Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 25 nr. 218
maggio 1995


Rivista Anarchica Online

«Avrei preferenza di no»
di Filippo Trasatti

Un vecchio e purtroppo dimenticato libro di Ronald D. Laing (pubblicato nel 1967, dunque un'eternità fa, visto tutto ciò che nel frattempo è successo) aveva come titolo La politica dell'esperienza, un titolo in qualche modo profetico e che riassumeva bene come talvolta accade il sentire di un movimento, di un'epoca, o soltanto di una generazione. C'era un tono ispirato, poetico, mistico che si può non condividere, ma la questione che poneva uno dei padri dell'antipsichiatria era radicale: la base fondamentale, esistenziale su cui si costruiscono i nostri rapporti con gli altri, con il mondo e con la natura è l'esperienza. Quotidianamente viviamo in uno stato «normale» di alienazione dalla nostra esperienza: viviamo, sentiamo, vediamo come gli altri, la Famiglia, la Scuola, la Società dell'Informazione ci fanno vedere. Pur di sfuggire alla condizione terribile e angosciante della solitudine, siamo disposti a con-formarci all'altrui esperienza, a lasciarci plasmare dagli altri fino a non riconoscere più noi stessi. E tutto questo lo chiamiamo normalità. Questa normalità della distruzione dell'esperienza non è senza conseguenze: se la nostra esperienza è distrutta, il nostro comportamento sarà distruttivo. Ed ecco l'affondo critico impietoso di Laing: «La società fa gran conto del suo uomo normale: educa i fanciulli a smarrire se stessi e a divenire assurdi e ad essere così normali. Gli uomini normali hanno assassinato 100 milioni circa di loro simili uomini normali negli ultimi cinquant'anni».
Probabilmente in questo pur breve assaggio molti di voi riconosceranno cose pensate, risentiranno echi di motivi simili (per citare un solo ma fondamentale esempio: Paul Goodman), sentiranno insomma una qualche più o meno profonda consonanza con queste tematiche. Ma è questo il punto: per quanto molti di noi sentano che l'esperienza nella nostra vita quotidiana sia la serratura delle porte del cambiamento, siamo poi portati a svalutarla, presi da impegni più urgenti, sprofondati nella routine, inchiodati alla responsabilità di problemi più gravi, timorosi di chiuderci nel privato e quant'altro viene in mente su questo leitmotiv. A tutti quelli che vogliono concedersi un intervallo per tornare a riflettere sulla centralità dell'esperienza nella vita, consiglio la lettura del libro di Paolo Jedlowski, Il sapere dell'esperienza, Il Saggiatore, Milano 1995. Il livello della riflessione è notevole, ma svolta in modo piano, quasi prendendo per mano il lettore e portandolo a toccare la complessità e la centralità del problema dell'esperienza nel nostro mondo. L'atteggiamento con cui ci si accosta al problema è quello della fenomenologia: si cerca di mettere da parte il già-noto, il senso comune, le categorie già disponibili e si ritorna all'esperienza, come diceva Husserl "alle cose stesse". In questo modo di procedere il ricercatore è costantemente in primo piano non tanto narcisisticamente come colui che sa e che cita, ma come una persona che è implicata dal discorso, che racconta un'esperienza di avvicinamento progressivo a un problema complesso e sfuggevole. In questo senso il saggio è esemplare di un modo completamente diverso di accostarsi alla cultura, anche alta, a
concetti astratti e difficili, a problematiche addirittura epocali, con un tono dimesso e volutamente cauto e dubbioso, dove si sente lo studio senza sentirne il peso. Un esempio assai raro oggi e, com'è ovvio, il libro resterà ai più sconosciuto. Eccoci dunque qui a dirne qualcosa. Perché la questione dell'esperienza è centrale proprio oggi? Perché, come diceva Benjamin profeticamente all'inizio del secolo, la nostra capacità di fare esperienza va gradualmente scomparendo. La possibilità di fare esperienza era tradizionalmente legata alla possibilità di accumulare vissuti e interpretarli entro un quadro concettuale e sociale che mutava molto lentamente e consentiva di fare da contenitore più ampio e di sedimentare le proprie esperienze in un confronto con il collettivo. Il tramonto dell'esperienza tradizionale è legato proprio alla scomparsa delle condizioni che la rendevano possibile: una realtà sociale stabile nel tempo e un mondo comune di senso per i soggetti. Tratti essenziali della modernità, ma su questo ci sarebbe da discutere a lungo, sono proprio l'accelerazione e il pluralismo relativizzante. In parole più semplici, nella modernità viviamo una situazione di perpetuo mutamento che non ci dà tempo e possibilità di sedimentare le nostre esperienze e di connetterle in un quadro di riferimenti stabile, culturale e sociale. Abbandonato il punto di vista unico della Tradizione religiosa, (come si dice "il punto di vista di Dio"), viviamo in un mondo plurale dove è demandato all'individuo la scelta della propria strada, dove più culture e tradizioni convivono, come direbbe Weber un mondo di valori in lotta tra loro. Se questo è vero, ed è il risultato in buona parte della modernizzazione capitalistica, ne segue una trasformazione antropologica con cui normalmente non facciamo i conti. Infatti continuiamo a pensare come se vivessimo nell'"ancien régime" con quadri sociali di lunga durata e tempi ciclici agrari. Continuiamo a vivere o meglio a lasciarci vivere come se nulla intorno a noi cambiasse. Ora è proprio questa condizione di sradicamento creata dal fatto che ciò che ci circonda corre molto più velocemente di quanto noi potremmo mai fare a far sì che venga meno il modo tradizionale di fare esperienza. L'esperienza ha bisogno di continuità, di riflessione e di elaborazione, di sedimentazione, di scambio tra noi e gli altri, di racconti che la inquadrino in una sequenza sensata (e forse in ciò si trova una spia per capire qualcosa di più dell'immenso bisogno di storie della società contemporanea). E tutto questo richiede un tempo, delle pause che non abbiamo più. Viviamo nell'horror pieni forse per paura dell'horror vacui, nella società dell'intervallo perduto. Certo possiamo sempre recuperare queste pause, ma allora si fa più forte la sensazione di estraneità con ciò che ci circonda, più forte la sensazione di essere sradicati dal contesto. Difficile è accettare la condizione dei senza contesto, di sradicamento permanente, che abbisogna di una forte capacità di reggere le emozioni che stiamo progressivamente perdendo. Nella condizione di alienati dall'esperienza, di sradicati che vogliono comunque rimanere attaccati al treno in corsa, dobbiamo anche diventare capaci di sentire di meno, di anestetizzarci. Insomma la condizione di atrofia dell'esperienza è strettamente legata a quella del disimpegno emotivo. Viviamo choc quotidiani e mutamenti tali che avrebbero sconvolto anche solo i nostri nonni, per non parlare di un uomo del secolo scorso, e abbiamo imparato a rimanere relativamente indifferenti. È una difesa messa in atto per impedirci ogni volta di sentire le carni che si lacerano quando venivamo sradicati di nuovo. In questo mondo nuovo in costante mutamento le cose, onnipresenti, hanno assunto il compito che prima era degli altri (diciamo della "comunità"), di darci la consistenza che altrimenti non troviamo. Le cose, le merci, nella nostra società e nella nostra vita rappresentano realmente la nostra reificazione: nella critica tradizionale del consumismo c'è una vena moralistica che va superata. Si tratta di descrivere la condizione di uomini donne e bambini che vivono in un mondo in cui le uniche certezze, stabili fin che durano (e come si sa durano poco) sono le merci, gli oggetti luccicanti e solidi di cui ci circondiamo. Anche l'esperienza è profondamente segnata da questo mutamento: reificata, ridotta in pillole, mercificata, diviene "quel qualcosa di nuovo, che abbiamo vissuto in un determinato istante". Su questo ci vorrebbe un discorso a parte, ma la cosiddetta "informazione" in un certo senso non è altro che l'illusione di vivere mediatamente le esperienze altrui, di non essere qui e ora, di essere sempre altrove e vedere e possedere il mondo intero. Lo zapping e il blob sono effettivamente una buona illustrazione del nostro modo di fare esperienza oggi. E la nostra esistenza diventa una collana di perle finte, con esperienze collezionate e preconfezionate, con un filo che si rompe sempre e che dobbiamo sempre di nuovo ricercare. "La sfida che la contemporaneità pone a ciascuno è quella di come affrontare il mutamento costante, il prestissimo dei tempi moderni-o postmoderni-e la peculiare sensazione di smarrimento o di estraneità a noi stessi e al mondo che sembra caratterizzarci" (145). La via che l'autore propone non ha ovviamente niente di conclusivo, ma richiama a pensare prima di tutto la nostra vita quotidiana in modo diverso, ridando centralità al senso dell'esperienza. Riconoscendo l'alienazione della nostra esperienza quotidiana, recuperando le pause perdute, l'elemento critico-negativo della soggettività, i vissuti soggettivi, il radicamento nel corpo proprio. E parlando di questi temi l'autore non può non riferirsi all'elaborazione femminista che ne ha fatto il centro della pratica delle donne da tanto tempo, pratica e riflessione che hanno qualcosa da insegnarci al di là delle forzature ideologiche, per un modo diverso di vivere e convivere. Non si tratta di ri-appropriarci di un percorso altrui, ma di imparare a camminare con le proprie gambe dopo una lunga atrofia dell'esperienza, imparare a fare di nuovo esperienza a partire dalla propria soggettività, partendo dalla condizione di coloro che, minoranze o maggioranze, donne, bambini, omosessuali, vivono in una condizione di soggezione, e dal loro essere soggetti traggono la forza per dire no. Arrivando al singolo, all'unico si potrebbe dire, e qui è veramente toccante l'immagine di Bartleby di Melville evocata dall'autore, che incomprensibile al mondo si limita a comunicare agli altri: "I would prefer not to" (nella incisiva traduzione di Gianni Celati: "Avrei preferenza di no").