Rivista Anarchica Online
Lorenza, Judith e Cristina
di Lorenza Zambon
Lorenza Zambon incontra, due anni fa, Judith Malina. Qui parla della sua esperienza umana e teatrale, alla luce
del libro-intervista che Cristina Valenti ha realizzato con Judith
Una presenza nuova è esplosa nella mia vita: Judith Malina. Due anni fa.
È stato facile. Una sequenza di
avvenimenti che fluidamente, fortunatamente si sono susseguiti l'uno all'altro, perché qualche rara volta
succede
nella vita, e magari ce lo meritiamo anche, vivaddio. Avevo un'idea per il teatro, una di quelle così
forti che ti rendono coraggiosa. La sequenza «magica» parte quasi subito. I miei soci approvano, Luciano
scriverà il testo, il mio socio più pazzo,
Catalano, dice che qui si tratta di madri e che nel nostro teatro la madre è Judith Malina. Osiamo? Oso,
la cerco
(ma dove accidenti?). Prima telefonata, prima benefica portatrice di buoni auspici: Laura: l'idea è
giustissima,
dice (e lì comincio a sentire che può funzionare) e Judith è «vicina», basta telefonare a
Cristina, sono molto legate,
Cristina sta scrivendo un libro... Seconda telefonata, seconda preziosa portatrice di buoni auspici: Cristina:
l'idea è giustissima, dice (gli dei
rendano merito a chi ci incoraggia e ci sostiene), Judith «è possibile», è a New York, devo
proprio telefonarle
domani, mandale un fax... (e giù utili consigli, siate determinati, siate pragmatici...). E tutto funziona,
e Judith parte, prende un aereo, attraversa l'Oceano e viene a lavorare con me! E il giorno dopo
il suo arrivo, mia madre finisce di morire, mia mamma, i cui due ultimi anni di vita mi hanno reso impellente la
necessità di questo spettacolo, non c'è più, ed è arrivata Judith, e tre giorni dopo
cominciamo a provare, fortunata
me! E lavoriamo come compagne, e siamo pronte in un mese, e il giorno della prima a Santarcangelo diluvia e
noi siamo gli unici al coperto (gli dei, se decidono che ti proteggono, poi mettono anche le ciliegine) e tutti
vengono da noi, e tutto funziona, e di lì parte Maudi e Jane, un anno e mezzo di lavoro quasi
continuo, viaggiamo,
mangiamo, qualche volta dormiamo insieme, e quasi tutte le sere saliamo sulla scena, io e lei, e amiamo questo
spettacolo, e lei entra nella mia vita. E adesso è partita (ma tornerà) e io lavoro a cose nuove
e ho in testa tutto quello che Judith mi ha detto e
raccontato in questo tempo e in mano Conversazioni con Judith Malina (Elèuthera), il libro
di Cristina, la
portatrice di buoni auspici, che riesce quasi miracolosamente a costruire una sola storia dalle mille storie e dai
mille pensieri di una vita che sembrano dieci; il cerchio si chiude, e allora vuol dire che devo proprio farlo: devo
«fare il punto» su Judith. Non sono una studiosa, sono una che fa teatro, per me «fare il punto» vuol dire
capire «cosa mi serve» della
grande opera di creazione che il Living Theatre ha compiuto e che Judith ha compiuto nel Living, cosa mi serve
della sua lunga vita passata e presente, immediatamente, per creare ancora, cos'è vivente
della sua pratica nella
mia pratica di oggi. Dunque: cosa mi serve? Judith è una «grande vecchia» perché, come altri
pochissimi «grandi vecchi» ancora vivi
ed attivi (Peter Brook, Jerzy Grotowsky... e basta), ti spinge, ti costringe a ripensare al tuo rapporto con il teatro
da principio, dai princìpi, dicendo quelle cose che in bocca a qualsiasi altro suonerebbero banali e
retoriche e che,
dette da loro, sono vere e forti, e perturbanti anche, perché vanno fino al fondo del problema. Una
di queste è il primo insegnamento di Erwin Piscator nel suo Dramatic Workshop (Judith Malina) lo
frequentò
giovanissima e a prezzo di grandi fatiche; questa parte del racconto è appassionante, quasi rocambolesca)
che la
Malina ha praticato tutta la vita e che continua a ripetere ad allievi, ad attori, a me: «Se un attore non ha qualcosa
da dire non deve salire sul palcoscenico e pretendere che la gente lo stia a guardare». È banale?
Scontato? Anzi ideologico, volontaristico, così anni '60? «Qualcosa da dire». Eppure continua a
girarmi in testa. Mi ha
colpita, una frase che condensa in una formula molto semplice una tensione, un'agitazione che ho dentro
già da
tempo, l'ho riconosciuta, e non ce l'ho dentro solo io, certo, anche altri, i migliori di noi, credo, e forse è
sempre
stato così. Ohe! Questa è la base e bisogna saperla riconoscere, anche «interrogandosi sul teatro
oggi». Andiamo passo passo. «Qualcosa da dire»: la soluzione Living/Judith: «The plot is the revolution».
(Stringo e
banalizzo, forse, ma sono d'accordo con l'intuizione di Cristina nell'introduzione: La trama è la
rivoluzione «si
rivelava un aforisma denso di significati particolari e generali non riferibile solo a Paradise Now,
ma in grado di
riassumere e racchiudere in forma metaforica tutta l'avventura teatrale del Living e, in particolare, l'intera
esperienza biografica, artistica ed esistenziale di J.M.). Seguire il dipanarsi di questa trama nel racconto di Judith
da uno spettacolo all'altro, da un'azione ad un'altra è appassionante ed istruttivo nel senso più alto
del termine,
e ti riempie di stupore ed entusiasmo. Ma non è la soluzione buona per noi. O perlomeno non lo sento,
non lo
credo; sono uscita dall'idea di rivoluzione da tanto di quel tempo, come tutti quelli che mi circondano, io forse
meno schiantata di altri, ma con un convincimento profondo nella testa: non esiste, e forse non potrà
più esistere,
un'idea, una teoria politica, una teoria della prassi, un «pensiero» che dir si voglia che spieghi il mondo, che ne
unifichi la complessità, che ci dica cosa farne. Ho perso la fede. Per la seconda volta. Ho chiuso con gli
«assoluti»,
almeno credo. Questo non vuol dire che quando vedo gli occhi di Judith che dice «... la bella rivoluzione
anarchica e pacifista!»
io non ne abbia una sferzata; sono gli occhi di chi sa quel che dice e fa quel che dice, di chi si impegna da
cinquant'anni a derivare dalla sua «visione del mondo» coerenti comportamenti artistici, politici, sessuali; non
ci sono illusioni ingenue in lei, c'è un'ingenuità «santa», potente e perturbante. Ed io la rispetto
e la ammiro per
questo e se mi dice «ricordati che devi avere qualcosa di bruciante da comunicare», come minimo le
credo. Dunque, «qualcosa da dire»: qual'è la nostra soluzione? Non può
essere che il teatro trovi le sue ragioni nel teatro, non ci porta da nessuna parte. A costo di dire «parole
grosse», il teatro deve trovare le sue ragioni nella vita, nel bisogno di capirla e di cambiarla, come sempre, non
si scappa. C'era in giro un concetto, qualche tempo fa, e c'è anche adesso, se ne parla solo un po'
meno: «teatro necessario».
Un teatro che parli di cose necessarie per la nostra vita, non per il nostro essere teatranti, quelle cose che non
possiamo tacere, che dobbiamo far avvenire per forza, di fronte ad altri, perché sentiamo che sono
necessarie
anche per loro. Non so spiegarlo tanto meglio di così, ma sono sicura di saper distinguere molto
chiaramente
dentro di me quali sono gli spettacoli «necessari» fra quelli che ho fatto e anche fra quelli che ho visto; forse sono
pochi ma ce ne sono, vivaddio. Non so analizzare bene in cosa stia la necessità, non ne ho ancora un
pensiero chiaro, ma ne conosco l'effetto. L'ho sperimentato qualche non frequente, benedetta volta, sia da una
parte che dall'altra della «parete». L'effetto
è che qualcosa avviene. Non tutto si può dire di ciò, è un mistero, pubblico
e collettivo, ma qualcosa avviene: chi assiste capisce che si
sta parlando proprio di lui, di qualcosa che è importante per lui, che ci abbia sempre pensato o che non
ci abbia
pensato mai, e sente che è così anche per chi agisce, e chi agisce se ne accorge, e allora si
comincia a fare sul
serio. E, per tutti, il punto di vista cambia un po'. Ed ecco che si sta parlando di qualcosa che non riguarda
più
solo gli individui. Teatro. Forse Judith ha voluto e vuole più di questo dal suo teatro. Io mi dico che
devo volere almeno questo. Me ne
rendo conto, per questa strada il discorso si sposta sempre più su un piano che non so definire se non
«etico». E
questa, adesso ce l'ho chiaro, è l'influenza di Judith. Con quello che ha fatto e con quello che è,
ti spinge e ti
conforta a pensare al tuo mestiere, a pensare il teatro e anche la vita, insomma, nel modo più alto
possibile,
volendo moltissimo e dando moltissimo. Ed è un «insegnamento» duro, ma quanto snebbiante e
corroborante.
Moltissime altre ispirazioni mi sono venute da Judith, nel lavoro e nel tempo passato insieme, e molti altri
«ponti»
ho scoperto e precisato rileggendo le sue parole, che mi si ripresentano quasi altrettanto vive nel libro,
nell'«ordine» a tratti addirittura illuminante di Cristina. Di una cosa sola voglio ancora parlare. La prima
volta che Judith è venuta da noi, alla «casa degli alfieri», i suoi occhi si sono accesi. Ha guardato la sala
teatrale, l'ufficio, la stanza delle mostre, il giardino, il teatro all'aperto, la foresteria, gli appartamenti di ognuno
di noi, uno diverso dall'altro, e ha detto ad Hanon Reznikov, suo marito, che è nel Living da più
di vent'anni,
qualcosa che suonava come: «Per infiniti anni nel gruppo abbiamo parlato di questo... e loro, zitti zitti, l'hanno
costruito». Onore ci ha fatto che lei trovasse un «ponte» con noi. E noi che abbiamo costruito questa «casa»
proprio zitti zitti, cioè senza parlarne troppo neanche fra di noi, senza
analizzare ed «organizzare il pensiero» più di tanto, abbiamo riconosciuto una nostra radice profonda
marcata
potentemente «Living»: l'idea del gruppo. (Epico è il racconto di Judith nel capitolo «Teatro in esilio.
Verso il
collettivo», ma asciutto è il tono, per niente romantico o autocelebrativo). Quando ho cominciato a fare
teatro io,
qualcosa più di vent'anni fa, questa era una della più forti idee guida, e così è
stato anche per i miei «soci», come
per tanta altra gente; ci siamo «formati» a questa idea, e il Living era uno dei punti di fuoco di tutto ciò,
con il suo
modo di fare teatro che si integrava con la reale sperimentazione di costruzione di un collettivo. Ora so che quel
collettivo nomade ha molto parlato e progettato e sognato sulla possibilità di avere una casa comune per
la vita
e il teatro. E noi, che a quella idea ci siamo formati, abbiamo sperimentato il «gruppo» in tanti modi, via via
disilludendoci, ma anche via via acquisendo una qualche «tecnica del rapporto umano nel lavoro comune» da quel
«corso intensivo superiore d'ardimento in comunicazione interpersonale» che è la vita di un gruppo
teatrale che
persiste nel tempo. E abbiamo costruito questa casa, anche qui, volendo molto, ma molto meno di quello che
Judith voleva e, per certi
versi, vuole ancora («...negli anni '60 uno dei nostri obiettivi era che non ci fossero divisioni fra vita pubblica e
privata, economica, politica, sessuale, famigliare, culinaria, nel modo di crescere i bambini, di creare gli
spettacoli, di sviluppare i nostri ideali politici: tutto doveva integrarsi. Ma adesso questa integrazione è
solo
parziale...»). Ma qualche cosa vogliamo, diverso nel tempo e nella concezione, ma di «pasta» simile, secondo
me: lavorare
insieme per aiutarci e per garantirci reciprocamente la possibilità di fare questo lavoro come va fatto;
avere uno
spazio adatto a questo, in cui vivere non insieme, ma vicini, in cui la vita e il lavoro non dico si integrino, ma
almeno abbiano la possibilità di comunicare più liberamente, in cui poter accogliere altre persone,
artisti, teatranti.
Garantire una base, tenere un posto «caldo». E Judith alla «casa degli alfieri» ci ha abitato, e ci abbiamo lavorato,
e il cerchio si chiude, e questi sono «lussi» per cui è bello rischiare. E ora basta, troppo vasto
è «fare il punto su Judith». So che ho parlato più di me in relazione a Judith che del libro
che pure mi è così caro. Ma credo che Cristina capirà, perché secondo me
abbiamo lo stesso punto di vista, lo
sento da molte sue domande: amiamo Judith, condividiamo con lei qualcosa di personale, per lei l'idea anarchica
e pacifista, per me la vita del teatro, e sappiamo entrambe che, per onorare una come Judith Malina, non basta
parlarne, bisogna lasciarsi attraversare, confrontarsi sul serio, andare in fondo e, almeno un po', fare. Solo un
piccolo omaggio a Judith, amatissima: uno dei versi che lei stessa ha scritto per Dorothy Day e Paul Goodman,
grandi ispiratori della sua vita: «...Sia benedetto il Santo Uno, che mi ha mandato buoni maestri».
Lorenza Zambon... Lorenza Zambon inizia lo
studio e la pratica del teatro con il gruppo sperimentale del Centro Universitario
Teatrale dell'Università di Padova T.P.R.C.U.T. Dal 1981 è parte integrante di Alfieri
Società Teatrale (ex Magopovero), con cui realizza un lungo percorso di
ricerca e creazione che ha portato a realizzazioni quali Van Gogh e Creature di
Luciano Nattino (assieme ad
Antonio Catalano), Il valzer del caso di Victor Haim e Giorni felici di Samuel Beckett
(in cui è protagonista) e
i fortunati La barca di Gerard Gelas (con Alessandro Haber) e Maudie e Jane di L.
Nattino da Doris Lessing (con
Judith Malina) che ha avuto due stagioni di repliche (si veda "A" n. 214). Come regista mette in scena
La solitudine del maratoneta di A. Sillitoe (con Giancarlo Previati) e La fortezza
vuota di L. Nattino (con G. Previati e Giuliano Amatucci). Conduce da molti anni un'esperienza di
sperimentazione teatrale all'interno del Collettivo Teatrale del Carcere
di Voghera.
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