Rivista Anarchica Online
Un'ipotesi da costruire
di Maria Matteo
Dal 5 all'8 settembre si svolge a Pietrasanta la 3a Fiera dell'Autogestione. Ottima iniziativa. Ma quale
autogestione?
Le parole, così come le persone, gli oggetti di uso quotidiano, il paesaggio,
mutano di senso, ampliano o
restringono il proprio ambito semantico, vedono modificarsi le nuance emozionale che le accompagna.
Così il
termine autogestione rimanda ad una pluralità di significati ed interpretazioni che alludono a pratiche ed
intenzionalità politiche estremamente differenti, In ambito anarchico lo spazio delineato dal concetto di
autogestione non è meno diversificato ed ambivalente e si disloca tra l'orizzonte concreto di una prassi
immediatamente attingibile e quello utopico di un domani post-rivoluzionario: 1a due concezioni, sia pur
contigue, tendono per lo più a non intersecarsi. Il dibattito, che negli ultimi tre anni si è sviluppato
intorno alle
Fiere dell'autogestione tenutesi ad Alessandria e a Padova, rispettivamente nel settembre del '94 e del '95, e alla
prossima Fiera che si terrà a Pietrasanta il settembre prossimo, in parte riflette lo iato testè
segnalato ma in parte
preconizza la possibilità di un suo superamento. Pensare una pratica autogestionaria capace di
un'effettualità
radicale ed immediata implica l'andar oltre sia all'idea che l'autogestione sia realizzabile solo in assenza di un
dominio politico ed economico sia all'opposta ma simmetrica concezione che pensa l'agire autogestionario come
verifica sperimentale di possibili orizzonti futuri. In realtà, come dimostrano molte iniziative
autogestionarie in
corso l'autogestione si configura come scelta che mira a coniugare tensione utopica ed effettualità e pensa
quindi
il proprio agire nell'ottica della trasformazione sociale. E' pertanto evidente che la posta in gioco nel dibattito
sull'autogestione va ben oltre la mera disamina di possibilità e limiti di singole esperienze ma investe il
senso
stesso del processo di trasformazione sociale. Ad aspirare ad un assetto sociale improntato a libertà ed
uguaglianza
non implica solo una critica dell'esistente ma anche la concreta prefigurazione di un'alternativa possibile. Al dar
vita ad esperienze che nei più diversi campi tentano di lavorare, educare, curare, vivere secondo principi
libertari
non può essere né un asettico esperimento da laboratorio sociale né un privilegio di cui
godranno lo generazioni
future, ma uno dei non secondari elementi di un progetto rivoluzionario. indubbiamente l'agire da libertari in un
contesto gerarchico e competitivo, piegato alla logica del profitto non è così facile, specie se non
sl superano la
frammentazione e l'isolamento che non di rado sono il segno distintivo dl tante esperienze. La strada è
lunga ed
irta d'ostacoli, non ultimo il rischio del ripiegamento su se stessi sui bisogno di tirare a campare che talora spinge
ad una sostanziale accettazione delle regole di un gioco che non si è in grado di cambiare. La svolta
produttivistica
e manageriale o, per converso, l'involuzione mistica che hanno caratterizzato alcuni dei percorsi dell'ecologismo
più radicale degli anni '80 nel nostro paese ne sono una chiara dimostrazione. L'esperienza
apparentemente più radicale degli squatter, ossia di quella parte del movimento italiano delle
occupazioni che si caratterizza per il rifiuto di qualsiasi «normalizzante» accordo con le amministrazioni locali,
non pare discostarsi significativamente da quella, più moderata, dei centri sociali. Se si considera inoltre
che la
straordinaria duttilità del capitale gli permette di trasformare in merce vendibile con buoni profitti anche
il
desiderio di un ambiente più sano o l'ambizione ad esprimersi attraverso moduli esistenziali dirompenti,
il quadro
che ci si delinea innanzi non sembra essere dei più incoraggianti. Pare che nulla, assolutamente nulla
possa evitare
di essere trasformato in merce: per ogni punk che si infile un anello sul sopracciglio, troverete almeno un paio
di ditte specializzate in grado di fornire una vasta gamma di modelli per tutte le esigenze. Il sostanziale
fallimento dell'esperienza dei centri sociali così come delle esperienze di vita e produzione degli
ecologisti parrebbe alludere all'impossibilità di dar corpo ad utopie concrete, progetti di negazione
radicale
dell'esistente il cui campo privilegiato d'intervento sia la costruzione sin da ora di un altro modello di relazioni
sociali, un modello non gerarchico e non mercantile. In realtà entrambi, sia gli ecologisti radicali sia gli
occupanti
di un centro sociale non hanno in alcun modo perseguito un progetto autogestionario radicale, ossia un progetto
che sapesse coniugare la concretezza delle proprie realizzazioni con un'inesausta tensione al rovesciamento
dell'ordine esistente. Gli uni e gli altri non sono riusciti a oltrepassare i limiti angusti della propria area
d'intervento, che per gli uni
era il riferimento privilegiato alla questione ambientale, per gli altri la necessità di soddisfare esigenze
di
convivialità. Questi movimenti così come quelli pacifisti e femministi sono sorti dalla critica di
un modello di
intervento politico che da un lato si caratterizzava per una precipua attenzione allo scontro di classe nei luoghi
di lavoro, dall'altro era attraversato da una forte spinta antisistemica globale. Tale modello si era rivelato del
tutto ineffettuale sia per la netta deriva socialdemocratica con la conseguente
rinunzia ad ogni velleità rivoluzionaria, che il movimento operaio ha assunto nel nostro paese sia per
l'incapacità
di affrontare efficacemente esigenze di trasformazione dell'esistenza quotidiana, delle modalità
relazionali, della
qualità della vita che i nuovi movimenti ponevano con forza Gli «alternativi» hanno avuto l'indubbio
merito di
evidenziare i limiti di un approccio che pretendeva di subordinare al conflitto di classe ogni altra esigenza: dal
bisogno di porre un freno alla distruzione ambientale a quello di lottare contro il patriarcato, dalla
necessità di
affermare stili di vita libertari a quella di sperimentare nuove modalità relazionali, artistiche
educative. Con il che certo non si intende negare l'importanza dei conflitti di classe ma semplicemente
sottolineare che un
approccio libertario deve necessariamente, affrontare il dominio nelle sue diverse manifestazioni e non solo in
uno, per quanto importante, dei suoi aspetti. D'altro canto se i movimenti alternativi hanno avuto la felice
intuizione di mostrare che lo spazio dell'autonomia,
dell'autogestione può e deve essere tracciato già oggi e non solo nell'orizzonte immediatamente
inattingibile della
società futura tuttavia sono stati incapaci di evitare 1a caduta nel particolarismo, che prelude alla rinuncia
ad ogni
slancio progettuale più complessivo. Il pericolo di «recupero» delle attività autogestite, che da
taluni è indicato
come esito inelibinabile di qualunque impresa si sviluppi all'interno di una società statalista e capitalista,
può
essere superato solo se la scelta autogestionaria non si limita a creare nicchie di sopravvivenza per piccoli nuclei
d'individui ma riesce a farsi proposta capace di pervadere il corpo sociale. In Italia il vivace dibattito intorno al
cosiddetto «terzo settore» pare confermare le tesi sulla neo socialdemocrazia di Bihr, il quale ritiene che lo
sviluppo di un settore autogestionario che si occupi dl «lavori socialmente utili» e che dipenda dalle istituzioni
locali consente a costi ridotti di coprire il vuoto determinato dalla eliminazione o riduzione di sevizi pubblici. I
vantaggi che deriverebbero al capitale dall'affermarsi su vasta scala di una simile prospettiva sono del tutto
indubbi: la garanzia di efficaci ammortizzatori sociali che non solo hanno costi bassi ma permettono di ingabbiare
gruppi di individui 1a cui vivacità politica e culturale sarebbe altrimenti disponibile sul piano del conflitto
sociale.
Il nodo che quindi occorre oggi tentare di sciogliere sta nella capacità di dar vita a movimenti, che pur
nel
riferimento specifico a questa o quella questione, siano capaci di sviluppare sinergie tali da creare il nucleo
costitutivo di una reale controsocietà. Attività realmente autogestite e non più o meno
consapevolmente asservite
ad un progetto neosocialdemocratico devono quindi intendere «i compromessi che possono darsi con le istituzioni
capitalistiche (mercato o stato che sia) come necessità temporanee, imposte dai rapporti di forza del
momento e
in nessun caso come orizzonte insuperabile»(Alain Bihr; «Dall'assalto al cielo all'alternativa»
edizioni BFS, Pisa
1995). La prassi autogestionaria si propone di ricostruire e rafforzare la capacità autoistituente del corpo
sociale,
delegittimando in tal modo: potere politico ed il capitalismo. Occorre tuttavia che l'autogestione non si fermi
all'ambito strettamente economico ma divenga il terreno fertile in cui aprire uno spazio pubblico non statale che
sia elemento catalizzatore di modi di vivere, produrre, educare i figli capaci di operare una trasformazione
culturale di vasta portata. Ma non solo. La politica, svincolata da ogni dimensione istituzionale deve divenire il
luogo in cui una comunità si costituisce come tale, avocando a sé la facoltà decisionale.
Questa prassi che taluni
chiamano comunalista ed altri dl autogoverno extraistituzionale è l'humus in cui affonda le radici un
movimento
che sa coniugare l'effettualità nel qui ad ora con il progetto di radicale trasformazione della
società. La
frammentazione o la specializzazione che spesso contraddistinguono il movimento autogestionario si può
stemperare all'interno di una sfera pubblica non istituzionale, uno spazio di partecipazione diretta dei cittadini
alla vita associata che di fatto privi di ruolo e legittimità l'armamentario politico ed ideologico della
democrazia.
Tra i due modi di concepire l'autogestione che ho segnalato in apertura se ne viene delineando un terzo, che non
demanda a domani l'edificazione della società futura non perché ritenga di poter prescindere dalla
necessità di
un rivoluzionamento dei rapporti politici e sociali ma perché sa che nessun reale processo rivoluzionario
può dorsi
se non nella concreta realizzazione di un'alternativa possibile. Il che, è ovvio, non ci fornisce garanzie
di sorta
nè per il presente nè per il futuro ma semplicemente tenta di alludere ad una modalità del
cambiamento sociale
che abbia da un lato chiara consapevolezza etica del bisogno di una congruenza tra mezzi e fini e nel contempo
netta percezione che la frattura rivoluzionaria non può che essere evento quotidiano, perché
è in costante ed
irresoluto conflitto con la quotidianità di un'esistenza sotto tutela.
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