Editrice, Palermo 1996, 101 pp., + la videocassetta del film di Pierpaolo Pasolini sulla Strage di Piazza Fontana, £ 18.000
A distanza di oltre cinquant'anni dall'assassinio di Sacco e Vanzetti, un altro omicidio di stato, e anche questa volta la vittima ed i capri espiatori sono gli anarchici. La vicenda è ben nota ai lettori di «A»; alcuni dei collaboratori della Rivista erano intimi amici di Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico militante del circolo anarchico «Ponte della Ghisolfa», «suicidato» nel locali della questura milanese il 15 Dicembre 1969. Come si legge nella quarta di copertina di questo libro, «sono qui uniti due documenti diversissimi, come un film ed una sentenza giudiziaria, ma legati fra loro. Il 12 Dicembre, che dà il titolo al film nato dalla collaborazione fra Pierpaolo Pasolini e Lotta Continua tra il 1970 e il 1972, è la data della strage di Piazza Fontana del 1969. La sentenza è quella che, nel 1975, segnò la chiusura dell'indagine sul ferroviere anarchico «Pino Pinelli». Sellerio ripropone coraggiosamente, in tempi di oblio storico ovvero di revisionismo, questi documenti importanti: un piccolo tassello per una storia che non possiamo né vogliamo dimenticare.

Mario Schiattone, Alle origini del federalismo italiano. Giuseppe Ferrari, Edizioni Dedalo, Bari 1996, £ 28.000
Giuseppe Ferrari (1811-76) è stato un pensatore importante nella storia del Risorgimento italiano e dell'Italia post-unitaria. Finalmente uno studio recente mette in luce tutti gli aspetti moderni ed anticipatori della sua elaborazione teorica. In tempi cupi di leghismo, è bene ricordare che vi era chi, all'epoca dell'unità d'Italia, si opponeva con forza, e da sinistra, alla colonizzazione selvaggia ed alla militarizzazione del territorio imposta dall'esercito piemontese, propugnando, di contro, una politica federalista e libertaria, avversa all'idea dello stato-nazione. Tra costoro vi era appunto il milanese Giuseppe Ferrari, che si era formato politicamente dopo i moti del '48. Di origini borghesi, Ferrari si era trasferito ancora giovane, per gli studi universitari, a Parigi, dove era entrato in contatto con gli ambienti rivoluzionari e socialisti. Riparato in Belgio dopo il '48, conosce e frequenta Proudhon: con il grande pensatore anarchico Ferrari intrattiene una lunga amicizia che dura sino alla morte del francese. L'incontro con Proudhon risulta decisivo per la maturazione politica di Ferrari. Tornato in Italia, diventa deputato del Parlamento nel 1860: qui conduce ininterrottamente sino al '76 una battaglia anticentralistica ed antipiemontese contro la repressione governativa del Mezzogiorno, contro ogni politica religiosa, in difesa dei lavoratori e delle classi oppresse. Questo studio ha il merito di riscoprire il Ferrari socialista e libertario; è purtroppo vero, infatti, che nella scuole, di solito, il pensatore milanese viene fatto conoscere solo nella versione patriottica e risorgimentale, come capita per Pisacane. Schiattone rileva invece come per Ferrari risorgimento, unità d'Italia e socialismo federalistico ed antiautoritario siano termini diversi di un'unico disegno politico.

Nino Malara, Antifascismo anarchico, 1919-45. A cura di Adriana Dadà, Edizioni Sapere 2000, Roma 1995, 142 pp., £ 20.000
La riedizione di questo testo, scritto dal ferroviere anarchico calabrese Manara, ben s'inserisce in quella recente fioritura di studi sul contributo anarchico alla Resistenza ed alla lotta partigiana, minoritario, certamente, ma assolutamente rilevante, e completamente trascurato dalla storiografia ufficiale. Convegni, giornate di studi, rievocazioni, video hanno riportato alla luce la storia di centinaia di militanti, spesso sconosciuti, alcuni formatisi direttamente nella lotta partigiana, altri sopravvissuti all'esilio, alle galere ed al confino fascista, alla Rivoluzione spagnola. Qui, «Manara ci descrive in maniera partecipata e scrupolosa la resistenza al fascismo costante e quotidiana di molti che non si arresero, di «quelli che rimasero» in Italia, come amava sottolineare, e svilupparono una opposizione costante, quotidiana nei posti di lavoro e molto spesso, dopo il 1926, in carcere e al confino»... Questa resistenza sotterranea fu quella «che tenne viva la coscienza e rese possibile quel fenomeno di opposizione di massa che fu la Resistenza partigiana». Manara mette in crisi un luogo comune della storiografia della Resistenza che presenta le popolazioni del sud come assenti da questa lotta, ricostruendo l'opposizione al dilagare delle squadre fasciste e poi al regime fascista in Calabria, ed evidenzia i legami di solidarietà, gli scambi di esperienze che il confino permise a molte avanguardie politiche ed in particolare a quelle anarchiche, presenti tra gli antifascisti in misura maggioritaria nei primi anni del confino, e comunque sempre molto numerosi.

Murray Bookchin, L'idea dell'ecologia sociale. Per un naturalismo dialettico, Ilapalma-Edizioni Associate, Palermo 1996, 101 pp., £ 25.000
Grazie alla costanza di Salvo Vaccaro vengono proposti al lettore italiano questi due saggi filosofico-naturalisti di Bookchin, teorico libertario dell'ecologia sociale, uno dei maggiori pensatori ecologisti contemporanei. Avendone curato personalmente la prefazione, posso affermare che la lettura di questi due scritti richiede impegno e sforzo; questo libro merita tutta la nostra attenzione, anche se non tutte le affermazioni di Bookchin possono essere condivise: in particolare, il suo approccio giusnaturalistico alla questione etica fa sì che la dimensione filosofica del pensiero bookchiniano sia inquadrabile con una certa difficoltà in una prospettiva libertaria. Il presupposto «oggettivista» ed organicista che sta alla base dell'etica bookchiniana fa della libertà una realtà la cui storia ed i cui fini sono già inscritti nel codice genetico ed evolutivo della natura. Bookchin, sulle orme del protoecologismo di Kropotkin, ritiene infatti che la morale debba essere fondata sulla natura, e che l'etica umana sia oggettivamente inscritta nella libertà naturale. Certamente mancano, nel pensiero di Bookchin, quei pesanti condizionamenti culturali positivisti, quella fede nella scienza che avevano fatto ritenere ingenuamente a Kropotkin che l'evoluzione umana avrebbe condotto necessariamente all'anarchia. Anche nel pensiero di Bookchin, del resto, possiamo rinvenire un certo determinismo, per quanto indiretto. Infatti, secondo il pensatore statunitense la morale è oggettiva in quanto fondata sulla verità naturale, e perciò: o l'uomo si rende conto di essere parte del progetto evolutivo della natura; di esserne, per così dire, l'agente morale. Oppure l'umanità è destinata alla catastrofe, alla distruzione delle specie animali, del pianeta, di se stessa. Ora, è necessario sottolineare che questo approccio «fondamentalista», gravido di conseguenze e ricadute sul piano politico e sociale in quanto «impone» all'uomo certi comportamenti ed azioni piuttosto che altri, entra in contraddizione con uno dei principi cardine del pensiero libertario, quello della autonomia creativa, della creazione ex-nihilo delle norme sociali. Come già a suo tempo osservava Errico Malatesta entrando in polemica con il determinismo kropotkiniano, il pensiero anarchico - e, di conseguenza, l'etica anarchica della libertà - non si fonda su nessuna vera o supposta oggettività naturale, ma è un'aspirazione umana la cui «necessità» è semmai storico-politica. Se ne ricava che l'anarchismo è sostanzialmente, per quanto ciò possa sembrare paradossale, giuspositivista. Al di là di questo e di altri rilievi critici, non si può non consigliare la lettura di questo testo; da Bookchin, che lo si voglia o meno, non si può più prescindere, tale è stato il suo contributo al pensiero libertario contemporaneo.

George Orwell, La fattoria degli animali, Mondadori, Milano 1996, £ 5.900
Esce finalmente in edizione economicissima questa formidabile satira di George Orwell sul colpo di stato leninista e sull'involuzione burocratico-totalitaria del regime bolscevico. Orwell, scrittore, romanziere e giornalista, di fede politica socialista-libertaria, combattente in Spagna nelle file del POUM ed autore del commovente Omaggio alla Catalogna, opera in questo romanzo una delle critiche più pungenti ed acute che mai siano state sferrate al marxismo-leninismo, alla concezione della presa del potere da parte dell'avanguardia sedicente rivoluzionaria, alla teoria, che si fa pratica, della dittatura del (sul) proletariato, alla costruzione di uno stato totalitario dai caratteri così dispotici ed autoritari quali mai, prima di allora, se ne era avuto esempio. Sotto la fiction grottesca della fiaba e dell'allegoria animale, grazie alla quale la lettura risulta addirittura divertente, Orwell sferra una critica culturale, psicologica e politica al comunismo autoritario, ridicolizzando tutti i principali capi dello stato comunista: da Lenin a Trotsky a Stalin. Questo romanzo rappresenta oggi da un lato la testimonianza di un uomo che non si piegò mai, in epoca di conformismi intellettuali e di intellettuali di regime, alle ideologie totalitarie, denunciando con vigore che la «patria del socialismo» era la più grande mistificazione del XX° secolo; dall'altro, esso rimane tutt'oggi un monito per tutti coloro che, in buona fede o meno -questo, comunque, è assulutamente irrilevante perchè è la via dell'inferno ad essere lastricata di buoni propositi - mascherando la propria volontà di dominio sotto la facciata di ideologie solo apparentemente egualitarie - come è stato il marxismo - si servano delle legittime aspirazioni delle classi oppresse verso una società più giusta e più libera, con lo scopo di instaurare un nuovo e più dispotico dominio di classe.

Marcos, Io Marcos. Il nuovo Zapata racconta. Prefazione di Pino Cacucci, Feltrinelli, Milano 1995, 125 pp., £ 12.000
Sono qui raccolti molti dei documenti scritti e redatti dall'ormai famoso subcomandante Marcos, per nome e per conto dell' E.Z.L.N. chiapaneco, apparsi nel primo anno in cui i neozapatisti sono assurti all'onore delle cronache (1994). Da questi frammenti, opportunamente assemblati per tematiche specifiche, è possibile evincere le idee e le motivazioni che stanno alla base dell'insurrezione degli indios, che Pino Cacucci ha così ben descritto su «A» e su altri giornali. Viene poi data l'opportunità di comprendere in maniera più chiara la sfuggente e complessa personalità di Marcos, uomo di intelligenza ed arguzia non comune, di cui, come scrive Cacucci nella prefazione «dobbiamo apprezzare la struggente poetica, la graffiante ironia, l'inedita capacità di ricorrere alle armi disprezzando il militarismo»; senza, per questo, contribuire alla costruzione di un altro mito romantico, la cui operazione, del resto, sarebbe invisa in primis allo stesso Marcos. Un testo importante, che descrive la vocazione libertaria del neozapatismo: questo movimento rappresenta qualcosa di più di una semplice, ancorchè legittima, rivolta di morti di fame. I tratti libertari, il rifiuto della teoria e della pratica della presa del potere e, di contro, l'esaltazione della democrazia comunitaria indigena, ne fanno un movimento nuovo che rompe con tutta una tradizione autoritaria e totalitaria (si pensi ai nazimaoisti di Sendero Luminoso) che da troppi anni ormai caratterizza le lotte per l'indipendenza e la liberazione sociale in America Latina. L'uso spregiudicato e surreale dei massmedia operato dai neozapatisti, il ricorso a forme di democrazia diretta nel tentativo di coinvolgere tutta la società civile messicana sui problemi politici e sociali che l'attanagliano rappresenta un passo in avanti nei mezzi, e non solo nei contenuti: elementi innovatori non solo in America Latina.

AAVV, La guerra civile spagnola tra politica e letteratura. A cura di Gigliola Sacerdoti Mariani, Arturo Colombo, Antonio Pasinato, Shakespeare and Company, Firenze 1995, 319 pp., £ 30.000
Sono qui raccolti gli atti di due convegni di studi, momenti conclusivi di una ricerca finanziata da MURST e CNR, tenutisi rispettivamente all'Università degli Studi di Padova (13/5/1993) e all'Università degli Studi di Firenze (10-11/ 11/1994). Difficile risulta descrivere in sintesi il contenuto ed i temi affrontati in questo testo, data l'eterogeneità degli autori e la diversità dei temi trattati. Frutto di un lavoro che ha visto coinvolti docenti e ricercatori degli Atenei di Firenze, Padova, Pavia, Salerno, Siena, Trieste, il libro affronta in maniera approfondita e non scontata tematiche legate alla costruzione di quel mito a più facce che fu appunto la guerra civile spagnola, ovvero la sollevazione antifranchista e la rivoluzione libertaria. Politica e letteratura: ambiti e discipline diversissime, ma che in quell'occasione, come poche altre volte prima e dopo, trovarono punti di convergenza e di comune riflessione; la guerra civile spagnola spinse moltissimi uomini di lettere a schierarsi pubblicamente con il fronte composito dei repubblicani, a prendere parte, in prima persona, alle stesse vicende militari con un impegno civile inversamente porporzionale alla colpevole ed ipocrita neutralità dei governi degli stati democratici europei. Alcune di quelle convergenze e degli autori che ne furono protagonisti vengono analizzate in questo libro: così troviamo un brillante saggio della Prof.ssa Gigliola Sacerdoti Mariani su Orwell (George Orwell «spilling the Spanish bean»); un contributo significativo del Prof. Domenico Canciani su Simone Weil e Claude Aveline; una «lettura etnografica» di Omaggio alla Catalogna di Orwell (ne è autore il prof. Ralph Church); e ancora: scritti su Ortega, Sender, Gustav Regler, Muriel Rukeyser, sul rapporto tra romanzieri inglesi e la guerra civile. In mezzo a questi lavori trovano spazio altre ricerche, più propriamente storico-politologiche, che hanno come ambito di riferimento privilegiato l'anarchismo spagnolo. Così il saggio di Giampietro (Nico) Berti, (La rivoluzione spagnola e il paradigma del potere), dove l'autore, mantenendo un difficile equilibrio tra l'argomentare appassionato di chi si sente coinvolto emotivamente nell'oggetto analizzato ed il rigore lucido e razionale dello storico, mette in luce i pregi ed i limiti dell'anarchismo spagnolo, dell'anarchismo alla prova con i fatti. E, per ciò che concerne le carenze dell'anarcosindacalismo spagnolo, della CNT e della FAI, Berti sottolinea come esse - culminate nella partecipazione anarchica al governo e nel progressivo ed inesorabile abbandono delle conquiste rivoluzionarie a favore della politica dell'unità antifascista - non debbano essere imputate tanto alla specificità delle contingenze spagnole, quanto fatte risalire ai limiti teorici del pensiero anarchico: la mancanza di una scienza della politica; l'incapacità di capire l'insuperabilità del politico come sfera autonoma dal sociale e non sussumibile in essa, ma come ambito pubblico da reinventare per creare una politica non statale capace di organizzare democraticamente i rapporti di forza che una rivoluzione sociale non può che esprimere allo stato puro ed informale, e che poi, nella fattispecie spagnola, erano a tutto vantaggio dei libertari.
Da ricordare anche i documentati saggi di Claudio Venza (La guerra civile del '36-'39 nella storia della Spagna contemporanea) e di Gigi Di Lembo (Quale anarcosindacalsimo in Spagna?).

Daniela Andreatta, L'ordine nel primo Proudhon. Alle fonti dell'anarchia positiva, Cedam Editrice, Padova 1995, 359 pp., £ 43.000
Si tratta di un lavoro importante, che lascerà il segno. Una ricerca tra le più approfondite sul pensiero del primo Proudhon, sicuramente più vicino all'anarchismo del Proudhon della maturità. Il periodo considerato è quello che comprende gli anni 1837-1846; anni nei quali inizia l'elaborazione teorica proudhoniana, e che precedono l'ingresso nella politica attiva del pensatore di Besançon. In questo lasso di tempo, Proudhon scrive numerose opere: De l'utilité de la célébration du dimanche (1839); Qu'est-ce que la propriété? (1840); De la création de l'ordre dans l'humanité (1843); Systeme des contradictions économiques (1846). La Andreatta, ricercatrice presso l'Università degli Studi di Padova, Facoltà di Scienze Politiche, da molti anni studiosa appassionata di Proudhon, analizza le elaborazioni del primo periodo di riflessioni del pensatore francese «senza vedere già pronto in esso o lì per lì per nascere quello che sarà il Proudhon della maturità, teorico del federalismo e studioso non poco incline a suggestioni pragmatiche e strumentaliste»; intento, questo, tanto più nobile quanto più si considera che, in genere, gli studi sul primo Proudhon hanno di solito il vizio originario di volere a tutti i costi cogliervi, in una prospettiva teleologica e deterministica, i germi della successiva evoluzione «riformistica». Quasi che la dimensione anarchica di Proudhon fosse solo il preambolo, romantico e non ancora maturo, di una visione più disincantata e compiuta. Dei diversi scritti presi in considerazione, la Andreatta, come del resto si può desumere dal titolo di questo studio, approfondisce in particolar modo il tema dell'ordine nel suo dialettico rapporto con la libertà: «anarchia è, per Proudhon, assenza di sovrano, ma non di princìpio e di regola; essa è la negazione della sovranità della volontà, e dunque del dominio dell'uomo sull'uomo sotto qualsiasi forma esso si presenti (anche quella democratica), proprio perché tale dominio e tale sovranità appaiono come disordinati rispetto all'unica sovranità legittima: quella della ragione e della legge»; e di qui prosegue: «radicalmente critica nei confronti di tutte le forme politiche note, agli occhi di Proudhon l'idea dell'anarchia sviluppa il suo potere di negazione in quanto è essa stessa l'ordine nella sua eminenza: ordine non potestativo (...) intrisecamente connotato nel senso dell'immanenza, della completa autonomia soggettiva e della perfetta orizzontalità di tutti i rapporti sociali». Un testo non facile, che rispecchia fedelmente, da questo punto di vista, l'argomentare antinomico di Proudhon, senza voler giungere, in ogni problema, ad una soluzione gratificante per il lettore ma infedele nei confronti dell'autore esaminato; uno studio che meriterebbe una recensione ben più approfondita e dettagliata.

Santi Fedele, Una breve illusione. Gli anarchici italiani e la Russia sovietica. 1917-1939, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 216, £ 30.000
Si tratta di una ricerca storica documentatissima sull'atteggiamento avuto dagli anarchici italiani rispetto alla «rivoluzione» bolscevica ed alla successiva evoluzione dello stato comunista sovietico. Ne è autore lo storico Santi Fedele, docente di storia contemporanea alla facoltà di Lettere e Filosofia dell'università di Messina, che per le Edizioni Franco Angeli aveva già pubblicato un lavoro sul movimento Giustizia e Libertà (E verrà un'altra Italia. Politica e cultura nei «Quaderni di Giustizia e Libertà», Milano 1992, pp. 212, £ 28.000).
Questo studio è particolarmente meritevole di segnalazione per due motivi: il primo consiste nella ricchezza documentativa, basata soprattutto su fonti dirette (prevalentemente giornali, riviste, opuscoli, bollettini del movimento anarchico italiano e, soprattutto dopo l'avvento del fascismo, del movimento anarchico di lingua italiana residente in Europa e in America. Tra i giornali maggiormente citati di quest'ultimo periodo vi sono Il Risveglio di Ginevra, Il martello e L'adunata dei refrattari di New York. Il secondo motivo degno di nota consiste nel fatto che l'autore riesce a farci scorgere l'arcobaleno delle posizioni, dei giudizi, dei commenti degli anarchici italiani in merito alla questione russa. Si delinea così un quadro tutt'altro che univoco e scontato, come si potrebbe supporre oggi. Emergono le sofferte e contraddittorie posizioni del movimento anarchico italiano che subì prepotentemente, anche se in misura minore di altri movimenti rivoluzionari della sinistra, il fascino del mito bolscevico e del carisma di Lenin. Un'atteggiamento ambiguo contraddistinse per mesi i maggiori organi di stampa anarchica, ed anche gli attivisti, i militanti, le figure di più comprovata esperienza si trovarono di fronte al dilemma: difendere comunque la rivoluzione russa, nonostante ne avessero colto precocemente i possibili esiti autoritari, oppure criticare senza riserve un'esperienza che sembrava convergere rapidamente verso l'edificazione di uno stato dittatoriale, con gravissime conseguenze per la libertà in generale e per il movimento anarchico russo in particolare? Complessivamente, si può dire che sino al 1919, la cesura viene convenzionalmente attribuita dall'autore ad una lettera di Errico Malatesta a Luigi Fabbri del 30 luglio 1919, pubblicata il 16 agosto sulla rivista Volontà, le posizioni degli anarchici italiani, pur oscillando tra questi due estremi non senza esiti paradossali, furono contraddistinte dalla volontà di difendere la rivoluzione russa al di là di ogni altra considerazione, con toni spesso acritici o addirittura esaltati. Tale infatuazione, inspiegabile in termini dottrinari, deve essere ricondotta a molteplici fattori: anzitutto la scarsità di notizie precise che provenivano dalla Russia, e in particolare dal movimento anarchico locale. Poi, l'atteggiamento superficialmente ambiguo del bolscevismo, che in molte parole d'ordine pareva ricalcare tematiche libertarie: «la terra ai contadini»,«il potere ai soviet», la rivoluzione subito, senza passare per la «necessaria» fase borghese. Superficialmente, certo, perché gli anarchici ben sapevano che il leninismo era una filiazione del marxismo: ma era un marxismo eretico, rivoluzionario e volontaristico, che cozzava contro l'atteggiamento immobilistico e fatalistico dei Partiti socialdemocratici aderenti alla IIa Internazionale e rompeva con il marxismo ortodosso allora imperante. E ancora: la priorità che l'anarchismo del tempo, inserito nel movimento operaio, attribuiva alla dimensione anticapitalista e antiborghese rispetto a quella antistatale e, collegata a questa, l'infatuazione per la mitologia rivoluzionaria, a scapito di ogni soluzione riformista anche se meno autoritaria -meglio Lenin di Kerenski!- Infine, ma non ultimo in ordine di importanza, la potenza evocativa, a livello immaginario, che la notizia della rivoluzione russa aveva avuto sul proletariato italiano, tale per cui era lecito aspettarsi una sua radicalizzazione e l'esplodere di nuove tensioni rivoluzionarie.
Con il passare dei mesi e degli anni, mano a mano che le notizie si facevano sempre più drammaticamente precise, che emergeva sempre più chiaramente l'esatta natura dittatoriale del fenomeno bolscevico, che si apprendeva delle persecuzioni inflitte al movimento anarchico russo dallo stato comunista - i cui momenti più significativi furono la repressione della sollevazione di Kronstadt e l'annientamento dell'Ucraina machnovista - le ambiguità, le reticenze, la «ragion di stato» cedettero il posto ad un atteggiamento più obiettivo e al contempo più coerente con i principi libertari: crebbero così denuncie sempre più incisive della dittatura leninista, cosicché lo stesso Malatesta, il quale sin da subito aveva espresso una posizione prudente anche se non priva di contraddizioni, alla morte di Lenin stilò un sintetico ma eloquentissimo necrologio dello statista bolscevico, che ebbe giustamente a suonare come il necrologio dell'intera rivoluzione russa: «Sia pure colle migliori intenzioni [Lenin] fu un tiranno, fu lo strangolatore della rivoluzione russa, e noi, che non potemmo amarlo vivo, non possiamo piangerlo morto. Lenin è morto. Viva la libertà (Pensiero e volontà, 1° febbraio 1924). Successivamente, gli anarchici italiani fuggiti al fascismo (in primis Fabbri e Berneri) e le comunità anarchiche italiane d'Europa e oltre oceano criticarono sempre più aspramente la dittatura comunista, mettendone in rilievo la natura totalitaria e liberticida e le analogie che tale fenomeno aveva con l'esperienza fascista. Il dolore per la sconfitta della rivoluzione, per quella «aurora boreale nel cielo di Russia» diventa notte polare, la rabbia causata dallo sterminio del movimento anarchico russo, furono per così dire mitigati dalla lucida per quanto amara consapevolezza che la storia si era incaricata di inverare le profetiche intuizioni dei «padri storici» del pensiero anarchico: la fallacia del marxismo e della sua teoria struttura -sovrastruttura; la lettura del marxismo come ideologia di classe; la critica dello stato in quanto struttura impossibilmente neutra e intrinsecamente autoritaria; la teoria dello stato come produttore di classi; l'impossibilità, teorica e pratica, di scindere libertà e giustizia sociale. Il movimento anarchico aveva perso, ma Proudhon, Bakunin e Stirner avevano vinto.

Michail Bakunin, Là dove c'è lo stato non c'è libertà, Acquarelli anarchici, Demetra, Bussolengo (VR) 1996, pp. 298, £ 10.000.
Terzo testo di questi «acquarelli anarchici», dopo quelli di Stirner e Thoreau, La dove c'è lo stato non c'è libertà è un'antologia di scritti di Michail Bakunin preceduta da una insoddisfacente introduzione anonima alla quale vengono amplificati aspetti anche marginali del pensiero del grande anarchico russo, come il retaggio cospirativo-massonico che influì sul suo modo di concepire la lotta rivoluzionaria, mentre si tralasciano di indicare i veri punti centrali dell'anarchismo bakuniniano: la critica al marxismo e la previsione delle sue derive totalitarie; le concezioni innovative della libertà e dell'uguaglianza; la teoria dell'integrazione del lavoro ed altri geniali spunti. Questa raccolta antologica ha pure un'altro vizio: si apre, ingiustamente, a mio avviso, con la Confessione, un documento del 1851 scritto da Bakunin, appena scampato alla fucilazione e recluso a tempo indeterminato nelle galere zariste, in un momento di scoramento. Si tratta di una lettera indirizzata allo zar Nicola I°, nella quale un Bakunin «criminale penitente» chiede al signore di tutte le Russie che la sua pena carceraria sia convertita in quella ai lavori forzati. La stringatissima ed inutile introduzione che precede il testo non spiega sufficientemente il contesto storico né si preoccupa di sottolineare il fatto che il lettore si trova di fronte ad un atto a cui il rivoluzionario russo, non ancora anarchico, era in un certo senso costretto ad adempiere, pena la detenzione a vita nella galera di Pietro e Paolo. Questa lunga missiva, come si può facilmente dedurre, è perciò priva di valore politico anche se rappresenta un importante documento autobiografico e storico. Il lettore poi non deve farsi ingannare dallo stile retorico e forzatamente ossequioso: anzitutto perché era l'unico modo per sperare che la lettera fosse letta e sortisse l'effetto desiderato; in secondo luogo perché è possibile scorgere, sotto l'umiliante velatura formale, una critica impietosa, per quanto generica, del dispotismo autocratico russo, critica che nessun altro uomo avrebbe potuto impunemente rivolgere a sua maestà l'imperatore; spacciandolo come un pensiero peccaminoso e menzognero, frutto di un passato criminale del cui rimorso l'ormai «pentito» rivoluzionario vuole sbarazzarsi, Bakunin, tra l'altro afferma: «il governo non libera il popolo russo anzitutto perché, benché dotato di un potere illimitato e della potenza del diritto, in realtà è condizionato da una serie di circostanze, legate tra loro invisibilmente e che tutte fanno capo alla sua amministrazione corrotta e all'egoismo della nobiltà. E più ancora perché esso in realtà non vuole né la libertà né l'istruzione né l'emancipazione del popolo russo poiché lo considera come una macchina per conquistare l'Europa» (p. 23). Gli altri testi riportati nell'antologia sono sicuramente interessanti anche se si tratta di scritti già conosciuti e pubblicati in questo secolo molte volte dalle case editrici del movimento anarchico. Tra essi, è il caso di ricordare lo splendido scritto L'istruzione integrale, testo nel quale Bakunin individua nella divisione gerarchica del lavoro tra manuale e intellettuale la radice che innerva l'albero della disuguaglianza, l'origine e la fonte della divisione classista della società, affermando la necessità del suo superamento nella costruzione di una società socialista e libertaria. Degni di essere ricordati sono pure alcuni significativi passi di Stato e anarchia, l'unico lavoro organico e compiuto di Bakunin, rivoluzionario impenitente troppo impegnato nell'azione organizzativa del movimento operaio e delle classi oppresse per potere permettersi lunghi periodi di ascesi meditativa e di studio costante. Brillano davvero, tra frammenti riportati, le parti nelle quali Bakunin critica il pensiero marxista descrivendone con 50 anni di anticipo gli esiti totalitari. Una iniziativa editoriale, questa, comunque meritevole di lodi: sia per i documenti proposti che per il prezzo di copertina.