Rivista Anarchica Online
Elogio dell'integralismo
di Carlo Oliva
Dunque, vediamo. A Casablanca, Marocco (una città che non dev'essere
più la stessa da quando se n'è andato
Humphrey Bogart), una studentessa universitaria è stata «condannata a morte» dai suoi compagni di
studi
perché riluttante a portare il velo, secondo i precetti islamici, e si è salvata a stento da un
tentativo di linciaggio.
L'ambasciatore italiano a Rabat, Giuseppe Panocchia, ha confermato la notizia, ma ha fatto notare come ad agire
in tale deprecabile guisa siano solo ristretti, sia pure ben organizzati, gruppi di integralisti. A Gerusalemme,
invece, la compagnia municipale dei trasporti ha acconsentito alla richiesta dei gruppi ortodossi di por fine allo
scandalo rappresentato dalla frequenza di uomini e donne sugli stessi autobus, con grave nocumento della
modestia e del self control sessuale (per non dire che, modestia a parte, secondo quegli ortodossi
è sempre
meglio evitare ogni contatto con le donne, perché notoriamente impure): d'ora in poi nel quartiere
ortodosso di
quella simpatica città i mezzi di trasporto urbani saranno divisi per sesso. Sembra che il governo
israeliano e
le autorità cittadine non fossero precisamente favorevoli all'iniziativa, ma non hanno potuto farci niente,
dovendo tener conto della forza politica dell'integralismo ortodosso. A Teheran, infine, dove l'integralismo
è
notoriamente di casa, il Ministro della Cultura e dell'Istruzione ha trovato il tempo di promulgare, in nome dei
sani principi della sua religione, un decreto che vieta alle donne di compiere gli studi superiori all'estero. Un
suo portavoce ha giustificato il divieto affermando che le donne, in Iran, «godono di molti più diritti
e sono
meglio protette» che in altri paesi, ma non per questo «debbono venir considerate come persone indipendenti».
Ci mancherebbe altro.
Spirito di tolleranza Sono solo tre notizie, tre esempi di «integralismo»
raccolti in data recente; risalendo con la memoria, ne
ricorderete voi stessi parecchi altri: che so, i guai dei compagni Claudia Schiffer e Salman Rushdie, la campagna
terroristica a danno dei turisti in Egitto (quella in cui, per un motivo o per l'altro, a rimetterci le penne finiscono
con l'essere sempre dei poveracci egiziani), la recente usanza algerina di fare a tiro al bersaglio sui diplomatici
stranieri (anche qui, dimostrando una pessima mira), i sacri macelli nella Kabul finalmente liberata dal giogo
marxista, i ladri con le mani tagliate e le adultere lapidate e tante altre manifestazioni di «pietà»
religiosa non
esattamente in linea con il pensiero moderno. E che il problema, naturalmente, non riguardi soltanto il terzo
mondo, lo sa chiunque abbia avuto occasione di frequentare il pensiero di Karol Wojtyla o del cardinale
Ratzinger. E' vero che in Italia, di solito, le autorità religiose si limitano al linciaggio morale, ma che
certe
pretese di parte cattolica, in tema di morale sessuale, o di finanziamento scolastico, o del cosiddetto «diritto
alla
vita», siano manifestazioni di integralismo è una cosa che hanno notato in parecchi. E credo sia ormai
nozione
corrente quella per cui tra le minacce incombenti su questo nostro povero mondo travagliato, quella
dell'integralismo non sia la meno grave. E' strano, però. In fondo, ad essere integralisti non
dovrebbe esserci nulla di male. Anche chi non nutre
particolari propensioni ideologiche in merito, dovrebbe avere qualche difficoltà ad accettare come
negativa una
categoria che in fondo negativa non è. Il termine «integralismo» esprime, in ultima analisi, una pretesa
all'«integralità» cui nessuno dovrebbe avere niente da ridire. Che chi accetta un sistema di pensiero
voglia
aderirvi «integralmente», nella sua interezza, senza rinunce e compromessi imposti dall'esterno, sembra
un'esigenza affatto ragionevole. E' la pretesa opposta, se mai, quella di aderirvi solo fino a un certo punto, che
finisce col sembrare un po' strana. Tanto più quando il sistema di pensiero in questione ha la cogenza
di una fede
religiosa: le norme che bisogna rispettare per conquistarsi il paradiso sono tante e complesse, e non vale la pena
di precludersi la vita eterna per un malinteso spirito di tolleranza (che, nell'uso corrente, è, grosso modo,
la
categoria antitetica a quella di integralismo). Anche perché lo spirito di tolleranza non è affatto
ideologicamente
«neutrale» e non è cosa che si possa chiedere a tutti: storicamente è il frutto della riflessione
illuminista sulla
storia europea (spero ricordiate il «Trattato» di Voltaire), e in quanto caratteristico del punto di vista laico
è
stato combattuto a lungo dalle religioni positive e dalle loro strutture organizzate. Chiedere a uno spirito
religioso di farlo proprio, in un certo senso, è un invito all'autocontraddizione, che non è mai
una cosa simpatica
da chiedere a qualcuno. Il discorso, badiamo bene, ha una valenza più generale, che trascende il
problema dell'atteggiamento religioso.
Il punto di vista laico e lo spirito di tolleranza non sono degli universali morali, validi per tutti: sono
caratteristiche specifiche della nostra cultura occidentale. E in effetti molti atteggiamenti normalmente
etichettati come frutto di integralismo sono riconducibili alla più ampia problematica delle
diversità di cultura
(e di tradizione). Ora, è indubbio che di fronte alle diversità culturali viviamo in una situazione
ideologicamente
contraddittoria. Nessuna persona ragionevole, oggi, si sentirebbe di poter affermare il principio per cui la cultura
occidentale, pur diffusa com'è in tutto il mondo, goda di particolare superiorità sulle altre. Ci
sentiamo
responsabili del modo non esattamente pacifico con cui è stata diffusa, e della protervia con cui per due
secoli
abbiamo considerato «inferiori» i diversi (per non dire che i risultati ottenuti dal nostro sistema sociale non sono
precisamente tali da inorgoglire). D'altro canto, restiamo affezionati a un certo numero di valori in essa
più o
meno contraddittoriamente affermati e più o meno imperfettamente realizzati. E siamo disposti a
lasciare agli
altri la loro diversità, a patto che le sue manifestazioni non contraddicano troppo patentemente a quei
valori.
Per cui, che le famiglie delle ragazze maghrebine immigrate in Francia polemizzino con le locali
autorità
scolastiche per ottenere il permesso (finora negato) di far loro indossare il chador in aula (è successo
nello
scorso autunno) va benissimo e, anzi, è una lotta che va sostenuta a piè fermo, in quanto
rappresenta una
contraddizione affatto secondaria nelle nostre consuetudini socio culturali; che in Maghreb una ragazza non
possa smettere lo stesso chador senza rischiare il linciaggio ci sembra più problematico. Ma non
possiamo far
finta di ignorare che ai soggetti interessati la seconda situazione potrebbe sembrare altrettanto normale che la
prima: in fondo, i valori in base ai quali noi stabiliamo la distinzione (la libertà del
singolo, anche se di genere
femminile; l'inopportunità di imporre forzosamente dei comportamenti di testimonianza religiosa e
simili) sono
valori nostri e non loro.
Cattiva coscienza La conclusione è inevitabile. Chi afferma che tutte
le culture hanno pari dignità, ma censura certi comportamenti
perché contraddittori con il suo sistema di valori, si caccia, sia pure per i migliori motivi,
in una contraddizione
da cui non è proprio possibile uscire. L'ambiguità del termine «integralismo» rispecchia
l'inesorabile della
contraddizione, che è poi quella di chi non ha niente in contrario a che gli altri facciano tutto quello che
vogliono a patto che non diano fastidio a lui. Forse varrebbe la pena di riflettere su come certe affermazioni di
«rispetto» per gli altri siano soltanto espressioni della propria cattiva coscienza. E su come tutto sarebbe
più
semplice se lasciassimo perdere certi stupidi eufemismi e chiamassimo le cose con il loro nome. A
proposito. Non so se abbiate qualche familiarità con il De rerum natura di Lucrezio. Nel
primo libro, il poeta,
subito dopo la protasi e la dedica, vuole tranquillizzare i lettori eventualmente timorosi di avviarsi alla
conoscenza di una dottrina moralmente deprecabile, come l'epicureismo era considerato di solito a Roma, e
argomenta che la turpitudine morale non è necessariamente legata a un punto di vista razionalista e
materialista.
Infatti, dice, anche in nome della religione si possono commettere delle azioni deprecabilissime. E cita un
esempio, traendolo dal repertorio mitico: il sacrificio di Ifigenia, immolata dal padre alla dea per ottenere che
la flotta argiva potesse felicemente salpare dal porto di Aulide. E' un brano famoso, in cui la vecchia leggenda
è reinterpretata con sensibilità e pathos tutti moderni, con un Agamennone
angosciato, i sacerdoti che
nascondono imbarazzati il coltellaccio, gli astanti in lacrime, e la fanciulla in questione, che fino a quel
momento credeva essere stata convocata davanti a un altare per sposarsi, comprensibilmente turbata. «A tanti
delitti» conclude il poeta «poté spingere la religione.» Tantum religio potuit suadere malorum.
Un verso
espressivo nella sua icasticità e giustamente famoso.
Religione o superstizione? Ma attenti. Ricordo che quando io leggevo
Lucrezio al liceo, i miei insegnanti (e i libri in adozione) si
guardavano bene dal tradurre così. Assicuravano che a spingere a tanti delitti era la «superstizione»,
termine
con cui era caldamente consigliato d'interpretare il religio del testo, tenendo più conto
dell'esigenza di non
offendere nessuno che di quella di rispettare il vocabolario. E' roba di 30 anni fa, certo, ma ho scoperto con
qualche stupore che la pratica non è affatto estinta, e vige ancora in molti licei, per non dire dei
principali
commenti in uso. E, volendo, la si può anche giustificare: è indubbio che sgozzare una vergine
per ottenere una
navigazione felice è un gesto alquanto superstizioso, e chiunque può sostenere che la religione
è tutt'altra cosa.
Lucrezio probabilmente non aveva la minima idea di tracciare una distinzione del genere, ma chi se ne frega.
Quando si ha a che fare con la religione, anche nella scuola pubblica e laica, è meglio muoversi con
cautela. Di
fronte a una contraddizione, in mancanza di meglio si può sempre coprirla con un eufemismo. Ma
forse, visto che il termine «superstizione» evoca un vago sentore di polemiche giacobine, si potrebbe
più
modernamente tradurre che «a tanti delitti poté spingere l'integralismo».
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