Rivista Anarchica Online
Stato sociale: no grazie
Vorrei rispondere all'iracondo comunista «rifondato» Gianni Melillo che su A rivista anarchica numero 221 ha accusato
noi anarchici di non far nulla per difendere lo stato sociale. Come prima cosa, bisogna farla finita una volta per tutte con
quell'ingiustificato complesso di inferiorità che tanti anarchici ancora provano verso l'ideologia e il movimento
comunista.
Quello tra anarchici e comunisti è stato storicamente, senza eccezioni, un rapporto tra massacrati e massacratori,
tra epurati
e ed epuratori. I comunisti alla Melillo non hanno alcun titolo per dar lezioni a chicchessia, né a noi, né
ad altri, perché le
loro idee hanno partorito regimi tra i più efferati della storia, dove il massimo della miseria si è coniugata
col minimo di
libertà. L'anarchismo, rifiutando ogni forma di stato, non può che essere avverso anche al cosiddetto «stato
sociale», che
altro poi non è se non un gigantesco imbroglio con cui alcune classi parassitarie altolocate (politici e politicanti
con annesse
clientele, burocrati, grossi industriali protetti dallo stato, e altri ceti intellettuali) estorcono con la forza ricchezze a coloro
che le producono (operai, lavoratori dipendenti del settore privato, artigiani, piccoli imprenditori, e così via). Non
conoscevo prima d'ora la dottrina anarco-capitalista, ma mi sembra che la sua idea centrale (quella, se ho ben capito,
secondo cui nessuna autorità può schiavizzare l'individuo, costringendolo a disporre, in favore di altri, del
proprio tempo
e della propria fatica) sia molto vicina a quella che dovrebbe essere l'ispirazione autentica dell'anarchismo. Pur essendo
all'oscuro delle teorizzazioni di questi libertari americani, non avevo mai dubitato della natura essenzialmente criminale
di tutte quelle strutture statali e parastatali (INPS, USL, IRI, e così via) che compongono lo «stato sociale». Se
c'è una
categoria che viene quotidianamente depredata dallo stato, con il pretesto della socialità, è proprio quella
operaia. Lo sa
Gianni Melillo che, tra imposte dirette , indirette, tasse e contributi, la nomenklatura preleva dalla busta paga di un operaio
quasi il 60% del suo salario? Un lavoratore dipendente che guadagna, ad esempio, unmilionecinquecentomila netto al mese
versa alla burocrazia che gestisce lo «stato sociale», sempre ogni mese, novecentomila all'INPS, centocinquantamila
all'INAIL, più di duecentomila al servizio sanitario nazionale, e circa trecentomila lire di IRPEF (per non parlare
delle
imposte indirette sui generi di consumo, sulla benzina, sulle sigarette, e così via). Mi piacerebbe fare una
scommessa con
Melillo: lasciamo ogni lavoratore libero di decidere se continuare a finanziare lo «stato sociale», o se amministrarsi da solo
i propri guadagni, rinunciando ai servizi offerti dal settore pubblico. Io sono convinto, e pronto a giocarmi tutto, che il 95%
di loro fuggirebbe a gambe levate, ma con lo stipendio raddoppiato, dal-l'INPS, dalle USL, dalle scuole pubbliche e da ogni
altra costrizione statale. I contributi sociali sono obbligatori e non volontari proprio perché, altrimenti, migliaia
di inutili
politici, burocrati, sindacalisti e approfittatori vari vedrebbero svanire la fonte delle loro entrate e del loro potere
clientelare. Con le cifre iperboliche che ogni mese un operaio paga all'INPS, qualsiasi investitore privato potrebbe offrirgli,
al termine della vita lavorativa, un vitalizio di duecento o trecentomilioni superiore alla pensione da fame pubblica. Provi
Melillo a fare due conti! Gli artefici e i sostenitori del racket pensionistico di stato, invece di lamentarsi, dovrebbero
piuttosto risarcire ogni lavoratore italiano del danno subito, e garantire col proprio patrimonio il pagamento delle pensioni
future. Questi non sono gli unici esempi dell'accanimento dello «stato sociale» nei confronti dei poveri: basti pensare alla
famiglia operaia costretta a pagare imposte per finanziare gli studi universitari del notaio o del chirurgo; oppure i teatri e
le manifestazioni culturali frequentate dalle classi più elevate, e così via. Dovrebbe dunque essere evidente
che l'adorazione
e la divinizzazione dello stato, con cui i comunisti si sono ideologicamente intossicati, è quanto di più
lontano vi possa
essere dall'idea anarchica, che è idea di libertà, anche di poter godere per intero (e non solo al 40%) dei
frutti del proprio
lavoro.
Mario Bertelli (Ferrara)
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