Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 229
estate 1996


Rivista Anarchica Online

Un'ipotesi da costruire
di Maria Matteo

Dal 5 all'8 settembre si svolge a Pietrasanta la 3a Fiera dell'Autogestione. Ottima iniziativa. Ma quale autogestione?

Le parole, così come le persone, gli oggetti di uso quotidiano, il paesaggio, mutano di senso, ampliano o restringono il proprio ambito semantico, vedono modificarsi le nuance emozionale che le accompagna. Così il termine autogestione rimanda ad una pluralità di significati ed interpretazioni che alludono a pratiche ed intenzionalità politiche estremamente differenti, In ambito anarchico lo spazio delineato dal concetto di autogestione non è meno diversificato ed ambivalente e si disloca tra l'orizzonte concreto di una prassi immediatamente attingibile e quello utopico di un domani post-rivoluzionario: 1a due concezioni, sia pur contigue, tendono per lo più a non intersecarsi. Il dibattito, che negli ultimi tre anni si è sviluppato intorno alle Fiere dell'autogestione tenutesi ad Alessandria e a Padova, rispettivamente nel settembre del '94 e del '95, e alla prossima Fiera che si terrà a Pietrasanta il settembre prossimo, in parte riflette lo iato testè segnalato ma in parte preconizza la possibilità di un suo superamento. Pensare una pratica autogestionaria capace di un'effettualità radicale ed immediata implica l'andar oltre sia all'idea che l'autogestione sia realizzabile solo in assenza di un dominio politico ed economico sia all'opposta ma simmetrica concezione che pensa l'agire autogestionario come verifica sperimentale di possibili orizzonti futuri. In realtà, come dimostrano molte iniziative autogestionarie in corso l'autogestione si configura come scelta che mira a coniugare tensione utopica ed effettualità e pensa quindi il proprio agire nell'ottica della trasformazione sociale. E' pertanto evidente che la posta in gioco nel dibattito sull'autogestione va ben oltre la mera disamina di possibilità e limiti di singole esperienze ma investe il senso stesso del processo di trasformazione sociale. Ad aspirare ad un assetto sociale improntato a libertà ed uguaglianza non implica solo una critica dell'esistente ma anche la concreta prefigurazione di un'alternativa possibile. Al dar vita ad esperienze che nei più diversi campi tentano di lavorare, educare, curare, vivere secondo principi libertari non può essere né un asettico esperimento da laboratorio sociale né un privilegio di cui godranno lo generazioni future, ma uno dei non secondari elementi di un progetto rivoluzionario. indubbiamente l'agire da libertari in un contesto gerarchico e competitivo, piegato alla logica del profitto non è così facile, specie se non sl superano la frammentazione e l'isolamento che non di rado sono il segno distintivo dl tante esperienze. La strada è lunga ed irta d'ostacoli, non ultimo il rischio del ripiegamento su se stessi sui bisogno di tirare a campare che talora spinge ad una sostanziale accettazione delle regole di un gioco che non si è in grado di cambiare. La svolta produttivistica e manageriale o, per converso, l'involuzione mistica che hanno caratterizzato alcuni dei percorsi dell'ecologismo più radicale degli anni '80 nel nostro paese ne sono una chiara dimostrazione.
L'esperienza apparentemente più radicale degli squatter, ossia di quella parte del movimento italiano delle occupazioni che si caratterizza per il rifiuto di qualsiasi «normalizzante» accordo con le amministrazioni locali, non pare discostarsi significativamente da quella, più moderata, dei centri sociali. Se si considera inoltre che la straordinaria duttilità del capitale gli permette di trasformare in merce vendibile con buoni profitti anche il desiderio di un ambiente più sano o l'ambizione ad esprimersi attraverso moduli esistenziali dirompenti, il quadro che ci si delinea innanzi non sembra essere dei più incoraggianti. Pare che nulla, assolutamente nulla possa evitare di essere trasformato in merce: per ogni punk che si infile un anello sul sopracciglio, troverete almeno un paio di ditte specializzate in grado di fornire una vasta gamma di modelli per tutte le esigenze.
Il sostanziale fallimento dell'esperienza dei centri sociali così come delle esperienze di vita e produzione degli ecologisti parrebbe alludere all'impossibilità di dar corpo ad utopie concrete, progetti di negazione radicale dell'esistente il cui campo privilegiato d'intervento sia la costruzione sin da ora di un altro modello di relazioni sociali, un modello non gerarchico e non mercantile. In realtà entrambi, sia gli ecologisti radicali sia gli occupanti di un centro sociale non hanno in alcun modo perseguito un progetto autogestionario radicale, ossia un progetto che sapesse coniugare la concretezza delle proprie realizzazioni con un'inesausta tensione al rovesciamento dell'ordine esistente.
Gli uni e gli altri non sono riusciti a oltrepassare i limiti angusti della propria area d'intervento, che per gli uni era il riferimento privilegiato alla questione ambientale, per gli altri la necessità di soddisfare esigenze di convivialità. Questi movimenti così come quelli pacifisti e femministi sono sorti dalla critica di un modello di intervento politico che da un lato si caratterizzava per una precipua attenzione allo scontro di classe nei luoghi di lavoro, dall'altro era attraversato da una forte spinta antisistemica globale.
Tale modello si era rivelato del tutto ineffettuale sia per la netta deriva socialdemocratica con la conseguente rinunzia ad ogni velleità rivoluzionaria, che il movimento operaio ha assunto nel nostro paese sia per l'incapacità di affrontare efficacemente esigenze di trasformazione dell'esistenza quotidiana, delle modalità relazionali, della qualità della vita che i nuovi movimenti ponevano con forza Gli «alternativi» hanno avuto l'indubbio merito di evidenziare i limiti di un approccio che pretendeva di subordinare al conflitto di classe ogni altra esigenza: dal bisogno di porre un freno alla distruzione ambientale a quello di lottare contro il patriarcato, dalla necessità di affermare stili di vita libertari a quella di sperimentare nuove modalità relazionali, artistiche educative.
Con il che certo non si intende negare l'importanza dei conflitti di classe ma semplicemente sottolineare che un approccio libertario deve necessariamente, affrontare il dominio nelle sue diverse manifestazioni e non solo in uno, per quanto importante, dei suoi aspetti.
D'altro canto se i movimenti alternativi hanno avuto la felice intuizione di mostrare che lo spazio dell'autonomia, dell'autogestione può e deve essere tracciato già oggi e non solo nell'orizzonte immediatamente inattingibile della società futura tuttavia sono stati incapaci di evitare 1a caduta nel particolarismo, che prelude alla rinuncia ad ogni slancio progettuale più complessivo. Il pericolo di «recupero» delle attività autogestite, che da taluni è indicato come esito inelibinabile di qualunque impresa si sviluppi all'interno di una società statalista e capitalista, può essere superato solo se la scelta autogestionaria non si limita a creare nicchie di sopravvivenza per piccoli nuclei d'individui ma riesce a farsi proposta capace di pervadere il corpo sociale. In Italia il vivace dibattito intorno al cosiddetto «terzo settore» pare confermare le tesi sulla neo socialdemocrazia di Bihr, il quale ritiene che lo sviluppo di un settore autogestionario che si occupi dl «lavori socialmente utili» e che dipenda dalle istituzioni locali consente a costi ridotti di coprire il vuoto determinato dalla eliminazione o riduzione di sevizi pubblici. I vantaggi che deriverebbero al capitale dall'affermarsi su vasta scala di una simile prospettiva sono del tutto indubbi: la garanzia di efficaci ammortizzatori sociali che non solo hanno costi bassi ma permettono di ingabbiare gruppi di individui 1a cui vivacità politica e culturale sarebbe altrimenti disponibile sul piano del conflitto sociale. Il nodo che quindi occorre oggi tentare di sciogliere sta nella capacità di dar vita a movimenti, che pur nel riferimento specifico a questa o quella questione, siano capaci di sviluppare sinergie tali da creare il nucleo costitutivo di una reale controsocietà. Attività realmente autogestite e non più o meno consapevolmente asservite ad un progetto neosocialdemocratico devono quindi intendere «i compromessi che possono darsi con le istituzioni capitalistiche (mercato o stato che sia) come necessità temporanee, imposte dai rapporti di forza del momento e in nessun caso come orizzonte insuperabile»(Alain Bihr; «Dall'assalto al cielo all'alternativa» edizioni BFS, Pisa 1995). La prassi autogestionaria si propone di ricostruire e rafforzare la capacità autoistituente del corpo sociale, delegittimando in tal modo: potere politico ed il capitalismo. Occorre tuttavia che l'autogestione non si fermi all'ambito strettamente economico ma divenga il terreno fertile in cui aprire uno spazio pubblico non statale che sia elemento catalizzatore di modi di vivere, produrre, educare i figli capaci di operare una trasformazione culturale di vasta portata. Ma non solo. La politica, svincolata da ogni dimensione istituzionale deve divenire il luogo in cui una comunità si costituisce come tale, avocando a sé la facoltà decisionale. Questa prassi che taluni chiamano comunalista ed altri dl autogoverno extraistituzionale è l'humus in cui affonda le radici un movimento che sa coniugare l'effettualità nel qui ad ora con il progetto di radicale trasformazione della società. La frammentazione o la specializzazione che spesso contraddistinguono il movimento autogestionario si può stemperare all'interno di una sfera pubblica non istituzionale, uno spazio di partecipazione diretta dei cittadini alla vita associata che di fatto privi di ruolo e legittimità l'armamentario politico ed ideologico della democrazia. Tra i due modi di concepire l'autogestione che ho segnalato in apertura se ne viene delineando un terzo, che non demanda a domani l'edificazione della società futura non perché ritenga di poter prescindere dalla necessità di un rivoluzionamento dei rapporti politici e sociali ma perché sa che nessun reale processo rivoluzionario può dorsi se non nella concreta realizzazione di un'alternativa possibile. Il che, è ovvio, non ci fornisce garanzie di sorta nè per il presente nè per il futuro ma semplicemente tenta di alludere ad una modalità del cambiamento sociale che abbia da un lato chiara consapevolezza etica del bisogno di una congruenza tra mezzi e fini e nel contempo netta percezione che la frattura rivoluzionaria non può che essere evento quotidiano, perché è in costante ed irresoluto conflitto con la quotidianità di un'esistenza sotto tutela.