Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 25 nr. 218
maggio 1995


Rivista Anarchica Online

Capitalismo, mercato e anarchia
di Pietro Adamo

Al saggio in difesa dell'anarco-capitalismo pubblicato nelle pagine precedenti, Pietro Adamo replica mettendo in luce le ambiguità di quel pensiero. A partire dall'assurda pretesa di conciliare il capitalismo - cioè una forma di dominio - con l'anarchismo che del dominio è la negazione

Nel 1969, durante il raduno della YAF (Young American for Freedom), l'organizzazione giovanile del partito repubblicano, non pochi astanti rimasero probabilmente sbalorditi di fronte alla totale polarizzazione della convenzione: da un lato i fiancheggiatori della contro cultura, contrari all'impegno bellico in Vietnam, favorevoli alla liberalizzazione del consumo delle «droghe» (o delle sostanze ritenute tali) e allarmati dal peso crescente dell'«intrusione» governativa nelle vite dei cittadini, dall'altro gli esponenti della nuova destra, legati alla maggioranza silenziosa prosaicamente borghese, sensibili alle influenze del fondamentalismo religioso, vicini al maccartismo. I primi - definiti a volte il «gruppo anarchico» della YAF - gridavano «si fotta la leva», i secondi replicavano con «ammazzate i comunisti». Il risultato fu la spaccatura nell'organizzazione. Negli anni successivi i giovani repubblicani «libertari» avrebbero fondato riviste, organizzato movimenti e scritto libri, costruendo una visione politico-economica complessa, a cui è stato spesso conferito il titolo di «anarco-capitalismo». Nel 1971 fu fondato il Libertarian Party, che alle elezioni presidenziali del 1976 divenne addirittura il terzo partito. I testi probabilmente più significativi dal punto di vista teorico sono stati pubblicati nei primi anni settanta, da Jerome Tuccille (Radical Libertarianism: a Right-Wing Alternative, 1970), Linda e Morris Tannehill (The Market for Liberty, 1970, 1972), Murray Rothbard (For a new Liberty, 1973), David Friedman (The Machinery of Freedom, 1973), cui bisogna aggiungere i contributi di molti altri, tra cui Karl Hess, Leonard Liggio, Roy Childs e soprattutto Robert Nozick (Anarchy, State and Utopia, 1971), il cui testo divenne un'importante fonte d'ispirazione per il movimento. In Italia gli anarco-capitalisti comparvero nel 1977, con i tre numeri di CLAUSTROFOBIA (diretto da Riccardo La Conca). Oggi nel movimento - e nei suoi dintorni ultraliberali e antistatisti - si muovono intellettuali dalla matrice più diversa: per esempio, tra quelli conosciuti anche nel nostro paese, Paul Johnson, James Buchanan e Thomas Szasz.

Libertari di destra?
I punti di riferimento degli anarco-capitalisti sono estremamente compositi. Per molti versi essi si propongono come i legittimi eredi della tradizione liberal-radicale che, nelle sue molteplici sfaccettature, attraversa l'intero spettro del pensiero americano: da Thomas Paine a Thomas Jefferson, da Henry David Thoreau a Walt Whitman, da Albert Jay Nock a H.L. Mencken. In questa prospettiva rientrano anche gli anarco-individualisti, in particolare Lysander Spooner e Benjamin Tucker (e non, pace Piombini, Josiah Warren, estraneo al quadro intellettuale della «destra libertaria»). Inoltre, alcuni si rifanno al cosiddetto «obbiettivismo», la «filosofia» di Ayn Rand, uno strepitoso miscuglio di esaltazione superomistica, disprezzo per i valori comunitari e solidaristici e progetti di «minimizzazione» dello stato, nella convinzione della suprema funzione regolatrice e creatrice del capitalismo. Altra ispirazione significativa è quella proveniente dagli scritti della scuola economico-filosofica austriaca (von Hayek, von Mises, Schumpeter, eccetera), della quale Murray Rothbard - per certi versi il maggior esponente dell'anarco-capitalismo - si considera allievo, e alla quale viene spesso accostata - per assonanze politico-intellettuali - la scuola di Chicago di Milton Friedman, altro economista-filosofo liberale ultrà.
Concordo pienamente con la conclusione di Guglielmo Piombini: qualche robusta iniezione di anarco-individualismo non farà che bene al libertarismo italiano, a volte platealmente ricompreso entro orizzonti e prospettive più tipici della tradizione comunista che della sua. Inoltre, mi piace immaginare la società anarchica del futuro negli stessi termini usati dal nostro amico anarco-capitalista: una «struttura di fondo» che permetta la coesistenza degli esperimenti economici - e intellettuali, sociali, ecc. - più diversi, in modo da valorizzare al massimo opzioni e scelte individuali. Come scrisse John Milton - ahimè, ripreso persino da Milton Friedman - freedom is choice: la libertà consiste nella scelta. E tuttavia, non credo affatto che si possa trovare un'adeguata descrizione/prescrizione di questa struttura di fondo negli scritti dei teorici del Libertarian Party e nei loro affiliati, anche se non pochi sono i suggerimenti in questo senso forniti da Rothbard e compagni. Le analisi degli anarco-capitalisti sono fondate sull'accettazione di un ethos in cui le categorie di autorità e dominio sono ancora fortemente presenti: in molti casi la logica libertaria dei loro scritti si sviluppa lungo le linee di un banale, semplicistico e limitato antistatalismo. Mi pare che lo stesso scritto di Piombini ne metta in evidenza le caratteristiche concettuali e culturali meno convincenti: una teoria del dominio limitata, una definizione astratta - quasi astorica - del potere regolatore del capitalismo, una frettolosa equiparazione tra società di mercato e capitalismo reale. Inoltre, mi pare che Piombini - anche in questo riflettendo le opinioni di non pochi maitres a pensée statunitensi - pensi alla tradizione anarchica nei termini di un'epocale confronto tra istanze individualiste e istanze collettiviste e ritenga che queste ultime siano prevalenti: ma, per esempio, potrei assicurargli che tra i collaboratori di «A - rivista anarchica» - parlo di persone che conosco - non pochi rifiuterebbero di essere in qualsiasi modo identificati non solo con opzioni collettiviste, ma persino con opzioni socialiste. Condivido pienamente le critiche di Piombini e dei suoi eroi a ogni collettivismo coartato. Devo però ricordargli che idee di questo genere sono rare nell'anarchismo. E' peraltro mia opinione che il collettivismo, in qualsiasi sua forma - coartata o meno - sia incompatibile con i principi fondanti dell'anarchia: per dirla con Camillo Berneri, la società anarchica non può essere «la società dell'armonia assoluta, ma la società della tolleranza», della differenza, della pluralità. E' vero che in molti settori dell'anarchismo italiano contemporaneo la «tentazione socialista» è ancora formidabile: ma non pochi di questi social-libertari intendono la loro scelta come strategia contingente, dettata dalle concrete circostanze storiche piuttosto che da motivazioni teoriche di fondo. E' anche vero che altri continuano a dirsi anarco-comunisti nel solco kropotkiniano: ammetto anche che ogni tanto - ma solo ogni tanto - alcune loro pagine o alcuni loro brani mi provocano brividi alla schiena.
Quando gli anarco-capitalisti si occupano delle tendenze generali della società moderna alla soppressione dell'individualità, al controllo mentale e materiale dei singoli, all'esproprio di alcuni diritti fondamentali da parte delle diverse istituzioni statali, parastatali, democratiche, liberali, ecc., i loro argomenti e le loro pagine non differiscono da quelle degli altri espositori anarchici del tema: l' «afflato libertario» - ha ragione Piombini - è lo stesso. Anche all'interno del Libertarian Party che è appunto un partito e quindi partecipa alla elezioni - l'atteggiamento da tenere nei confronti dello stato è stato più volte dibattuto. Alcuni adottano strategie tipiche del movimento anarchico - realisti almeno quanto il re - rifiutandosi di votare; altri insistono sulla teoria dello «stato minimo», richiamandosi ad Ayn Rand o magari a Robert Nozick, per il quale lo «stato» si configura in sostanza come una libera associazione tra libere associazioni. La retorica degli anarco-capitalisti è violentemente antistatista: ciò che li distingue dai loro «compagni» di altre impostazioni è quindi il giudizio sul capitalismo.

Capitalismo ideale, reale o immaginario
Anche in questo caso si registrano differenti interpretazioni: vi è grande distanza tra l'esaltazione
del bigbusiness di Ayn Rand - che ritiene i grandi imprenditori, insieme agli artisti, l'espressione più compiuta della creatività individuale - e i sospetti verso il grande capitale corporato che animano gli scritti di David Friedman o dei due Tannehill. Questa frattura ha una storia emblematica e a mio parere fondamentale per comprendere la genesi e la struttura del pensiero anarco-capitalista. La peculiare esperienza degli Stati Uniti ha forgiato un immaginario fondato sui valori della differenza individuale come contributo alla crescita collettiva: in questo senso deve intendersi l'enfasi sulla proprietà privata, il libero scambio, la soppressione dei monopoli, la competizione. Gli stessi anarchici hanno costruito i loro modelli sociali, politici ed epistemologici elaborando una specifica nozione di «società aperta» - affine alla «società della tolleranza» di Berneri - in termini di suprema garanzia di libertà: «l'equa competizione ha il potere di regolare infallibilmente tutto», scrisse Josiah Warren, «il mero capitalista diverrà il più debole e il più dipendente degli uomini quando la moneta scientifica ed equa sarà adottata». In questa ottica il «capitalismo» viene inteso come lo strumento che permette la costruzione di una «società di mercato» basata non solo sulla difesa del consumatore, ma sulla sostituzione delle funzioni associate allo stato - la protezione degli individui - e alla grande impresa - la produzione di merci. La libera iniziativa, con tutti gli annessi e connessi, si configurava quindi come liberazione dei singoli dalle costrizioni dei monopolisti e delle istituzioni: in questo senso imprenditori erano gli artigiani indipendenti, i farmers proprietari delle loro terre, i piccoli oommercianti, persino i lavoranti a giornata, ecc. Questa concezione della società di mercato in termini difensivi vantava peraltro un punto di riferimento storicamente concreto e identificabile. Oggi siamo ben consapevoli della rilevanza dello slogan «piccolo è bello», che si ritrova in forme diverse in più teorizzazioni anarchiche (non ultima, per esempio, la stessa proposta di democrazia municipale di Bookchin). Per Warren, Greene, Andrews, Spooner, Haywood, ecc., questa era la dimensione naturale del pensiero: la piccola comunità rurale o urbana, il villaggio del midwest, la cittadina della Nuova Inghilterra, gli esperimenti comunitari cui parteciparono Warren e Andrews. Qui - in un ambiente autonomo e indipendente - divenire imprenditore significava sottrarre spazio alle grandi istituzioni, si trattasse dello stato o delle grandi aziende: non per niente questi anarchici progettavano la sovversione della società esistente soprattutto con una riforma (dal basso) dei sistemi creditizi, con l'adozione di strategie mutualistiche sia per l'emissione di denaro sia per la sua gestione.
Questo panorama quasi idilliaco è stato squassato dall'inarrestabile avanzata del leviatano: la guerra civile accelerò tutti i processi di accentramento, sia quelli statali che quelli industriali. Toccò a Benjamin Tucker affrontare questo nuovo stato di cose ed egli lo fece restando sostanzialmente fedele all'originale lezione di Warren: riforma del credito, sistemi mutualistici, costo limite del prezzo. Le simpatie di Tucker e Spooner per la «società aperta» - intesa nel senso di una società che valorizzi differenze e individualità - non giunsero mai sino all'ammissione della liceità dello sfruttamento industriale. I due giustificarono sì il lavoro salariato o altre forme di lavoro dipendente, ma solo a condizione che esse si situassero in una rete di rapporti economici (compresi quelli riguardanti il lavoro) basati sul principio dell'equo scambio, e non su quello del profitto causato dall'usura e dal monopolio. Nel 1881- anno di fondazione di Liberty - Tucker prese in esame la proposta di costringere le grandi aziende a distribuire il sei per cento del profitto ai loro impiegati, esprimendo un'opinione inequivocabile:

che chiunque lo desideri si prenda la sua mezza pagnotta. Noi non cesseremo mai di ripetere che essa spetta interamente e di diritto a quelli che coltivano il grano, lo macinano trasformandolo in farina e lo cuociono rendendolo pane. Nulla spetta ai truffatori che ingannano le masse irriflessive facendosi concedere il monopolio delle opportunità di compiere queste operazioni industriali, per poi riaffittarle indietro alla gente a condizione che gli sia data metà pagnotta.


Ancora più significativo, per comprendere appieno la valutazione del capitalismo di Tucker (e di Spooner), è il suo giudizio sulle «combinazioni industriali» (o trust). Negli anni ottanta dell'Ottocento, quando il capitalismo rampante non aveva ancora dispiegato le sue piene potenzialità, il direttore di Liberty difese in linea di principio il diritto all'associazione, compresa quella degli industriali, ritenendo che il mercato - inteso come area libera da «quelle arbitrarie limitazioni della concorrenza che risiedono nei monopoli e nei privilegi creati dalla legge», alludendo alla legislazione sui brevetti e sui diritti d'autore, alla rendita e all'interesse - potesse prendersi esso stesso cura dei trust, senza bisogno di incidere sulla fondamentale libertà d'associazione. Questo era il modo in cui l'anarchismo, «la dottrina che in tutti i campi debba esserci la maggior libertà individuale compatibile con la libertà di tutti», intendeva proporre la soluzione del problema (vale a dire con l'usuale strumentazione warreniana): nel 1886 Tucker credeva ancora a un capitalismo difensivo, in grado di proteggere gli interessi dei cittadini dallo strapotere dell'alleanza tra lo stato e i monopoli. Vent'anni dopo la sua opinione era radicalmente mutata: i monopoli «hanno reso possibile il moderno sviluppo del trust e il trust è ormai un mostro che, io temo, neppure la più totale libertà di concorrenza, se fosse istituita, varrebbe oggi a distruggere». Tucker giudicò quindi necessaria - a dispetto dei suoi presunti allievi odierni - un serie di confische forzate che abolissero le concentrazioni industriali: la «soluzione economica proposta dall'anarchismo» sarebbe divenuta nuovamente concepibile solo dopo «il grande livellamento».

Dall'anarchismo al libertarismo (di destra)
Le considerazioni di Tucker sono uno spartiacque epocale per l'anarchismo statunitense, poiché definiscono - per così dire - la natura del capitalismo reale nella sua essenza «mostruosa». Il sogno dei libertari americani dell'Ottocento - un capitalismo difensivo, basato sui principi del libero scambio, della piena concorrenza, volto alla costruzione di una società di mercato senza impedimenti, controlli, interventi legislativi, eccetera - era stato distrutto: restavano i monopoli, gli slums, l'agenzia Pinkerton, mentre il paesaggio ideale della sperimentazione anarchica - la piccola comunità indipendente e autonoma - si avviava all'estinzione. Ciò incoraggiò da un lato lo sviluppo dell'anarco-comunismo - a sua volta destinato a dissolversi di fronte al comunismo reale, come impararono a loro spese il principe Kropotkin, Alexander Berkman ed Emma Goldman - e dall'altro il ripiegamento dei libertari verso forme di accettazione del sistema economico vigente, in un incredibile processo di autoaccecamento: il capitalismo «mostruoso» venne programmaticamente contrabbandato per quello «difensivo» agognato da Tucker e dai suoi predecessori. In questo senso buona parte dei libertari del primo Novecento accettò una teoria del dominio palesemente monca: la critica dell'esistente si ridusse a un violento antagonismo con lo stato, mentre altre relazioni altrettanto coercitive e autoritarie - per esempio quelle imposte ai singoli dal funzionamento stesso dei trust «mostruosi» e dalla loro influenza nella determinazione dei modelli di vita e dei rapporti politici, con la programmatica limitazione dell'individualità - non erano prese in considerazione. Si veda il seguente elogio della «società aperta» di Albert Jay Nock (uno dei trait d'union tra il libertarismo post-tuckeriano e gli anarco-capitalisti):

Un individuo non è costretto a lavorare per la Standard Oil a meno che non desideri farlo. La sua accettazione delle regole della compagnia è frutto di un libero contratto. Egli non è coartato: se vuole può andarsene. Salario, orario e condizioni di lavoro sono fissate in base al suo consenso: se non gli aggradano, è libero di rifiutarle. Sotto questo sistema l'individuo è considerato l'unità del valore ultimo. La logica di questa posizione è che la società nella sua interezza ha più da guadagnare dall'azione e dall'iniziativa aggregata di gruppi che perseguono scopi diversi in libera associazione e con i mezzi che liberamente a loro sembrano migliori, piuttosto che dagli sforzi di gruppi che perseguono fini definiti sotto coartazione.


Due elementi balzano agli occhi. In primo luogo, Nock costruisce il suo argomento contrapponendo la «società aperta» a quella comunista, delineando una strategia in seguito divenuta usuale (presente, mi pare, anche nello scritto di Piombini). In secondo luogo, il ragionamento presuppone che il capitalismo di cui si sta discutendo, sia quello «difensivo» delineato da Tucker e dai libertari. Ciò è evidente nella palese finzione che l'individuo in questione possa rifiutare l'impiego della Standard Oil scegliendo un lavoro di diverso tipo in una vasta gamma di possibilità: in tempi di sostanziale monopolio delle grandi aziende sul lavoro tout court (Nock scriveva all'epoca della seconda guerra mondiale), questa libertà di scelta si riduceva praticamente a zero, tranne qualche rara eccezione. Nel quadro concettuale elaborato da Warren e dai suoi allievi - Spooner e Tucker compresi - un individuo insoddisfatto delle condizioni avanzate dalla Standard Oil avrebbe potuto rivolgersi ad altra organizzazione, poiché il regime di libera concorrenza e di assenza di monopolio avrebbe assicurato varietà nell'offerta, oppure - ipotesi preferita dagli anarchici dell'Ottocento - avrebbe potuto diventare egli stesso imprenditore, approfittando di strumenti creditizi e bancari pensati appositamente per incoraggiare imprese del genere. Friedrich von Hayek - altro «libertario», secondo molti - ha conferito maggiore chiarezza concettuale al ragionamento di Nock, svelandone con più compiutezza i presupposti e le implicazioni:

Che una persona sia libera o meno non dipende dalla gamma delle scelte, bensì dal fatto che essa può aspettarsi di modellare la sua condotta di base a quanto si prefigge, oppure dal fatto che qualcun altro ha il potere di manipolare le condizioni in modo da costringerla ad agire secondo la volontà altrui e non secondo la propria. La libertà, pertanto, presuppone che l'individuo abbia una sua sicura sfera privata e che l'ambiente attorno a lui sia tale da non permettere a nessuno di interferire.


Il concetto chiave è l'ammissione che la libertà non ha nulla a che fare con la «gamma delle scelte» - una concezione esattamente agli antipodi degli intendimenti degli anarchici americani del secolo scorso. La condotta individuale sarebbe quindi del tutto libera, ma in relazione a circostanze date, che dipendono dalle forze impersonali della storia, dalle necessità scientifiche dell'economia, dai bisogni definiti secondo una «razionalità basata sul rapporto mezzi e fini da perseguire in un contesto che assegni all'uomo bisogni illimitati di fronte alla limitatezza dei beni» (come ha di recente scritto un antieconomista anarchico). Forze, necessità e bisogni determinano quindi un contesto e una «gamma di scelte»: l'inevitabilità storica del capitalismo si configura infine come la restrizione - ovviamente «razionale» - delle opzioni disponibili. E' all'interno di questo campo «necessario» che deve dispiegarsi la libertà dell'uomo. Quest'ultima sarà assicurata, secondo von Hayek, in primo luogo con la sanzione dell'esistenza delle «sfere private», in cui non è permesso l'accesso ad alcun potere «manipolatore», e in secondo dal disciplinamento dell'accesso alla «gamma di scelte». In questo secondo frangente lo stato ha una sua utilità: a esso viene infatti conferito in esclusiva «il potere della coercizione». Si tratta naturalmente di un potere limitato e basato su norme conosciute da tutti: e quindi «quasi mai l'individuo sarà sottoposto alla coercizione se non si è messo da sé in una situazione in cui sa che la dovrà subire». Anzi, «gli atti coercitivi dello stato assumono addirittura il carattere di dati sui quali l'individuo può basarsi nei suoi progetti». Applichiamo i principi di von Hayek alla considerazione di Nock: chi ritiene le condizioni richieste dalla Standard Oil ingiuste e sfruttatrici, in quanto fondate su presupposti «monopolisti» e «usurai», non farà saltare in aria lo stabilimento, perché consapevole che questo suo «progetto» lo sottoporrebbe agli «atti coercitivi dello stato». Inoltre - e questo mi sembra più rilevante nella nostra discussione - egli non diverrà concorrente della Standard Oil, perché gli strumenti di cui potrebbe servirsi - e di cui, secondo gli anarchici americani, avrebbe diritto di servirsi (libero accesso al credito, uso di procedimenti brevettati, ecc.) - sono al di fuori della «gamma di scelte» razionalmente e oggettivamente identificabile.
Come è evidente, gli argomenti di Nock e quelli di von Hayek convergono nell'accettazione del capitalismo - nella sua versione «mostruosa» - quale cornice concettuale in cui inserire ogni discussione relativa alla libertà, allo difesa dell'individualità, allo sviluppo della personalità. Nel contempo questo stesso capitalismo è dipinto in stile Ayn Rand, attribuendogli cioè le virtù dell'imprenditoria ottocentesca che tanto piacevano anche agli anarchici statunitensi: creatività, spontaneità e individualità si contrappongono così al monopolio, all'«usura», all'intervento dello stato, al dirigismo delle grandi burocrazie. Come tutti sappiamo, la realtà del capitalismo corporativo, delle multinazionali, della globalizzazione economica, dell'accorpamento tra grande impresa e stati nazionali, disegna una prospettiva del tutto diversa. E' questa contraddizione che ritroviamo al cuore dell'anarco-capitalismo: l'apologia della società di mercato - in tutte le sue specifiche componenti, ben descritte da Piombini - viene proposta in un quadro che non prescinde dalle «mostruosità» del capitalismo reale. E' vero che le accuse rivolte a Rothbard e «compagni» di occuparsi solo delle libertà del capitalismo sono «ingenerose»: è altrettanto vero che l'affermazione del «diritto inalienabile e fondamentale di ciascuno alla protezione da ogni aggressione esterna» costituisce il perno di una teoria del dominio che si infrange rumorosamente sulle mura dei palazzi delle corporations e degli zaibatsu. Le dottrine degli anarco-capitalisti ruotano intorno all'idea della proliferazione di libere associazioni economiche e di libere agenzie di protezione e arbitrato in un regime di piena concorrenza e assenza di monopolio. Il soggetto di questo «mercato», come rileva lo stesso Piombini, è l'homo oeconomicus: il «paradigma scientifico» è quindi quello della produzione e del consumo. E' in quest'ottica che viene accettato l'ethos del capitalismo «mostruoso»: nella prospettiva di Rothbard e compagni nulla vieta che all'interno delle cosiddette «libere associazioni» si riproducano - ma ora «liberamente», senza l'intervento dello stato e in assenza di «aggressioni esterne» - quegli stessi rapporti di autorità e gerarchia - se preferite, di dominio - che regolano a tutt'oggi il funzionamento del capitalismo reale. Il «mercato» è inteso come un fine in sé: esso produrrà «naturalmente» l'abbattimento di tutte le catene della sopraffazione e dell'ingiustizia prodotte artificialmente dallo stato e dai monopoli. Agli occhi di Warren, Spooner e Tucker il «mercato» era invece lo strumento che permetteva l'affermazione di una società fondata sui principi dell'individualità e dell'autorealizzazione. Il direttore di Liberty scoprì infine che il successo del capitalismo «mostruoso» poteva pervertire la logica del mercato sino a farla divergere da quella della libertà: questa consapevolezza è ben poco presente negli scritti degli anarco-capitalisti, disposti a far rientrare nei loro schemi quelle stesse manifestazioni «aberranti» del capitalismo condannate senza equivoci da Tucker.

Stato, azienda e dominio
Queste mie riflessioni si limitano a suggerire una possibile chiave di lettura e non pretendono di essere una disamina complessiva delle implicazioni e della progettualità dell'anarco-capitalismo. Posso però constatare che la contraddizione vive, in modo diverso, negli stessi scritti dei maggiori esponenti della tendenza. David Friedman ha accoratamente esaminato l'ipotesi che la libera associazione delle imprese possa prendere l'aspetto delle «corporations gigantesche e gerarchiche quali ora esistono». «Io spero di no, non mi sembra un modo attraente di vivere», ha commentato, esprimendo tuttavia l'opinione che «in una società libera» chi lo volesse «sarebbe libero di associarsi in tal modo». Friedman non si pone un classico problema di filosofia politica: sino a che punto tollerare gli intolleranti? La logica delle grandi corporations «gigantesche e gerarchiche quali ora esistono» è antitetica ai valori della società di mercato: la presenza della Mitsubishi o della General Motors non limiterebbe forse in modo pressoché automatico la «gamma di scelte» presenti sul mercato stesso? La competizione perderebbe molto presto il suo carattere «equo» (per dirla alla maniera di Josiah Warren).
Ancora più emblematico mi sembra l'atteggiamento di Murray Rothbard. Quest'ultimo ha dimostrato - con un celebre saggio - in che senso la «monetaromania» di Spooner e Tucker era «inconsistente». L'incipit dello scritto è rivelatorio: il fondatore del Libertarian Party si dichiara un erede dei due anarchici, precisando che la sua «divergenza» dalle loro teorie «non è di natura politica, ma economica», non è «etica», ma «scientifica». Dopo di che, individua i motivi degli errori dei due nell'«incapacità di comprendere la natura del denaro e dell'interesse»! Sarebbe come dichiararsi allievo di Locke e ritenere irragionevole la separazione tra stato e chiesa, oppure confessarsi pienamente marxisti e giudicare priva di fondamento la teoria del plusvalore. Rothbard spezza il legame tra la teoria del dominio elaborata da Spooner e Tucker e la loro feroce critica delle istituzioni statuali, rendendo possibile adottare la seconda senza accettare le analisi e le proposte che scaturiscono dalla prima. Senza entrare nel merito della «scientificità» della loro dottrina monetaria, è innegabile che nella costruzione complessiva dei due essa abbia la funzione di allargare la «gamma di scelte» disponibile e di assicurare, nel contempo, la possibilità di accedere liberamente al mercato ai singoli individui: senza di essa non vi sarebbe garanzia alcuna che le potenzialità libertarie di questo stesso mercato si manifestino pienamente. Senza di essa ai monopoli sorretti dallo stato e dal diritto vigente si sostituirebbero i monopoli del capitale e del potere tradizionale, riproducendo ancora e in altra forma le catene del dominio. Ma forse questa è un'ipotesi che al fondatore del Libertarian Party non dispiace del tutto. Lascio il commento finale a Bob Black, anarchico di tendenza grouchista, teorico dell'abolizione del lavoro e profondo conoscitore dell'anarco-capitalismo e del «libertarismo» di destra (nel passo il termine «libertario» è usato in senso tecnico, in riferimento agli adepti del Libertarian Party):

Il mio bersaglio è ciò che la maggior parte dei libertari hanno in comune, sia tra loro sia con i loro dichiarati nemici. I libertari servono lo stato al meglio proprio perché declamano contro di esso. In sostanza essi vogliono quello che esso vuole. Ma non potete volere ciò che vuole lo stato senza volere lo stato, perché quello che quest'ultimo ricerca sono le condizioni in cui si sviluppa. Il mio (non amichevole) approccio alla società moderna consiste nel considerarla una totalità integrata. Le stupide teorie dottrinarie che considerano lo stato un'escrescenza parassitica della società non possono spiegare la sua persistenza nei secoli, la sua continua usurpazione di ciò che una volta era terreno di mercato e la sua accettazione da parte della stragrande maggioranza della gente, comprese le sue dimostrabili vittime. Una teoria molto più plausibile è che lo stato e - come minimo - questa forma di società abbiano una simbiotica (e sordida) interdipendenza, che lo stato e istituzioni come il mercato e la famiglia nucleare siano, in molte maniere, modi di gerarchia e controllo. La loro articolazione non è sempre armoniosa [ ... ] ma essi condividono un interesse comune nel consegnare i loro conflitti alla risoluzione delle élite o degli esperti. Demonizzare l'autoritarismo dello stato ignorando nel contempo identiche soluzioni servili - per quanto consacrate da contratti nelle grandi corporations che controllano l'economia mondiale - è feticismo al suo peggio. E tuttavia, tanto per citare il più rumoroso dei libertari radicali, il professor Murray Rothbard, non c'è nulla di illibertario «nell'organizzazione, nella gerarchia, nel lavoro salariato, nella concessione di fondi da parte di milionari libertari e in un libertarian party». Ma davvero! Questo è il motivo perché il libertarismo è solo conservatorismo con una riverniciatura razionalista/positivista.