Rivista Anarchica Online
Capitalismo, mercato e anarchia
di Pietro Adamo
Al saggio in difesa dell'anarco-capitalismo pubblicato nelle pagine precedenti, Pietro Adamo
replica mettendo
in luce le ambiguità di quel pensiero. A partire dall'assurda pretesa di conciliare il
capitalismo - cioè una
forma di dominio - con l'anarchismo che del dominio è la negazione
Nel 1969, durante il raduno della YAF (Young American for
Freedom), l'organizzazione giovanile del partito
repubblicano, non pochi astanti rimasero probabilmente sbalorditi di fronte alla totale
polarizzazione della
convenzione: da un lato i fiancheggiatori della contro cultura, contrari all'impegno bellico in
Vietnam,
favorevoli alla liberalizzazione del consumo delle «droghe» (o delle sostanze ritenute tali) e
allarmati dal peso
crescente dell'«intrusione» governativa nelle vite dei cittadini, dall'altro gli esponenti della
nuova destra, legati
alla maggioranza silenziosa prosaicamente borghese, sensibili alle influenze del
fondamentalismo religioso,
vicini al maccartismo. I primi - definiti a volte il «gruppo anarchico» della YAF - gridavano
«si fotta la leva»,
i secondi replicavano con «ammazzate i comunisti». Il risultato fu la spaccatura
nell'organizzazione. Negli
anni successivi i giovani repubblicani «libertari» avrebbero fondato riviste, organizzato
movimenti e scritto
libri, costruendo una visione politico-economica complessa, a cui è stato spesso
conferito il titolo di «anarco-capitalismo». Nel 1971 fu fondato il Libertarian Party, che alle
elezioni presidenziali del 1976 divenne
addirittura il terzo partito. I testi probabilmente più significativi dal punto di vista
teorico sono stati pubblicati
nei primi anni settanta, da Jerome Tuccille (Radical Libertarianism: a Right-Wing
Alternative, 1970), Linda e
Morris Tannehill (The Market for Liberty, 1970, 1972), Murray Rothbard
(For a new Liberty, 1973), David
Friedman (The Machinery of Freedom, 1973), cui bisogna aggiungere i
contributi di molti altri, tra cui Karl
Hess, Leonard Liggio, Roy Childs e soprattutto Robert Nozick (Anarchy, State and
Utopia, 1971), il cui testo
divenne un'importante fonte d'ispirazione per il movimento. In Italia gli anarco-capitalisti
comparvero nel
1977, con i tre numeri di CLAUSTROFOBIA (diretto da Riccardo La Conca). Oggi nel
movimento - e nei
suoi dintorni ultraliberali e antistatisti - si muovono intellettuali dalla matrice più
diversa: per esempio, tra
quelli conosciuti anche nel nostro paese, Paul Johnson, James Buchanan e Thomas Szasz.
Libertari di destra? I punti di
riferimento degli anarco-capitalisti sono estremamente compositi. Per molti versi essi si
propongono
come i legittimi eredi della tradizione liberal-radicale che, nelle sue molteplici sfaccettature,
attraversa l'intero
spettro del pensiero americano: da Thomas Paine a Thomas Jefferson, da Henry David
Thoreau a Walt Whitman,
da Albert Jay Nock a H.L. Mencken. In questa prospettiva rientrano anche gli
anarco-individualisti, in particolare
Lysander Spooner e Benjamin Tucker (e non, pace Piombini, Josiah Warren,
estraneo al quadro intellettuale della
«destra libertaria»). Inoltre, alcuni si rifanno al cosiddetto «obbiettivismo», la «filosofia» di
Ayn Rand, uno
strepitoso miscuglio di esaltazione superomistica, disprezzo per i valori comunitari e
solidaristici e progetti di
«minimizzazione» dello stato, nella convinzione della suprema funzione regolatrice e
creatrice del capitalismo.
Altra ispirazione significativa è quella proveniente dagli scritti della scuola
economico-filosofica austriaca (von
Hayek, von Mises, Schumpeter, eccetera), della quale Murray Rothbard - per certi versi il
maggior esponente dell'anarco-capitalismo - si considera allievo, e alla quale viene spesso
accostata - per assonanze politico-intellettuali
- la scuola di Chicago di Milton Friedman, altro economista-filosofo liberale
ultrà. Concordo pienamente con la conclusione di Guglielmo
Piombini: qualche robusta iniezione di anarco-individualismo non farà che bene al
libertarismo italiano, a volte platealmente ricompreso entro orizzonti e
prospettive più tipici della tradizione comunista che della sua. Inoltre, mi piace
immaginare la società
anarchica del futuro negli stessi termini usati dal nostro amico anarco-capitalista: una
«struttura di fondo» che
permetta la coesistenza degli esperimenti economici - e intellettuali, sociali, ecc. - più
diversi, in modo da
valorizzare al massimo opzioni e scelte individuali. Come scrisse John Milton -
ahimè, ripreso persino da
Milton Friedman - freedom is choice: la libertà consiste nella scelta. E
tuttavia, non credo affatto che si possa
trovare un'adeguata descrizione/prescrizione di questa struttura di fondo negli scritti dei
teorici del Libertarian
Party e nei loro affiliati, anche se non pochi sono i suggerimenti in questo senso forniti da
Rothbard e
compagni. Le analisi degli anarco-capitalisti sono fondate sull'accettazione di un ethos in cui
le categorie di
autorità e dominio sono ancora fortemente presenti: in molti casi la logica libertaria
dei loro scritti si sviluppa
lungo le linee di un banale, semplicistico e limitato antistatalismo. Mi pare che lo stesso
scritto di Piombini ne
metta in evidenza le caratteristiche concettuali e culturali meno convincenti: una teoria del
dominio limitata,
una definizione astratta - quasi astorica - del potere regolatore del capitalismo, una frettolosa
equiparazione
tra società di mercato e capitalismo reale. Inoltre, mi pare che Piombini - anche in
questo riflettendo le
opinioni di non pochi maitres a pensée statunitensi - pensi alla
tradizione anarchica nei termini di un'epocale
confronto tra istanze individualiste e istanze collettiviste e ritenga che queste ultime siano
prevalenti: ma, per
esempio, potrei assicurargli che tra i collaboratori di «A - rivista anarchica» - parlo di
persone che conosco -
non pochi rifiuterebbero di essere in qualsiasi modo identificati non solo con opzioni
collettiviste, ma persino
con opzioni socialiste. Condivido pienamente le critiche di Piombini e dei suoi eroi a ogni
collettivismo
coartato. Devo però ricordargli che idee di questo genere sono rare nell'anarchismo.
E' peraltro mia opinione
che il collettivismo, in qualsiasi sua forma - coartata o meno - sia incompatibile con i principi
fondanti
dell'anarchia: per dirla con Camillo Berneri, la società anarchica non può
essere «la società dell'armonia
assoluta, ma la società della tolleranza», della differenza, della pluralità. E'
vero che in molti settori
dell'anarchismo italiano contemporaneo la «tentazione socialista» è ancora
formidabile: ma non pochi di
questi social-libertari intendono la loro scelta come strategia contingente, dettata dalle
concrete circostanze
storiche piuttosto che da motivazioni teoriche di fondo. E' anche vero che altri continuano a
dirsi anarco-comunisti nel solco kropotkiniano: ammetto anche che ogni tanto - ma solo ogni
tanto - alcune loro pagine o
alcuni loro brani mi provocano brividi alla schiena. Quando gli anarco-capitalisti si
occupano delle tendenze generali della società moderna alla soppressione
dell'individualità, al controllo mentale e materiale dei singoli, all'esproprio di alcuni
diritti fondamentali da
parte delle diverse istituzioni statali, parastatali, democratiche, liberali, ecc., i loro argomenti
e le loro pagine
non differiscono da quelle degli altri espositori anarchici del tema: l' «afflato libertario» - ha
ragione Piombini
- è lo stesso. Anche all'interno del Libertarian Party che è appunto un partito
e quindi partecipa alla elezioni -
l'atteggiamento da tenere nei confronti dello stato è stato più volte dibattuto.
Alcuni adottano strategie tipiche
del movimento anarchico - realisti almeno quanto il re - rifiutandosi di votare; altri insistono
sulla teoria dello
«stato minimo», richiamandosi ad Ayn Rand o magari a Robert Nozick, per il quale lo
«stato» si configura in
sostanza come una libera associazione tra libere associazioni. La retorica degli
anarco-capitalisti è
violentemente antistatista: ciò che li distingue dai loro «compagni» di altre
impostazioni è quindi il giudizio
sul capitalismo.
Capitalismo ideale, reale o immaginario
Anche in questo caso si registrano differenti
interpretazioni: vi è grande distanza tra l'esaltazione del bigbusiness
di Ayn Rand - che ritiene i grandi imprenditori, insieme agli artisti, l'espressione
più compiuta
della creatività individuale - e i sospetti verso il grande capitale corporato che
animano gli scritti di David
Friedman o dei due Tannehill. Questa frattura ha una storia emblematica e a mio parere
fondamentale per
comprendere la genesi e la struttura del pensiero anarco-capitalista. La peculiare esperienza
degli Stati Uniti
ha forgiato un immaginario fondato sui valori della differenza individuale come contributo
alla crescita
collettiva: in questo senso deve intendersi l'enfasi sulla proprietà privata, il libero
scambio, la soppressione dei
monopoli, la competizione. Gli stessi anarchici hanno costruito i loro modelli sociali, politici
ed
epistemologici elaborando una specifica nozione di «società aperta» - affine alla
«società della tolleranza» di
Berneri - in termini di suprema garanzia di libertà: «l'equa competizione ha il potere
di regolare
infallibilmente tutto», scrisse Josiah Warren, «il mero capitalista diverrà il
più debole e il più dipendente degli
uomini quando la moneta scientifica ed equa sarà adottata». In questa ottica il
«capitalismo» viene inteso
come lo strumento che permette la costruzione di una «società di mercato» basata
non solo sulla difesa del
consumatore, ma sulla sostituzione delle funzioni associate allo stato - la protezione degli
individui - e alla
grande impresa - la produzione di merci. La libera iniziativa, con tutti gli annessi e connessi,
si configurava
quindi come liberazione dei singoli dalle costrizioni dei monopolisti e delle istituzioni: in
questo senso
imprenditori erano gli artigiani indipendenti, i farmers proprietari
delle loro terre, i piccoli oommercianti,
persino i lavoranti a giornata, ecc. Questa concezione della società di mercato in
termini difensivi vantava
peraltro un punto di riferimento storicamente concreto e identificabile. Oggi siamo ben
consapevoli della
rilevanza dello slogan «piccolo è bello», che si ritrova in forme diverse in
più teorizzazioni anarchiche (non
ultima, per esempio, la stessa proposta di democrazia municipale di Bookchin). Per Warren,
Greene,
Andrews, Spooner, Haywood, ecc., questa era la dimensione naturale del pensiero: la piccola
comunità rurale
o urbana, il villaggio del midwest, la cittadina della Nuova Inghilterra, gli esperimenti
comunitari cui
parteciparono Warren e Andrews. Qui - in un ambiente autonomo e indipendente - divenire
imprenditore
significava sottrarre spazio alle grandi istituzioni, si trattasse dello stato o delle
grandi aziende: non per niente
questi anarchici progettavano la sovversione della società esistente soprattutto con
una riforma (dal basso) dei
sistemi creditizi, con l'adozione di strategie mutualistiche sia per l'emissione di denaro sia per
la sua gestione. Questo panorama quasi idilliaco è stato squassato
dall'inarrestabile avanzata del leviatano: la guerra civile
accelerò tutti i processi di accentramento, sia quelli statali che quelli industriali.
Toccò a Benjamin Tucker
affrontare questo nuovo stato di cose ed egli lo fece restando sostanzialmente fedele
all'originale lezione di
Warren: riforma del credito, sistemi mutualistici, costo limite del prezzo. Le
simpatie di Tucker e Spooner per
la «società aperta» - intesa nel senso di una società che valorizzi differenze e
individualità - non giunsero mai
sino all'ammissione della liceità dello sfruttamento industriale. I due giustificarono
sì il lavoro salariato o altre
forme di lavoro dipendente, ma solo a condizione che esse si situassero in una rete di rapporti
economici
(compresi quelli riguardanti il lavoro) basati sul principio dell'equo scambio, e non su quello
del profitto
causato dall'usura e dal monopolio. Nel 1881- anno di fondazione di Liberty -
Tucker prese in esame la
proposta di costringere le grandi aziende a distribuire il sei per cento del profitto ai loro
impiegati, esprimendo
un'opinione inequivocabile:
che chiunque lo desideri si prenda la sua mezza pagnotta. Noi non
cesseremo mai di ripetere che essa spetta
interamente e di diritto a quelli che coltivano il grano, lo macinano trasformandolo in farina e
lo cuociono
rendendolo pane. Nulla spetta ai truffatori che ingannano le masse irriflessive facendosi
concedere il
monopolio delle opportunità di compiere queste operazioni industriali, per poi
riaffittarle indietro alla gente
a condizione che gli sia data metà pagnotta. Ancora più
significativo, per comprendere appieno la valutazione del capitalismo di Tucker (e di
Spooner), è
il suo giudizio sulle «combinazioni industriali» (o trust). Negli anni ottanta dell'Ottocento,
quando il
capitalismo rampante non aveva ancora dispiegato le sue piene potenzialità, il
direttore di Liberty difese in
linea di principio il diritto all'associazione, compresa quella degli industriali, ritenendo che il
mercato - inteso
come area libera da «quelle arbitrarie limitazioni della concorrenza che risiedono nei
monopoli e nei privilegi
creati dalla legge», alludendo alla legislazione sui brevetti e sui diritti d'autore, alla rendita e
all'interesse -
potesse prendersi esso stesso cura dei trust, senza bisogno di incidere sulla fondamentale
libertà
d'associazione. Questo era il modo in cui l'anarchismo, «la dottrina che in tutti i campi debba
esserci la
maggior libertà individuale compatibile con la libertà di tutti», intendeva
proporre la soluzione del problema
(vale a dire con l'usuale strumentazione warreniana): nel 1886 Tucker credeva ancora a un
capitalismo
difensivo, in grado di proteggere gli interessi dei cittadini dallo strapotere dell'alleanza tra lo
stato e i
monopoli. Vent'anni dopo la sua opinione era radicalmente mutata: i monopoli «hanno reso
possibile il
moderno sviluppo del trust e il trust è ormai un mostro che, io temo, neppure la
più totale libertà di
concorrenza, se fosse istituita, varrebbe oggi a distruggere». Tucker giudicò quindi
necessaria - a dispetto dei
suoi presunti allievi odierni - un serie di confische forzate che abolissero le
concentrazioni industriali: la
«soluzione economica proposta dall'anarchismo» sarebbe divenuta nuovamente concepibile
solo dopo «il
grande livellamento».
Dall'anarchismo al libertarismo (di destra)
Le considerazioni di Tucker sono uno
spartiacque epocale per l'anarchismo statunitense, poiché definiscono - per
così dire - la natura del capitalismo reale nella sua essenza «mostruosa». Il sogno dei
libertari americani
dell'Ottocento - un capitalismo difensivo, basato sui principi del libero scambio, della piena
concorrenza, volto
alla costruzione di una società di mercato senza impedimenti, controlli, interventi
legislativi, eccetera - era stato
distrutto: restavano i monopoli, gli slums, l'agenzia Pinkerton, mentre il
paesaggio ideale della sperimentazione
anarchica - la piccola comunità indipendente e autonoma - si avviava all'estinzione.
Ciò incoraggiò da un lato lo
sviluppo dell'anarco-comunismo - a sua volta destinato a dissolversi di fronte al comunismo
reale, come
impararono a loro spese il principe Kropotkin, Alexander Berkman ed Emma Goldman - e
dall'altro il ripiegamento dei libertari verso forme di accettazione del sistema economico
vigente, in un incredibile processo di
autoaccecamento: il capitalismo «mostruoso» venne programmaticamente contrabbandato
per quello «difensivo»
agognato da Tucker e dai suoi predecessori. In questo senso buona parte dei libertari del
primo Novecento accettò
una teoria del dominio palesemente monca: la critica dell'esistente si ridusse a un violento
antagonismo con lo
stato, mentre altre relazioni altrettanto coercitive e autoritarie - per esempio quelle imposte ai
singoli dal
funzionamento stesso dei trust «mostruosi» e dalla loro influenza nella determinazione dei
modelli di vita e dei
rapporti politici, con la programmatica limitazione dell'individualità - non erano
prese in considerazione. Si veda
il seguente elogio della «società aperta» di Albert Jay Nock (uno dei trait
d'union tra il libertarismo post-tuckeriano e gli anarco-capitalisti):
Un individuo non è costretto a lavorare per la Standard Oil a
meno che non desideri farlo. La sua accettazione
delle regole della compagnia è frutto di un libero contratto. Egli non è
coartato: se vuole può andarsene.
Salario, orario e condizioni di lavoro sono fissate in base al suo consenso: se non gli
aggradano, è libero di
rifiutarle. Sotto questo sistema l'individuo è considerato l'unità del valore
ultimo. La logica di questa posizione
è che la società nella sua interezza ha più da guadagnare dall'azione
e dall'iniziativa aggregata di gruppi che
perseguono scopi diversi in libera associazione e con i mezzi che liberamente a loro
sembrano migliori,
piuttosto che dagli sforzi di gruppi che perseguono fini definiti sotto coartazione.
Due elementi balzano agli occhi. In primo luogo, Nock costruisce il suo argomento
contrapponendo la «società
aperta» a quella comunista, delineando una strategia in seguito divenuta usuale (presente, mi
pare, anche nello
scritto di Piombini). In secondo luogo, il ragionamento presuppone che il capitalismo di cui si
sta discutendo, sia
quello «difensivo» delineato da Tucker e dai libertari. Ciò è evidente nella
palese finzione che l'individuo in
questione possa rifiutare l'impiego della Standard Oil scegliendo un lavoro di diverso tipo in
una vasta gamma
di possibilità: in tempi di sostanziale monopolio delle grandi aziende sul lavoro tout
court (Nock scriveva
all'epoca della seconda guerra mondiale), questa libertà di scelta si riduceva
praticamente a zero, tranne qualche
rara eccezione. Nel quadro concettuale elaborato da Warren e dai suoi allievi - Spooner e
Tucker compresi - un
individuo insoddisfatto delle condizioni avanzate dalla Standard Oil avrebbe potuto rivolgersi
ad altra
organizzazione, poiché il regime di libera concorrenza e di assenza di monopolio
avrebbe assicurato varietà
nell'offerta, oppure - ipotesi preferita dagli anarchici dell'Ottocento - avrebbe potuto
diventare egli stesso
imprenditore, approfittando di strumenti creditizi e bancari pensati appositamente per
incoraggiare imprese del
genere. Friedrich von Hayek - altro «libertario», secondo molti - ha conferito maggiore
chiarezza concettuale al
ragionamento di Nock, svelandone con più compiutezza i presupposti e le
implicazioni:
Che una persona sia libera o meno non dipende dalla gamma delle
scelte, bensì dal fatto che essa può
aspettarsi di modellare la sua condotta di base a quanto si prefigge, oppure dal fatto che
qualcun altro ha il
potere di manipolare le condizioni in modo da costringerla ad agire secondo la
volontà altrui e non secondo
la propria. La libertà, pertanto, presuppone che l'individuo abbia una sua sicura sfera
privata e che l'ambiente
attorno a lui sia tale da non permettere a nessuno di interferire. Il concetto
chiave è l'ammissione che la libertà non ha nulla a che fare con la «gamma
delle scelte» - una
concezione esattamente agli antipodi degli intendimenti degli anarchici americani del secolo
scorso. La condotta
individuale sarebbe quindi del tutto libera, ma in relazione a circostanze date, che dipendono
dalle forze
impersonali della storia, dalle necessità scientifiche dell'economia, dai bisogni
definiti secondo una «razionalità
basata sul rapporto mezzi e fini da perseguire in un contesto che assegni all'uomo bisogni
illimitati di fronte alla
limitatezza dei beni» (come ha di recente scritto un antieconomista anarchico). Forze,
necessità e bisogni
determinano quindi un contesto e una «gamma di scelte»: l'inevitabilità storica del
capitalismo si configura infine
come la restrizione - ovviamente «razionale» - delle opzioni disponibili. E' all'interno di
questo campo
«necessario» che deve dispiegarsi la libertà dell'uomo. Quest'ultima sarà
assicurata, secondo von Hayek, in primo
luogo con la sanzione dell'esistenza delle «sfere private», in cui non è permesso
l'accesso ad alcun potere «manipolatore», e in secondo dal disciplinamento dell'accesso alla
«gamma di scelte». In questo secondo frangente
lo stato ha una sua utilità: a esso viene infatti conferito in esclusiva «il potere della
coercizione». Si tratta
naturalmente di un potere limitato e basato su norme conosciute da tutti: e quindi «quasi mai l'individuo sarà
sottoposto alla coercizione se non si è messo da sé in una situazione in cui sa
che la dovrà subire». Anzi, «gli atti
coercitivi dello stato assumono addirittura il carattere di dati sui quali l'individuo può
basarsi nei suoi progetti».
Applichiamo i principi di von Hayek alla considerazione di Nock: chi ritiene le condizioni
richieste dalla Standard
Oil ingiuste e sfruttatrici, in quanto fondate su presupposti «monopolisti» e «usurai», non
farà saltare in aria lo
stabilimento, perché consapevole che questo suo «progetto» lo sottoporrebbe agli
«atti coercitivi dello stato».
Inoltre - e questo mi sembra più rilevante nella nostra discussione - egli non
diverrà concorrente della Standard
Oil, perché gli strumenti di cui potrebbe servirsi - e di cui, secondo gli anarchici
americani, avrebbe diritto di
servirsi (libero accesso al credito, uso di procedimenti brevettati, ecc.) - sono al di fuori della
«gamma di scelte»
razionalmente e oggettivamente identificabile. Come è evidente, gli argomenti di Nock e quelli di von Hayek convergono
nell'accettazione del capitalismo - nella
sua versione «mostruosa» - quale cornice concettuale in cui inserire ogni discussione relativa
alla libertà, allo
difesa dell'individualità, allo sviluppo della personalità. Nel contempo questo
stesso capitalismo è dipinto in stile
Ayn Rand, attribuendogli cioè le virtù dell'imprenditoria ottocentesca che
tanto piacevano anche agli anarchici
statunitensi: creatività, spontaneità e individualità si contrappongono
così al monopolio, all'«usura», all'intervento
dello stato, al dirigismo delle grandi burocrazie. Come tutti sappiamo, la realtà del
capitalismo corporativo, delle
multinazionali, della globalizzazione economica, dell'accorpamento tra grande impresa e stati
nazionali, disegna
una prospettiva del tutto diversa. E' questa contraddizione che ritroviamo al cuore
dell'anarco-capitalismo:
l'apologia della società di mercato - in tutte le sue specifiche componenti, ben
descritte da Piombini - viene
proposta in un quadro che non prescinde dalle «mostruosità» del capitalismo reale.
E' vero che le accuse rivolte
a Rothbard e «compagni» di occuparsi solo delle libertà del capitalismo sono
«ingenerose»: è altrettanto vero che
l'affermazione del «diritto inalienabile e fondamentale di ciascuno alla protezione da ogni
aggressione esterna»
costituisce il perno di una teoria del dominio che si infrange rumorosamente sulle mura dei
palazzi delle
corporations e degli zaibatsu. Le dottrine degli anarco-capitalisti
ruotano intorno all'idea della proliferazione di
libere associazioni economiche e di libere agenzie di protezione e arbitrato in un regime di
piena concorrenza e
assenza di monopolio. Il soggetto di questo «mercato», come rileva lo stesso Piombini,
è l'homo oeconomicus:
il «paradigma scientifico» è quindi quello della produzione e del consumo. E'
in quest'ottica che viene accettato
l'ethos del capitalismo «mostruoso»: nella prospettiva di Rothbard e compagni
nulla vieta che all'interno delle
cosiddette «libere associazioni» si riproducano - ma ora «liberamente», senza l'intervento
dello stato e in assenza
di «aggressioni esterne» - quegli stessi rapporti di autorità e gerarchia - se preferite,
di dominio - che regolano a
tutt'oggi il funzionamento del capitalismo reale. Il «mercato» è inteso come un fine
in sé: esso produrrà
«naturalmente» l'abbattimento di tutte le catene della sopraffazione e dell'ingiustizia prodotte
artificialmente dallo
stato e dai monopoli. Agli occhi di Warren, Spooner e Tucker il «mercato» era invece lo
strumento che permetteva
l'affermazione di una società fondata sui principi dell'individualità e
dell'autorealizzazione. Il direttore di Liberty
scoprì infine che il successo del capitalismo «mostruoso» poteva pervertire la
logica del mercato sino a farla
divergere da quella della libertà: questa consapevolezza è ben poco presente
negli scritti degli anarco-capitalisti,
disposti a far rientrare nei loro schemi quelle stesse manifestazioni «aberranti» del
capitalismo condannate senza
equivoci da Tucker.
Stato, azienda e dominio
Queste mie riflessioni si limitano a suggerire una
possibile chiave di lettura e non pretendono di essere una
disamina complessiva delle implicazioni e della progettualità dell'anarco-capitalismo.
Posso però constatare che
la contraddizione vive, in modo diverso, negli stessi scritti dei maggiori esponenti della
tendenza. David Friedman
ha accoratamente esaminato l'ipotesi che la libera associazione delle imprese possa prendere
l'aspetto delle
«corporations gigantesche e gerarchiche quali ora esistono». «Io spero di no,
non mi sembra un modo attraente
di vivere», ha commentato, esprimendo tuttavia l'opinione che «in una società libera»
chi lo volesse «sarebbe
libero di associarsi in tal modo». Friedman non si pone un classico problema di filosofia
politica: sino a che punto
tollerare gli intolleranti? La logica delle grandi corporations «gigantesche e
gerarchiche quali ora esistono» è
antitetica ai valori della società di mercato: la presenza della Mitsubishi o della
General Motors non limiterebbe
forse in modo pressoché automatico la «gamma di scelte» presenti sul mercato
stesso? La competizione
perderebbe molto presto il suo carattere «equo» (per dirla alla maniera di Josiah Warren).
Ancora più emblematico mi
sembra l'atteggiamento di Murray Rothbard. Quest'ultimo ha dimostrato - con un
celebre saggio - in che senso la «monetaromania» di Spooner e Tucker era «inconsistente».
L'incipit dello
scritto è rivelatorio: il fondatore del Libertarian Party si dichiara un erede dei due
anarchici, precisando che la
sua «divergenza» dalle loro teorie «non è di natura politica, ma economica», non
è «etica», ma «scientifica».
Dopo di che, individua i motivi degli errori dei due nell'«incapacità di comprendere
la natura del denaro e
dell'interesse»! Sarebbe come dichiararsi allievo di Locke e ritenere irragionevole la
separazione tra stato e
chiesa, oppure confessarsi pienamente marxisti e giudicare priva di fondamento la teoria del
plusvalore.
Rothbard spezza il legame tra la teoria del dominio elaborata da Spooner e Tucker e la loro
feroce critica delle
istituzioni statuali, rendendo possibile adottare la seconda senza accettare le analisi e le
proposte che
scaturiscono dalla prima. Senza entrare nel merito della «scientificità» della loro
dottrina monetaria, è
innegabile che nella costruzione complessiva dei due essa abbia la funzione di allargare la
«gamma di scelte»
disponibile e di assicurare, nel contempo, la possibilità di accedere liberamente al
mercato ai singoli
individui: senza di essa non vi sarebbe garanzia alcuna che le potenzialità libertarie
di questo stesso mercato
si manifestino pienamente. Senza di essa ai monopoli sorretti dallo stato e dal diritto vigente
si sostituirebbero
i monopoli del capitale e del potere tradizionale, riproducendo ancora e in altra forma le
catene del dominio.
Ma forse questa è un'ipotesi che al fondatore del Libertarian Party non dispiace del
tutto. Lascio il commento
finale a Bob Black, anarchico di tendenza grouchista, teorico dell'abolizione del lavoro e
profondo
conoscitore dell'anarco-capitalismo e del «libertarismo» di destra (nel passo il termine
«libertario» è usato in
senso tecnico, in riferimento agli adepti del Libertarian Party):
Il mio bersaglio è ciò che la maggior parte dei libertari
hanno in comune, sia tra loro sia con i loro
dichiarati nemici. I libertari servono lo stato al meglio proprio perché declamano
contro di esso. In
sostanza essi vogliono quello che esso vuole. Ma non potete volere ciò che vuole lo
stato senza volere lo
stato, perché quello che quest'ultimo ricerca sono le condizioni in cui si sviluppa. Il
mio (non amichevole)
approccio alla società moderna consiste nel considerarla una totalità
integrata. Le stupide teorie dottrinarie
che considerano lo stato un'escrescenza parassitica della società non possono
spiegare la sua persistenza
nei secoli, la sua continua usurpazione di ciò che una volta era terreno di mercato e la
sua accettazione da
parte della stragrande maggioranza della gente, comprese le sue dimostrabili vittime. Una
teoria molto più
plausibile è che lo stato e - come minimo - questa forma di società abbiano
una simbiotica (e sordida)
interdipendenza, che lo stato e istituzioni come il mercato e la famiglia nucleare siano, in
molte maniere,
modi di gerarchia e controllo. La loro articolazione non è sempre armoniosa [ ... ] ma
essi condividono un
interesse comune nel consegnare i loro conflitti alla risoluzione delle élite o degli
esperti. Demonizzare
l'autoritarismo dello stato ignorando nel contempo identiche soluzioni servili - per quanto
consacrate da
contratti nelle grandi corporations che controllano l'economia mondiale -
è feticismo al suo peggio. E
tuttavia, tanto per citare il più rumoroso dei libertari radicali, il professor Murray
Rothbard, non c'è nulla
di illibertario «nell'organizzazione, nella gerarchia, nel lavoro salariato, nella concessione di
fondi da parte
di milionari libertari e in un libertarian party». Ma davvero! Questo è il motivo
perché il libertarismo è
solo conservatorismo con una riverniciatura razionalista/positivista.
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