Rivista Anarchica Online
Da Torino a Detroit
di Maria Matteo
Spesso nelle autostrade in prossimità delle località più
importanti sono collocati cartelli di presentazione che
ne illustrano le peculiarità principali: ci sono le città d'arte, i luoghi famosi per la produzione
vinicola, quelli
legati alla commemorazione di un avvenimento storico e tanti altri. Chi arriva a Torino sui bordi della
tangenziale vede un'insegna blu in cui campeggia il disegno stilizzato di una vettura e la scritta «Torino
città
dell'automobile». In questa breve dicitura si condensa la storia degli ultimi cent'anni di questa città, che
all'industria automobilistica ha legato il proprio destino, un destino che con gli anni ha finito con l'assumere un
unico marchio, quello della Fiat. La memoria di chi è nato e vissuto a Torino così come dei tanti
che vi sono
emigrati nei decenni successivi è indissolubilmente segnata dalla presenza degli stabilimenti della Fiat.
E' la
memoria del boom economico e del sogno di una crescita inarrestabile, ma anche quella delle lotte per la casa
e per i servizi in una città cresciuta troppo in fretta. La città della Fiat, la città degli
Agnelli, i padroni per
antonomasia, è stata anche la città delle grandi lotte operaie, la città che nel '17
scioperò contro la guerra,
erigendo barricate elettrificate, la città dell'occupazione delle fabbriche, la città il cui cuore
autentico batteva
nelle barriere proletarie ove l'orgoglio della condizione operaia alimentava uno spirito mai sopito di ribellione.
Persino nei periodi più bui, dopo la strage di Torino in cui la ferocia delle squadracce di Brandimarte
si abbatté
su alcuni dei più noti esponenti delle lotte sindacali di quegli anni, numerosi gruppi continuarono
clandestinamente la propria attività in barriera di Nizza, a Campidoglio, in barriera di Milano. Forse
per i più
Torino è solo la città della Fiat, la città di Agnelli, ma per molti altri Torino è
anche e soprattutto la città di
quegli operai come Pietro Ferrero, protagonista delle lotte e degli scioperi degli anni '10 e '20, assassinato dai
fascisti.
Muri invisibili Le vicende degli ultimi mesi paiono indicare che il futuro
di Torino non sarà più connesso alla Fiat e
probabilmente nemmeno alla classe operaia. Soltanto pochi mesi fa la miliardaria kermesse pubblicitaria
organizzata per il lancio della punto riproponeva il connubio tra la città e la Fiat. Non si erano ancora
spenti i
riflettori della festa che già prendeva corpo quello che ormai tutti sapevano: cassa integrazione,
ridimensionamento e chiusura di impianti, risibili promesse di riconversione industriale rapida. Gli accordi
siglati a fine febbraio tra CGIL, CISL e UIL e padronato si limitano ad attivare meccanismi di ammortizzazione
sociale ma non aprono certo prospettive per il domani. I grandi cortei che hanno preceduto la trattativa hanno
assunto le caratteristiche d'un rituale obbligato ma ormai liso, privo del mordente necessario per una battaglia
che i più hanno dato per persa prima di iniziarla. Il maggior segno di vitalità lo hanno dato
gli operai dell'Alfa di Arese, che, giunti da Milano per manifestare,
si sono arrampicati sulla collina sino alla villa del padrone. Il tecnocrate sindaco della città, il
progressista
Castellani, preconizza per Torino un avvenire all'insegna della tecnologia e del terziario avanzato e vara un
piano regolatore la cui realizzabilità dipenderà in buona misura da una quantomeno improbabile
disponibilità
dei privati a fare grossi investimenti. Lo scenario concreto che ci troviamo di fronte è ben altro:
la crescita della disoccupazione e l'impossibilità di
attivare strumenti di ammortizzazione sociale sul lungo periodo rendono credibile lo stabilizzarsi di ampie fasce
di marginalità come elemento strutturale del panorama sociale. Il maggior interesse
dell'amministrazione
pubblica e dell'imprenditoria è di ridisegnare la città in modo che i confini anche fisici tra aree
produttive e di
servizi e le periferie condannate al degrado divengano sempre più netti ed invalicabili. L'inevitabile
aumento
della conflittualità sociale conseguente alla disoccupazione, all'impauperimento, alla riduzione dei
servizi, al
peggiorare della qualità della vita potrà essere gestita in meri termini di ordine pubblico.
Comincia ad aleggiare lo spettro di Los Angeles, di Detroit, delle grandi città americane in cui,
separate da muri
invisibili ma solidi, coesistono nello stesso ambito metropolitano zone sviluppate ed opulente e ghetti degni del
terzo mondo. E' un processo lento ma inequivocabile che investe non solo Torino ma tutte le grandi
città.
Persino gli interventi relativi alle questioni del traffico, dell'ambiente, dei servizi paiono andare in questa
direzione. Il centro cittadino espelle lentamente ma inesorabilmente i residenti meno abbienti: pensionati,
immigrati, piccoli commercianti e si trasforma in vetrina lussuosa, ricca d'uffici e di negozi, con ampie zone
interdette al traffico, preservate dall'inquinamento, dalla congestione. Un'isola felice in mezzo al meccanismo
infernale della metropoli, che non si può né si vuole tentare di smontare. Le ferite e gli steccati
che segnano lo
spazio fisico sono lo specchio più eloquente delle fratture e della disgregazione che attraversano
l'ambito
sociale. L'affievolirsi dei legami di solidarietà, l'incapacità di ricostruire percorsi identitari
comuni fondati
sull'autonomia dei singoli si traduce in una sempre più accentuata anomia del corpo sociale.
Americanizzazione della scena sociale Nella città della Fiat la
città dei cittadini aveva saputo produrre gli anticorpi necessari non a sconfiggere la
malattia ma quantomeno a resistervi. Oggi le difese immunitarie appaiono indebolite e nuove e più
terribili
infezioni minacciano di dilagare. Intendiamoci: nessun rimpianto per il passato sarebbe opportuno od
auspicabile, nondimeno è indispensabile interpretare i primi segni d'una trasformazione la cui portata
probabilmente era del tutto impensabile soltanto un decennio fa. Nel corso della recente campagna elettorale
una destra neoliberista ed aggressiva ha indicato nella riduzione delle tasse, nelle privatizzazioni la ricetta
vincente per i problemi occupazionali; sul fronte opposto una sinistra timida e senza prospettive si è
arroccata
nella mera difesa di ormai esigui margini di Welfare. Gli uni e gli altri hanno finto di ignorare che le questioni
del debito pubblico e della ripresa produttiva non possono essere affrontate in termini di riduzione di spesa, di
trasformazione del sistema fiscale o attraverso una svendita delle aziende di stato. È e resterà
di gran lunga più
conveniente per le imprese investire in Polonia, in Brasile o magari in Nordafrica. La possibilità di
un'americanizzazione della scena sociale appare quindi tutt'altro che remota ed obbliga l'immaginario sovversivo
a pensare nuove strategie per il conflitto sociale. Questioni quali la fuoriuscita dal lavoro salariato sono
state argomento di riflessione e dibattito o, al più, terreno
di sperimentazione e ricerca nei ristretti ambiti di alcuni gruppi radicali. Oggi il superamento del lavoro salariato
oltre che una virtù di pochi è divenuto per molti una necessità non certo voluta.
Sinora l'economia alternativa ha tentato di svilupparsi lungo le coordinate tracciate da un'urgenza di
carattere
etico e politico, non certo materiale. Lavorare per costruire nel qui ed ora prospettive di lavoro fuori dalla logica
del profitto, nonché occasioni di socialità e incontro che ridefiniscano uno spazio pubblico
estraneo all'ambito
statale significa scommettere sulla possibilità che l'emarginazione e il ghetto non siano per molti un
destino
ineluttabile. Quest'impostazione non piacerà ai mistici della marginalità, ai buontemponi
convinti che l'autogestione si riduca
ad un posto dove si beve, si suona e si balla: un dopolavoro per chi non ha o non vuole avere lavoro. D'altra
parte è assai improbabile che incontri il favore di chi, da un lato opposto ma specularmente simmetrico,
ritiene
il lavoro salariato una dannazione necessaria e punta sulla riduzione dell'orario o, in subordine, ad una salario
sociale per i disoccupati. Questi e quelli giocano una partita con carte truccate e con una posta incerta,
rischiando seriamente di finire
spennati. Naturalmente la creazione di luoghi di socialità non mercificata o la lotta sindacale
sull'occupazione
sono obiettivi nobili e sensati sui quali può valer la pena di spendere energie, ma rischiano seriamente
di avere
il respiro corto se non riescono ad inserirsi in una prospettiva più ampia.
Pratica d'autogestione Una prospettiva che recuperi una dimensione
progettuale in cui il buon senso e l'utopia, il radicamento caparbio
nel presente e la scommessa sul futuro sappiano saldarsi intimamente. Pensare ed operare per tracciare ambiti
di autonomia sociale, economica e politica di segno libertario ed egualitario implica una radicale ridefinizione
del conflitto con la società del dominio. Molti sono convinti che le correnti municipaliste ed
autogestionarie mirino ad eludere il conflitto, ad aggirarlo,
scavandosi piccole nicchie di libertà tutto sommato compatibili con l'esistente. E' innegabile che questo
sia un
rischio possibile specie per quelle esperienze che non sanno o non vogliono uscire dalla propria
specificità e
ricercare forme di collegamento e cooperazione, tuttavia non è certo un percorso obbligato. Anzi. I
sostenitori
dell'attuale assetto politico e sociale devono il credito di cui godono non tanto alla capacità di fornire
risposte
soddisfacenti alle domande di libertà, benessere materiale ed equità sociale ma alla mancanza
di alternative
credibili. Per molti questo non è certo il migliore dei mondi possibili ma costituisce sicuramente il meno
peggiore in cui sia dato vivere. Tra il liberismo delle destre e la riproposizione sia pure riveduta e corretta
dello stato sociale a sinistra la
differenza può apparire abissale sia in termini politici che etici, tuttavia vi è un punto focale
di convergenza nel
negare la possibilità di percorsi di autonomia politica e sociale dall'istituito. Tutti parlano di riduzione
delle tasse
o di riequilibrio del sistema fiscale: per gli uni questo significa diminuzione della pressione sulle imprese, per
gli altri alleggerimento dei carichi gravanti sul lavoro dipendente. Nessuno però pensa possibili
forme di solidarietà e cooperazione sociale che prescindano dalla mediazione e
dalla pesante tutela dello stato. Proporre e praticare sin da ora una gestione diretta del territorio attraverso
strutture di autogoverno comunitario,
moltiplicare le attività produttive e di servizio autogestite, far crescere una rete di comunicazione e
cultura
libertaria è il modo più efficace di dar corpo e linfa vitale ad un'alternativa concreta all'esistente.
Un'alternativa che non si limita al pur affascinante ambito della sperimentazione sociale, costituendo
iniziative
di grande valore esemplare ma limitate, e riesce altresì ad avere una forte pervasività sociale.
In questa prospettiva il conflitto, lungi dall'essere aggirato, subisce un radicale spostamento, consentendo
di
giocare la propria partita su terreni diversi da quelli predisposti dal dominio. Tutti coloro che vengono espulsi
dal processo produttivo o non ci sono mai entrati o non hanno alcuna intenzione di farlo potrebbero avere una
chance di eludere un meccanismo che li condanna al ghetto, alla marginalità senza prospettive, in cui
anche la
rivolta non è che sfogo ineffettuale. Non si può che auspicare un approfondimento della
riflessione e della pratica d'autogestione che consenta di
affinare gli strumenti utili a far crescere le esperienze e con esse la capacità di cooperazione, scambio,
mutuo
appoggio. Torino non è Detroit ma potrebbe diventarlo.
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