Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 213
novembre 1994


Rivista Anarchica Online

Chi ha paura del dottor Frankenstein?
di Maria Matteo

Finché i preti, indicheranno la maternità quale supremo compimento della vita delle donne, finché i figli saranno un dovere e non una scelta, continueranno ad esservi donne che partoriranno a sessant'anni. Non è la tecnica a determinare le scelte della gente, ma, al contrario, è la cultura dominante di una società che promuove la ricerca di soluzioni tecniche, per scelte che sono del tutto umane.

Una donna di 62 anni riesce, grazie alle tecniche di fecondazione artificiale, a divenire madre ad un'età in cui la maggior parte delle donne sono ormai nonne. Subito si scatena il dibattito tra fautori della maternità a tutti i costi e difensori dell'ordine naturale. Per gli uni la posta in gioco è il diritto della donna ad avere figli, per gli altri la salvaguardia di un'infanzia sicura per la prole. La questione sul tappeto è l'opportunità di fissare delle regole, di stabilire dei limiti, che in questo caso sono limiti d'età: quel che è lecito a quaranta e fors'anche a cinquant'anni non lo è più oltre i sessanta. In realtà il problema che il caso delle mamme-nonne pone in evidenza è di ben più ampia portata ed è improbabile che possa risolversi con un provvedimento legislativo o con un codice di autoregolamentazione. Se una bambina di dodici anni resta incinta nessuno penserebbe mai di obbligarla ad abortire, se un uomo di sessanta, settanta o magari anche ottant'anni concepisce un figlio con una donna molto più giovane, destinata presumibilmente ad una precoce vedovanza, susciterà qualche chiacchiera nel vicinato ma non certo la mobilitazione dei comitati di bioetica. La colpa o, a seconda dei punti di vista, il merito delle mamme-nonne è nel tentativo di infrangere i limiti che la natura ci ha imposto con l'ausilio di tecniche sempiù raffinate.
Naturalmente più di una osservazione potrebbe scaturire in merito ad una cultura che ritiene i figli una sorta di prolungamento, appendice, proprietà o diritto, di chi materialmente li procrea. Una cultura che considera la famiglia nucleare il puntello imprescindibile di ogni assetto societario, finisce inevitabilmente col conferire un'importanza esagerata alla procreazione, per cui ben scarso è l'impatto degli argomenti che ogni buon moralista laico è uso sviluppare in questi casi.

Parabola della modernità
La sovrappopolazione, o il gran numero di orfani, appaiono questioni del tutto astratte di fronte al desiderio di concepire un figlio proprio. Il dato curioso di questa faccenda è l'imbarazzo degli ambienti cattolici, ormai da anni impegnati, sia nella lotta contro le sperimentazioni in campo genetico sia nella difesa e promozione del ruolo procreativo della donna. Nel caso delle mamme-nonne una scienza blasfema infrange le regole stabilite dalla natura per assecondare il «naturale» desiderio delle donne di avere figli.
Da qualunque parte si rivolti la frittata è certo un bell'inghippo. Un inghippo dal quale non è certo facile uscire anche per chi non ha l'abitudine, né l'attitudine, né tanto meno il desiderio di inoltrarsi sui desolanti sentieri della morale cattolica. La quale, per altro, non riesce a discostarsi più di tanto, da riflessioni e proposte provenienti da ambienti del tutto laici, ma nondimeno spaventati dalle conseguenze possibili della manipolazione genetica. La stessa scienza che ha contribuito a relegare nell'ambito della letteratura fantastica grifoni e draghi, unicorni e folletti pare oggi in grado di generare ben altri mostri. Il moderno mito di Frankenstein non cessa di produrre uno straordinario fremito d'orrore. Quell'orrore che nella forte pregnanza semantica dell'horror latino da cui trae origine rimanda ad un sentimento ambiguo ed ambivalente di spavento, stupore e meraviglia. Lo stesso nome, Frankenstein, designa il creatore e la creatura, «l'uomo» costruito in laboratorio e lo scienziato che pretende di sostituirsi a dio. È una vecchia e mai sopita questione: è il sonno della ragione o il sogno della ragione che genera mostri? Le catastrofi sono frutto d'una carenza di razionalità o sono conseguenza dei suoi eccessi? La parabola della modernità, pare tornare sui propri passi, riproponendo i quesiti che l'hanno generata. Naturalmente, sarebbe sin troppo facile, liquidare la faccenda riducendola allo storico contrasto tra l'oscurantismo clericale e religioso e le magnifiche e progressive sorti di un'umanità incamminata sulle vie della ragione.
Un approccio libertario all'etica non può che rimandare all'autonoma produzione di valori di ciascun singolo individuo. Questo è certamente un modo sensato e prudente di affrontare i dilemmi, posti non solo dalle mamme-nonne ma anche dai padri-nonni e dalle mamme-bambine, poiché non affida la decisione sugli stili di vita allo stato, alla chiesa o alla comunità scientifica ma ai singoli, cui unicamente spetta la facoltà e l'onere della scelta. Queste considerazioni non possono tuttavia esimersi dal confronto, che lo sviluppo scientifico, e non solo in campo genetico, inevitabilmente pone.
La storia di questo secolo mostra, sin troppo efficacemente, come alle rapidissime conquiste della scienza e della tecnica, spesso non faccia riscontro una capacità previsionale, sulle conseguenze della loro applicazione su vasta scala. La fusione nucleare, che pareva aver spalancato le porte ad una fonte straordinaria di energia, non solo ha avuto i ben noti terrificanti esiti in campo militare, ma si è rivelata estremamente rischiosa, anche nelle sue applicazioni civili. L'uso indiscriminato di pesticidi e diserbanti in agricoltura, ha indotto la formazione di parassiti sempre più resistenti, ed il rapido impoverimento dei terreni. Mezzi di comunicazione sempre più veloci, hanno sì trasformato il pianeta in un piccolo villaggio, ma hanno altresì prodotto un inquinamento grave e pressoché incontrollabile. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma non farebbero che confermare una tendenza, che la critica ecologica ha sin troppo efficacemente descritto. Ed è proprio al pensiero ecologico che dobbiamo l'assunzione del concetto di limite, all'interno della sfera dell'etica. Le risorse che abbiamo a disposizione sono scarse, l'equilibrio ambientale è un meccanismo delicato, il modello di sviluppo dei paesi industrializzati non è generalizzabile, ed è fonte di grandi sofferenze: occorre quindi porre un limite. Un limite alla distruzione e predazione della terra, un limite allo sviluppo, un limite alla tecnica, un limite ad una razionalità incapace di controllare le variabili da essa dipendenti. Il mondo è come un'auto senza freni che procede a velocità crescente su una strada tutta in discesa: l'approccio ecologico si sforza di indicare la necessità di rallentare e magari fermare, questa corsa insensata. La prefigurazione della catastrofe, è corollario inevitabile all'idea di limite. E' sin troppo evidente come quest'impostazione sia timida, impacciata, del tutto incapace di andare oltre il pur encomiabile compito di suonare l'allarme, di indicare il pericolo. D'altra parte gli ecologisti più radicali finiscono col proporre una visione del mondo manichea, giocata sull'opposizione, tra il disordine della tecnica e l'ordine della natura, che, in ultima analisi, non si discosta più di tanto dal pensiero dei moralisti cattolici. Cambiano i terreni di intervento, ma non il tentativo di fondare norme e modelli esistenziali, sulla salvaguardia di un ordine naturale, assolutamente concepito come dato immutabile, grazia di vita e felicità.

Tracotanza tecnologica
Un ordine naturale che va strenuamente difeso dagli attacchi dei novelli Frankenstein dell'ingegneria genetica, che minacciano di usurpare le ultime prerogative di un dio, già da tempo costretto al ruolo, meramente rappresentativo, di monarca costituzionale. Qualcuno potrebbe, non a torto, storcere il naso, per quest'indelicato accostamento tra ecologisti e preti, tra un pensiero impegnato a denunciare l'insostenibilità e la pericolosità del nostro modello di sviluppo, e la vasta consorteria clericale, preoccupata di perdere parte del proprio controllo sui corpi e sulle vite della gente. Resta nondimeno evidente, che gli uni e gli altri, pur diversissimi nei loro obiettivi concreti e, diciamo lo pure, nella qualità morale del loro intervento, condividono, tuttavia, l'illusione arcaica d'un mondo naturale, equilibrato ed armonico, all'interno del quale l'agire umano dev'essere prudente e circospetto, per evitare disastri. Ed è anche chiara, comunque, la necessità di porre un freno alla tracotanza tecnologica, la cui pretesa di controllare il mondo, si è spesso rivelata un mito dannoso ed ineffettuale.
Resta comunque da chiedersi, se la misura dell'etica possa essere quella sorta di linea di sbarramento che è il concetto, peraltro impreciso ed opinabile, di limite. Un concetto che viene richiamato, anche in ambiti molto diversi da quelli sopracitati, ed è spesso indice d'una reale incapacità d'affrontare realmente le questioni cui si applica. Il tentativo di usarlo, nelle situazioni belliche ed i paradossi che ne derivano, mostra sin troppo efficacemente quanto vischiosa e fragile sia un'etica del limite. Quale criterio si può applicare, per distinguere un criminale di guerra, da un soldato che compie il proprio dovere al servizio di una causa? Perché le camere a gas sono un delitto contro l'umanità, e le atomiche di Hiroshima e Nagasaki un'operazione bellica? Perché lo stupro è un crimine, sia in pace che in guerra, mentre l'omicidio passa dal rango di mostruosità inaccettabile a gesto eroico e disinteressato? Certo si potrebbe, con tranquillità, sostenere la buona volontà e l'onesta coscienza di chi, consapevole di non poter cancellare di un colpo i mali della terra, tenta quantomeno di contenerli. Costruire argini non sempre impedisce le alluvioni, consente tuttavia che abbiano effetti meno disastrosi. Resta tuttavia il dubbio che, distinguere tra misfatti tollera bili e mostruosità inaccettabili, finisca col conferire un certo status morale a massacri e bombardamenti, con opporre le guerre giuste a quelle ingiuste, l'omicidio legalizzato del boia e il crimine degli uomini che è autorizzato a «giustiziare», chi tortura il prossimo per sadismo e chi lo fa in nome di uno stato, d'un partito o d'una religione.

Il buon Adamo la saggia Eva
Lo sgretolarsi di ogni idea di fondamento, che segna la modernità, impedisce di assegnare a dio, allo stato, alla storia o alla natura, una funzione di riferimento normativo, per quanto concerne la definizione dei valori, e l'ambito delle scelte. Ciascuno diviene pertanto responsabile, non solo di quel che decide di fare, ma anche e soprattutto del senso delle proprie azioni. Sciolto da ogni legame di fedeltà, da ogni dovere di appartenenza, da ogni precostituito orizzonte di significato, l'individuo non è tuttavia collocato in uno spazio, in cui le scelte sono indifferenti ed i valori equipollenti, poiché ogni volta che agisce, pone in essere un valore, che è la sua stessa opzione a legittimare. Ogni scelta rimanda sempre, necessariamente, non solo al proprio contenuto specifico, ma anche ad una visione del mondo. In questa prospettiva, il concetto di limite, come criterio di scelta, comporta una rinuncia delle responsabilità, d'uno schierarsi deciso, ed assume il relativismo, come terreno friabile e periglioso, che è preferibile aggirare, anziché coraggiosamente accogliere, come apertura di possibilità inesplorata. Incapace di sciogliere gli ardui dilemmi della modernità, l'etica del limite tenta di eluderli, rinunciando alla sfida difficile ma intrigante, che ne discende. Il pianeta rischia la distruzione a causa di piogge acide, buco nell'ozono e inquinamento nucleare? Limitiamo l'ingerenza umana e tutto tornerà a posto. Le guerre comportano un carico di sofferenze eccessivo? Tracciamo i confini tra massacri leciti e crimini illeciti. L'ingegneria genetica fa irruzione nel tempio sacro della vita, con esiti imprevedibili che rischiano di storcere e dilatare il senso stesso dell'umano? Codifichiamo in maniera rigida il suo raggio d'azione. Inutile dire, che queste scelte rispecchiano egregiamente lo sconforto, derivante dall'angosciante scoperta che, l'arrogante pretesa di controllare la natura (e gli uomini), non ha fatto che produrre catastrofi. Non è però possibile affrontare la questione, considerando l'agire umano come mero elemento perturbatore d'un equilibrio, altrimenti armonico, rispolverando, spesso forse in modo non del tutto consapevole, l'antico sospetto di un vizio di fondo, d'un peccato originale, d'una colpa archetipa che segna irrimediabilmente il percorso degli uomini sulla terra. La stirpe d'Adamo e Caino è destinata a ripetere gli errori dei padri, condannata per aver osato attingere alla fonte della conoscenza, per aver sfidato il creatore, generando da sé la propria discendenza. A ben vedere, l'ingegneria genetica non è che il prolungamento di questa mitica sfida, che continua a preoccupare gli odierni rappresentanti del vecchio Geova, quasi quanto la copertura delle note di spesa del loro papa giramondo. In realtà, il buon Adamo e la saggia Eva, lungi dal contaminare il mondo, hanno più semplicemente affermato la loro volontà d'esserne parte, assumendosi la responsabilità delle proprie scelte. La loro stirpe è stata quella di Caino e quella di Abele, e non ha prefigurato il destino, voluto da un dio dispotico e capriccioso, ma l'aprirsi per ciascuno della possibilità di scegliere.

Verso la distruzione?
Un approccio libertario all'etica, non può spingersi a pensare il bene come agire volto a limitare tali possibilità ma, al contrario, mira ad estenderle al di là dei limiti imposti da una visione gerarchica della società. Ben lo sapeva Bakunin, quando asseriva che la libertà di ciascuno è tanto maggiore quanto più lo è quella di tutti.
Limitare la libertà, per timore delle catastrofi, è l'unico gesto veramente imperdonabile ed irrimediabile. I mostri non sono figli di una ragione assente o follemente utopica ma il frutto maligno della volontà di costringere l'uomo e la natura entro un unico paradigma, un unico modello sociale e politico, un unico stile di vita.
Finché prevarrà una cultura, che equipara il benessere all'espansione delle industrie e dei mercati, una cultura che antepone l'auto veloce alla salvaguardia della salute, una cultura in cui l'agio di pochi si regge sulla miseria dei più, nessun limite, nessun freno potrà fermare la corsa verso la distruzione.
Finché i preti, indicheranno la maternità quale supremo compimento della vita delle donne, finché i figli saranno un dovere e non una scelta, continueranno ad esservi donne che partoriranno a sessant'anni.
Non è la tecnica a determinare le scelte della gente, ma, al contrario, è la cultura dominante di una società che promuove la ricerca di soluzioni tecniche, per scelte che sono del tutto umane.