Rivista Anarchica Online
«Avrei preferenza di no»
di Filippo Trasatti
Un vecchio e purtroppo dimenticato libro di Ronald D. Laing
(pubblicato nel 1967, dunque un'eternità fa, visto
tutto ciò che nel frattempo è successo) aveva come titolo La politica
dell'esperienza, un titolo in qualche modo
profetico e che riassumeva bene come talvolta accade il sentire di un movimento, di un'epoca,
o soltanto di una
generazione. C'era un tono ispirato, poetico, mistico che si può non
condividere, ma la questione che poneva uno
dei padri dell'antipsichiatria era radicale: la base fondamentale, esistenziale su cui si
costruiscono i nostri rapporti
con gli altri, con il mondo e con la natura è l'esperienza.
Quotidianamente viviamo in uno stato «normale» di
alienazione dalla nostra esperienza: viviamo, sentiamo, vediamo come gli altri, la Famiglia,
la Scuola, la Società
dell'Informazione ci fanno vedere. Pur di sfuggire alla condizione terribile e angosciante della
solitudine, siamo
disposti a con-formarci all'altrui esperienza, a lasciarci plasmare dagli altri fino a non
riconoscere più noi stessi.
E tutto questo lo chiamiamo normalità. Questa normalità della distruzione
dell'esperienza non è senza
conseguenze: se la nostra esperienza è distrutta, il nostro comportamento
sarà distruttivo. Ed ecco l'affondo critico
impietoso di Laing: «La società fa gran conto del suo uomo normale: educa i
fanciulli a smarrire se stessi e a
divenire assurdi e ad essere così normali. Gli uomini normali hanno assassinato 100
milioni circa di loro simili
uomini normali negli ultimi cinquant'anni». Probabilmente in questo pur breve assaggio molti di voi riconosceranno
cose pensate, risentiranno echi di motivi
simili (per citare un solo ma fondamentale esempio: Paul Goodman), sentiranno insomma
una qualche più o meno
profonda consonanza con queste tematiche. Ma è questo il punto: per quanto molti di
noi sentano che l'esperienza
nella nostra vita quotidiana sia la serratura
delle porte del cambiamento, siamo poi portati a svalutarla, presi da
impegni più urgenti, sprofondati nella routine, inchiodati alla responsabilità
di problemi più gravi, timorosi di
chiuderci nel privato e quant'altro viene in mente su questo leitmotiv. A tutti quelli che
vogliono concedersi un
intervallo per tornare a riflettere sulla centralità dell'esperienza nella vita, consiglio la
lettura del libro di Paolo
Jedlowski, Il sapere dell'esperienza, Il Saggiatore, Milano 1995. Il livello della
riflessione è notevole, ma svolta
in modo piano, quasi prendendo per mano il lettore e portandolo a toccare la
complessità e la centralità del
problema dell'esperienza nel nostro mondo. L'atteggiamento con cui ci si accosta al problema
è quello della
fenomenologia: si cerca di mettere da parte il già-noto, il senso comune, le categorie
già disponibili e si ritorna
all'esperienza, come diceva Husserl "alle cose stesse". In questo modo di procedere il
ricercatore è costantemente
in primo piano non tanto narcisisticamente come colui che sa e che cita, ma come una
persona che è implicata
dal discorso, che racconta un'esperienza di avvicinamento progressivo a un problema
complesso e sfuggevole.
In questo senso il saggio è esemplare di un modo completamente diverso di
accostarsi alla cultura, anche alta, a concetti astratti e difficili, a problematiche addirittura epocali, con un
tono dimesso e volutamente cauto e
dubbioso, dove si sente lo studio senza sentirne il peso. Un esempio assai raro oggi e,
com'è ovvio, il libro resterà
ai più sconosciuto. Eccoci dunque qui a dirne qualcosa. Perché la questione
dell'esperienza è centrale proprio
oggi? Perché, come diceva Benjamin profeticamente all'inizio del secolo, la nostra
capacità di fare esperienza va
gradualmente scomparendo. La possibilità di fare esperienza era tradizionalmente
legata alla possibilità di
accumulare vissuti e interpretarli entro un quadro concettuale e sociale che mutava molto
lentamente e consentiva
di fare da contenitore più ampio e di sedimentare le proprie esperienze in un
confronto con il collettivo. Il
tramonto dell'esperienza tradizionale è legato proprio alla scomparsa delle condizioni
che la rendevano possibile:
una realtà sociale stabile nel tempo e un mondo comune di senso per i soggetti. Tratti
essenziali della modernità,
ma su questo ci sarebbe da discutere a lungo, sono proprio l'accelerazione e il pluralismo
relativizzante. In parole
più semplici, nella modernità viviamo una situazione di perpetuo mutamento
che non ci dà tempo e possibilità
di sedimentare le nostre esperienze e di connetterle in un quadro di riferimenti stabile,
culturale e sociale.
Abbandonato il punto di vista unico della Tradizione religiosa, (come si dice "il punto di
vista di Dio"), viviamo
in un mondo plurale dove è demandato all'individuo la scelta della propria strada,
dove più culture e tradizioni
convivono, come direbbe Weber un mondo di valori in lotta tra loro. Se questo è
vero, ed è il risultato in buona
parte della modernizzazione capitalistica, ne segue una trasformazione antropologica con cui
normalmente non
facciamo i conti. Infatti continuiamo a pensare come se vivessimo nell'"ancien
régime" con quadri sociali di lunga
durata e tempi ciclici agrari. Continuiamo a vivere o meglio a lasciarci vivere come se nulla
intorno a noi
cambiasse. Ora è proprio questa condizione di sradicamento creata dal fatto che
ciò che ci circonda corre molto
più velocemente di quanto noi potremmo mai fare a far sì che venga meno il
modo tradizionale di fare esperienza.
L'esperienza ha bisogno di continuità, di riflessione e di elaborazione, di
sedimentazione, di scambio tra noi e gli
altri, di racconti che la inquadrino in una sequenza sensata (e forse in ciò si trova una
spia per capire qualcosa di
più dell'immenso bisogno di storie della società contemporanea). E tutto
questo richiede un tempo, delle pause
che non abbiamo più. Viviamo nell'horror pieni forse per paura
dell'horror vacui, nella società dell'intervallo
perduto. Certo possiamo sempre recuperare queste pause, ma allora si fa più forte la
sensazione di estraneità con
ciò che ci circonda, più forte la sensazione di essere sradicati dal contesto.
Difficile è accettare la condizione dei
senza contesto, di sradicamento permanente, che abbisogna di una forte capacità di
reggere le emozioni che stiamo
progressivamente perdendo. Nella condizione di alienati dall'esperienza, di sradicati che
vogliono comunque
rimanere attaccati al treno in corsa, dobbiamo anche diventare capaci di sentire di meno, di
anestetizzarci.
Insomma la condizione di atrofia dell'esperienza è strettamente legata a quella del
disimpegno emotivo. Viviamo
choc quotidiani e mutamenti tali che avrebbero sconvolto anche solo i nostri nonni, per non
parlare di un uomo
del secolo scorso, e abbiamo imparato a rimanere relativamente indifferenti. È una
difesa messa in atto per
impedirci ogni volta di sentire le carni che si lacerano quando venivamo sradicati di nuovo.
In questo mondo
nuovo in costante mutamento le cose, onnipresenti, hanno assunto il compito che prima era
degli altri (diciamo
della "comunità"), di darci la consistenza che altrimenti non troviamo. Le cose, le
merci, nella nostra società e
nella nostra vita rappresentano realmente la nostra reificazione: nella critica tradizionale del
consumismo c'è una
vena moralistica che va superata. Si tratta di descrivere la condizione di uomini donne e
bambini che vivono in
un mondo in cui le uniche certezze, stabili
fin che durano (e come si sa durano poco) sono le merci, gli oggetti
luccicanti e solidi di cui ci circondiamo. Anche l'esperienza è profondamente segnata
da questo mutamento:
reificata, ridotta in pillole, mercificata, diviene "quel qualcosa di nuovo, che abbiamo vissuto
in un determinato
istante". Su questo ci vorrebbe un discorso a parte, ma la cosiddetta "informazione" in un
certo senso non è altro
che l'illusione di vivere mediatamente le esperienze altrui, di non essere qui e ora, di essere
sempre altrove e
vedere e possedere il mondo intero. Lo zapping e il blob sono effettivamente una buona
illustrazione del nostro
modo di fare esperienza oggi. E la nostra esistenza diventa una collana di perle finte, con
esperienze collezionate
e preconfezionate, con un filo che si rompe sempre e che dobbiamo sempre di nuovo
ricercare. "La sfida che la
contemporaneità pone a ciascuno è quella di come affrontare il mutamento
costante, il prestissimo dei tempi
moderni-o postmoderni-e la peculiare sensazione di smarrimento o di estraneità a noi
stessi e al mondo che
sembra caratterizzarci" (145). La via che l'autore propone non ha ovviamente niente di
conclusivo, ma richiama
a pensare prima di tutto la nostra vita quotidiana in modo diverso, ridando centralità
al senso dell'esperienza.
Riconoscendo l'alienazione della nostra esperienza quotidiana, recuperando le pause perdute,
l'elemento critico-negativo della soggettività, i vissuti soggettivi, il radicamento nel
corpo proprio. E parlando di questi temi l'autore
non può non riferirsi all'elaborazione femminista che ne ha fatto il centro della
pratica delle donne da tanto tempo,
pratica e riflessione che hanno qualcosa da insegnarci al di là delle forzature
ideologiche, per un modo diverso
di vivere e convivere. Non si tratta di ri-appropriarci di un percorso altrui, ma di imparare a
camminare con le
proprie gambe dopo una lunga atrofia dell'esperienza, imparare a fare di nuovo esperienza a
partire dalla propria
soggettività, partendo dalla condizione di coloro che, minoranze o maggioranze,
donne, bambini, omosessuali,
vivono in una condizione di soggezione, e dal loro essere soggetti traggono la forza per dire
no. Arrivando al
singolo, all'unico si potrebbe dire, e qui è veramente toccante l'immagine di Bartleby
di Melville evocata
dall'autore, che incomprensibile al mondo si limita a comunicare agli altri: "I would prefer
not to" (nella incisiva
traduzione di Gianni Celati: "Avrei preferenza di no").
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