Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 204
novembre 1993


Rivista Anarchica Online

Città e municipalismo libertario
di Dario Padovan

(...) L'economia di mercato modifica rapidamente il rapporto tra gli uomini, trasformandolo in rapporto tra oggetti, tra venditori e compratori di forza-lavoro. Essa ha un segreto da cui ha tratto la forza per modificare la totalità della vita sociale: la forza dell'anonimato. E' in virtù di questa che l'economia ha trasformato la vita sociale basata su relazioni solidali e mutualistiche, in una vita regolata dal rapporto di scambio, da un do ut des fondato sul conteggio economico e sul profitto che tale transazione, un tempo fondata sulla solidarietà e sul dono, può garantire. Oggi l'anonimato e la spersonalizzazione del mercato hanno completamente privato il processo di scambio della sua dimensione morale.
Anche per ciò che riguarda le cosiddette imprese alternative, come le aziende di agricoltura biologica, i laboratori artigianali e le cooperative alimentari, in alcuni casi l'ispirazione etica si è molto indebolita e rischia di sparire. Nella misura in cui tali aziende diventano stabili, acquistano caratteri più imprenditoriali che morali. Si tratta di un riscio evidente, di cui tutte le realtà alternative sono consapevoli, e che emerge non solo dalla necessità di confrontarsi con il mercato ufficiale, confronto d'altra parte necessano per ora in questa realtà sociale - ma anche perché spesso le cose prodotte non portano con sè un messaggio etico che prefiguri e presupponga una economia alternativa in una società profondamente rivoluzionata.
Il superamento dell'anonimato, un nuovo valore d'uso del lavoro, non più realizzato in merci inquinanti ma in beni di utilità sociale, il superamento della concorrenza tra produttori e venditori, da sostituire con la reciprocità e l'interdipendenza dei soggetti che partecipano ad un organico processo di riproduzione della società, sono questi i messaggi etici che le attività alternative dovrebbero portare con sé.
Le tecniche di produzione e la bontà finale di un oggetto non contengono immediatamente questi valori, che invece si realizzano nei rapporti tra singolarità e tra queste e la collettività. Solo la ricostruzione di una comunità coesa, solo il controllo delle attività economiche e dei rapporti di scamhio tra entità produttive e tra individui da parte della società, o comunque da parte di quei movimenti che già oggi si pongono come obiettivo la riformazione di un tessuto sociale comunitario, può impedire quelle deviazioni efficientiste, produttivistiche, mercantilistiche, che sono un pericolo per tutte le realtà di cooperazione alternative.
Il problema non è allora se partecipare o meno al mercato ufficiale: fintanto che non si formeranno ampie comunità territoriali e regionali, ampie zone riempite da una controsocietà reale, questi messaggi etici - provenienti da un'economia alternativa che sa trasformarsi anche in cultura - lanciati sul mercato, non possono essere che positivi. L'importante è non considerare l'economia come una sfera autonoma e indipendente dalla vita sociale e dalle potenzialità cooperative del lavoro sociale, non considerarla la scienza che supera l'opposizione tra bisogni illimitati e risorse scarse - essa m realtà ricrea continuamente questa falsa opposizione - ma un'ambito di riproduzione che valorizzi l'individuo e la collettività a cui partecipa. L'economia alternativa che viene acquisita dai movimenti deve diventare spazio sociale che libera potenzialità produttive e creative, non sorretta da inesorabili leggi di mercato, che dia un nuovo senso al lavoro, che liberi tempo da dedicare alla costruzione di istituzionalità alternative e a lotte radicali nei territori. Abbiamo dunque bisogno di nuove sensibilità ecologiche e libertarie, di un progetto di ecologia sociale che sappia riconsiderare territorio ed economia, comunità ed istituzionalità alternative, trasformando settori della società civile in forti movimenti di opposizione e di radicale cambiamento. Questa è una scommessa per il futuro.

Città e municipalismo libertario
La crisi ecologica sta rapidamente mettendo in evidenza la vetustà, l'obsolescenza, l'inadeguatezza, la pericolosità al limite dell'estinzione del biosistema, dell'attuale sistema sociale di sviluppo e delle istituzioni politiche, economiche e sociali che lo sostengono. La degradazione, dissoluzione, la devoluzione rapida di interi ecosistemi naturali e sociali, ci ha messo prepotentemente di fronte agli esiti di uno sviluppo continuo e di una crescita illimitata, spinti da élites economiche e statali che non solo ancora non hanno minimamente preso in considerazione il concetto della oggettiva limitatezza dell'ambiente bio-fisico nel quale si è sviluppata la società con il suo armamentario produttivo, ma che ancor più si beffano della brutalità di un'organizzazione sociale, sempre più autoritaria e resa cieca da una progressiva privazione e rottura delle relazioni con la natura da cui si è generata.
Se siamo convinti che l'uomo è un animale sociale e politico, che la natura umana è un processo di consociazione dalle radici biologiche, un processo in cui la cooperazione, il mutuo appoggio e la solidarietà sono attributi tanto naturali quanto culturali, che in sostanza l'uomo è strutturato biologicamente per vivere con i suoi simili in un ambiente sociale che evolve e che si modifica, producendo continuamente idee e culture, istituzioni e forme associative, come possiamo accettare l'attuale situazione sociale?
È possibile accettare una vita sociale fondata sull'individualismo, la competizione sfrenata, la disuguaglianza, sul lavoro ripetitivo e anonimo, sulla riduzione costante delle singolarità a monadi isolate in contesti sociali sempre più sintetici, vacui, abnormi, soverchianti?
La vita sociale, collettiva e individuale, imposta dal capitalismo si sta saturando di schizofrenie, alienazioni, insicurezze, reprimende; tale vita sociale ci sta privando di importanti e molteplici relazioni sociali incrociate, negando con esse anche qualunque forma di aggregazione solidale e comunitaria, che vengono così usate, smembrate, canalizzate lungo forme di depotenziamento ontologico, intellettuale, culturale che le rendono schiave dei valori dominanti; oppure vengono ghettizzate, abbruttite, trasformate in variabili inutili se non antagoniste alla ricostruzione di una socialità radicale di opposizione.
Affrontare oggi la questione della vita sociale, di come si è andata sradicando dal suo terreno oggettivo, la natura, presupposto materiale ed esistenziale sul quale gli uomini hanno da sempre fondato un'etica dei soggetti e dei comportamenti, spesse volte ugualitaria, e tesa a costruire un senso pieno del sé individuale e collettivo, significa anche riconoscere che in questo ultimo decennio i movimenti di opposizione hanno abbandonato quel fondamentale centro di riproduzione della vita sociale che è stata la comunità.
Già, lo sviluppo industriale ed economico, sul quale per alcuni secoli i movimenti operai e socialisti avevano puntato le loro carte per realizzare la rivoluzione e la liberazione sociale ed universale, ha non solo prodotto la separazione sempre più forzosa tra società e natura, ma sta dissolvendo in poco più di un secolo quella struttura comunitaria che è stata, nella storia, l'ossatura stessa della società e soprattutto degli strati popolari di essa; struttura che è la mediazione fondamentale e il continuum evolutivo tra natura e società, e che forse è la forma più equilibrata di autorganizzazione sociale per l'uomo in quanto, e sono parole di Fichte, natura fattasi autocosciente.
La scomparsa della comunità operaia e proletaria, e con essa la scomparsa di una potente e radicata cultura dell'opposizione e dell'antagonismo, è una perdita incommensurabile di cui hanno responsabilità gli stessi movimenti operai, che spostarono il fulcro della loro azione, dalla società - e in sostanza dal polo etico - alla fabbrica, luogo di produzione ed irrigimentazione gerarchica della forza-lavoro - in sostanza al polo economico.
Ci troviamo oggi nella necessità di rifocalizzare il nostro discorso sulla comunità, sul mondo vitale, non perché non esistono più operai e fabbriche, ma perché i più forti movimenti si sviluppano sempre e solo in presenza di una forte, coesa ed organica struttura comunitaria, visibile soprattutto nel territorio urbano luogo del conflitto.
Ancor più, se è vero che la fabbrica e le relazioni che produce sono state estese a tutta la società, e che la società è sempre più una fabbrica sociale, cioè un luogo esteso e complesso di produzione generalizzata di merci e di innovazione, e di riproduzione complessiva del sistema capitalistico, è necessario non solo operare una inversione dialettica del soggetto, da produttore di merci a produttore di nuova universalità, ma rifiutare qualunque surdeterminazione ideologica e ontologica che ci trasformi, lungo tutto l'arco della nostra vita, in produttori di merci più o meno materiali, membri di una società-fabbrica come ha progettato il capitale nel suo folle disegno di assoggettamento dell'umano. Dovremo al contrario sentirci soggetti attivi capaci di rifiutare collettivamente questa attribuzione «oggettiva» e quasi messianica, riconoscendoci invece come soggetti che non possono essere modellati nel loro essere solo dalle forme di partecipazione al processo economico e produttivo.
Il profondo mutamento della realtà sociale, che ha portato ad un ridimensionamento ed a uno squassamento della tradizionale struttura di classe prodotta dalla rivoluzione industriale, e che ha provveduto ad estendere lo sfruttamento e soprattutto il dominio a tutti i livelli societari, ci avvicina, paradossalmente, molto più di altre epoche storiche, all'emergenza di un interesse generale che non può più riconoscersi in particolari interessi di classe.
Non ragionare più in termini vetustamente classisti non significa abbandonare l'alternativismo, l'opposizione, l'antagonismo, ma riqualificare e riscoprire, ricostruendo così un maturo punto di vista politico ed intellettuale, ambiti, dinamiche e luoghi del conflitto sociale, che negli anni settanta sono stati solo sfiorati o affrontati da un'angolatura ideologica sostanzialmente fabbrichista.
Crediamo sia necessario ammettere che non esiste più una centralità operaia, che la classe operaia non rappresenta più istanze generali anche perché la sua comunità è stata profondamente corrosa dalla ristrutturazione, e che la vecchia struttura di classe organizzata attorno all'operaio-massa si è ormai disintegrata.
Le nuove contraddizioni che stanno emergendo con la crisi ecologica, il nucleare, il razzismo, il proibizionismo, il dominio patriarcale e sessista, l'autoritarismo ed il militarismo, le nuove scienze e tecniche, la crisi della città, hanno ormai un ridotto contenuto di classe, anche se è comunque evidente che le classi non sono state abolite, ma essenzialmente frammentate e private di una loro originaria identità. D'altra parte, se ormai tutta la società, a partire dalla rivoluzione tecnologica, è sussunta nel progetto complesso di riproduzione tout court della società del capitale, è possibile sostenere, con candido fervore massimalista, che siamo proprio per questo tutti proletari e tutti appartenenti ad una classe?
Meglio ragionare, allora, rispetto ad un soggetto che dovrà sobbarcarsi i nuovi processi di liberazione, in termini più reali e meno ideologici, riferendoci soprattutto al territorio ed allo spazio in cui questi soggetti agiscono, e agli immaginari e alle utopie, che non sono ideologie, che essi producono nel contatto con la realtà della vita sociale.
Se la fabbrica sta morendo come luogo principe del conflitto sociale, ma di questo non possiamo dolercene, anche perché la fabbrica in realtà non è mai stata il luogo della rivoluzione, e tanto meno il regno della libertà - anzi è sempre stata il regno della necessità e della sopravvivenza -, è però incontestabile che sta morendo anche la città, e questa può essere una perdita oltremodo immensamente più grave.
La città, e la rivoluzione urbana che la generò, ebbe un ruolo nella storia ben diverso da quello della fabbrica. Essa si può concepire come ambito di creazione di una humanitas universale, contesto di socializzazione e sviluppo creativo, razionale ed etico delle tensioni dell'uomo a vivere e a consociarsi con i suoi simili; luogo dove finalmente furono rimossi i limiti biologici posti allo sviluppo sociale dai vincoli di sangue e dal campanilismo del mondo tribale, anche se quest'ultimo viveva sulla base di valori molto più condivisibili di quelli della società attuale.
La città fu il grembo da cui si sviluppò la partecipazione assembleare alla vita politica cittadina che fonda la civitas, cioè il corpo politico collettivo. Nella città nacque quella forma politica creativa e collettiva di partecipazione e amministrazione civica, che si contrappose fin dagli inizi allo stato e che si estese al di là dei rapporti sociali tribali che si riproducevano essenzialmente nella sfera economica individuale e domestica.
Nelle città, nel loro spazio urbano e sociale, avvennero quelle rivoluzioni che non solo rovesciarono arcaici sistemi sociali, ma che agitarono prepotentemente idee, culture, istituzioni alternative fortemente intrise di utopie ed idealità, che tanto fecero paura ai borghesi, come la Rivoluzione francese, la Comune di Parigi, la Rivoluzione spagnola del '36, quella Americana del 1768, ma anche dove presero avvio quei movimenti studenteschi ed operai del '68 e del '77, per restare più vicini al nostro tempo.
E' nel territorio della città, nel quartiere, nel villaggio, che il proletario e l'operaio si sentono più vivi, spogliandosi delle loro abitudini industriali e produttive, e valorizzando la spontanea attività di comunizzare, cioè quella attività pubblica che crea ed inventa continuamente controculture e controistituzioni della comunità stessa, contrapposte alla centralità statale, ed estese oltre la più banale, e per certi versi brutale, socialità del ghetto urbano. La rivoluzione urbana ha ossessionato lo Stato centralizzato per gran parte della storia in quanto irreprimibile potere altro, in quanto tensione irrisolvibile, e per certi versi ancora esistente, tra stato e municipalità.
E' essenzialmente nella comunità urbana, nella città, nel quartiere, nel villaggio a ridosso della città, che la vita privata sfuma nella vita pubblica e nella partecipazione collettiva all'organizzazione del territorio, in forma indipendente ed autonoma; difficilmente lo stesso poteva avvenire nella fabbrica, per quanto questa fosse aperta alle influenze del sociale e viceversa, o nel villaggio tribale campanilisticamente chiuso in se stesso.
Tale storicizzazione della città, come ambiente sociale creativo di formazione di istituzionalità alternative ed antagoniste, ci serve oggi per ridefinire una nostra azione nel cuore della città stessa, su due piani complementari: quello della resistenza alla distruzione della città e delle comunità, quartieri, villaggi che ne fanno parte; quello della ricostruzione di uno spazio pubblico comunalistico che rivalorizzi la civitas al posto dell'urbanistico e dell'economico.
Se il Municipalismo Libertario può essere il nostro progetto futuro di una città e di un territorio non corrosi dall'autorità e dall'inquinamento, l'utopia di una società ecologica, esso deve fare i conti con questa storia della Città, e soprattutto con i problemi che vengono posti da un modo di fare politica che, come al tempo della polis ateniese, deve essere concepito come azione pubblica collettiva ed assembleare.
Non possiamo pensare la città unicamente come uno spazio topico ed urbano, ma dobbiamo considerarlo come uno spazio civico di partecipazione, cooperazione, socialità ed attività politica contrapposta allo stato e all'egoismo individuale e domestico. Se l'urbanizzazione e la ristrutturazione urbana avrà cancellato la vita della città a tal punto che la città non abbia più il potenziale e la possibilità di riconoscere una sua identità, una sua cultura e i suoi spazi consociativi, le basi per qualunque idea di cambiamento muteranno in pura astrazione.

Un progetto di ecologia sociale
Se la città perderà queste potenzialità, perderemo quello spazio pubblico e sociale che, unico, può garantire la formulazione e definizione di un progetto liberatorio che si saldi con l'ambiente rurale, e che forse solo un soggetto sociale unito e unificatosi nello spazio civico della città può portare avanti.
E parliamo qui di un soggetto sociale non omogeneo, differenziato, formato da strati sociali oggi in «declino», come gli operai della fabbrica; da strati sociali «emergenti» come i tecnici e la forza lavoro altamente qualificata; dagli oppressi di sempre come le donne, le minoranze etniche e gli immigrati; dagli strati sociali poco integrati nel processo produttivo come gli studenti, i giovani in senso lato, e i marginali della società - quel famoso quarto stato di cui parla Sergio Bologna -; dai gruppi alternativi con stili di vita e cultura radicalmente contro, identificabili tra gli ecologisti, gli antimilitaristi, gli antinucleari, i produttori ed i consumatori alternativi; dall'intellighentia radicale, se ancora esiste, che ha giocato un ruolo strategico in tutte le situazioni rivoluzionarie.
È nello spazio comunitario della città e sulla base di un progetto di ecologia sociale che alleanze, unificazioni, dialettiche e confronti si possono realizzare tra questi soggetti, in un'ampia prospettiva non solo di resistenza alla distruzione della vita civica territoriale ed urbana, ma di radicale mutazione delle strutture della vita attiva. L'aspetto partecipativo, mutualistico, cooperativistico .e comunitario deve caratterizzare la ricostruzione di questa sfera pubblica dove poter riqualificare la politica come attività che proviene dal basso e dalle strutture decentrate della società, e non da strutture burocratico-statali o da professionisti della politica. Il grande lavoro di intessitura, di ricostruzione di un tessuto cellulare civico è la garanzia per l'apertura e lo sviluppo di battaglie vincenti e di istituzioni realmente alternative.
Questa riflessione sulla città e sulle funzioni che ha assunto in millenni di sviluppo sociale non ruota certo attorno alla contrapposizione città-campagna, che ha segnato lo sviluppo urbano e territoriale degli ultimi due secoli. Anzi, siamo perfettamente consapevoli che una municipalità urbanamente e socialmente equilibrata deve ricostruire delle relazioni orizzontali ed osmotiche con l'ambiente rurale e con i paesi ed i villaggi che spesse volte hanno un rapporto di estrema dipendenza dalla metropoli.
Sostengono alcuni ecologisti libertari, e non solo, che l'antica vita urbana poteva essere compresa a fondo solo attraverso un'analisi delle relazioni economiche prevalenti nel contesto agricolo adiacente, poiché la vita cittadina rifletteva le relazioni sociali proprie della campagna.
Anche Marx nei suoi scritti è perfettamente convinto dell'importanza della campagna nel definire le caratteristiche della città. Egli sostiene che la città antica è centro della vita rurale e domicilio del lavoratore, e che la storia dell'antichità classica è storia di città, ma di città fondate sulla proprietà terriera e sull'agricoltura; anche la storia asiatica si può considerare una specie di unità indifferenziata di città e campagna; e il medioevo parte dalla campagna quale sede della storia, il cui ulteriore sviluppo avviene poi nel contrasto tra città e campagna; solo nella storia moderna, con l'avvento del capitalismo, assistiamo ad una profonda inversione di questa dialettica, ad una urbanizzazione della campagna, e non come presso gli antichi alla ruralizzazione della città.
Queste semplici riflessioni ci permettono di dire che qualunque città ha dei limiti fisiologici di espansione oltre i quali si rompe ogni possibile equilibrio fisico ed energetico tra ambiente urbano ed ambiente rurale, trasformando così la città in metropoli e megalopoli, dove allora le forme di resistenza all'annullamento sociale del singolo e della comunità reale che forma la base sociale della città, assumono contorni complessi e per certi versi difficilmente governabili. La metropoli non è certamente il territorio migliore dove operare e dove realizzare obiettivi ecologici, soprattutto in assenza di una struttura comunitaria solida e coesa.
In definitiva siamo convinti che qualunque progetto di rivitalizzazione urbana e di ricivificazione, qualunque progetto di ecopolis, dovrà fare i conti con le strutture dell'ambiente rurale ancora non soverchiato dalla metropoli.

Crisi della città e crisi ecologica
La crisi della città, e del modo di vivere la città, è forse simultaneamente il sintomo più profondo e l'immagine più accesa del connubio crisi ecologica e crisi sociale. La città ha la capacità di amplificare le determinazioni storiche della moderna crisi e gli esiti più nefandi del dominio e del potere delle corporazioni economiche e politiche.
Le squallide periferie dormitorio, i centri congestionati dal traffico, l'inquinamento atmosferico e l'inquinamento sociale degli individui, ci dicono che la città è sempre meno luogo di socializzazione, di rapporti umani ricchi e differenziati, e sempre più luogo di esercizio del dominio da esportare in tutto il mondo, abitato e non, degli uomini. Un nuovo modello urbano si è sovrapposto alla vecchia città fondata su concreti valori civici e politici.
La polis ellenica, le città del Medio Evo, e ancora la Parigi della rivoluzione e della Comune, la Boston della rivoluzione americana, la Venezia dei traffici, ed altre ancora, sono state sostituite da modelli metropolitani che hanno avuto come obiettivi del proprio imporsi, la distruzione dei legami comunitari che fondavano la città, il dominio sulla campagna e sulle sue relazioni sociali, e l'irreggimentazione in fabbrica e in squallidi quartieri periferici della forza-lavoro che dall'ambiente rurale proveniva.
Ora, di fronte ad un ulteriore stacco evolutivo che vede la metropoli abbandonare anche le caratteristiche industriali delle quali si era nutrita, anche ogni ultima residua forma di identità e comunitarietà sociale rischia di venire definitivamente rimossa. Se la comunità popolare e operaia ha resistito a lungo, nonostante il fascismo abbia sventrato i quartieri popolari e restaurato i palazzi e le cattedrali per cancellare una memoria e una cultura antagonista, e nonostante sia stata rinchiusa in quartieri ghetto anonimi e soffocanti, riuscendo a ricostruire anche profonde dinamiche conflittuali, oggi rischia, di fronte a questa profonda rivoluzione tecnica che è in corso, di essere spazzata via definitivamente.
La fine della città può forse coincidere con la fine delle possibilità di libertà. Dobbiamo avere invece il coraggio intellettuale, politico e pratico di contrapporre alla metropoli omologante, autoritaria, centralizzatrice, e all'economia di mercato - privata e statale - su cui si riproduce, strutture sociali multiformi, differenziate e decentrate, strutture che furono alla base della società per millenni.
La capacità di disgregare le precedenti forme e strutture sociali è caratteristica notevole del capitalismo, ma in questo procedere non c'è niente di progressivo, niente che liberi realmente le potenzialità più originali della società. Forse vale la pena abbandonare l'ottimismo vittoriano sulle capacità civilizzatrici del capitalismo, soffermandoci invece su come distrusse i villaggi, i quartieri, le confederazioni, le corporazioni di mestiere, le municipalità, le gilde - così difese da Karl Polanyi - dei comuni liberi medievali, cioè tutto quel ricco e polimorfo tessuto sociale nel quale i soggetti che lo attraversavano e lo vivevano, non conoscevano centralizzazione né amministrativa e statuale, né economica e produttiva.
Sembrò all'inizio che il capitalismo fosse in grado di sviluppare le potenzialità, l'autonomia, i bisogni del singolo; in realtà dissolse quel vasto intreccio di relazioni comunitarie che erano il vero fondamento dell'individuo e della sua capacità di crescita, cacciandolo nelle braccia della più impersonale burocrazia - come sostiene Weber - e gettandolo in un mondo che oggi vediamo sempre più atomizzato e asettico, che ha ridotto l'individuo a una particella in preda ad un incerto e convulso moto browniano.
La distruzione della comunità - che pure stava già perdendo i valori originari del clan e dei legami di sangue, sostituendoli con valori civici, che comunque troveranno la loro più alta espressione di uguaglianza e democrazia nella polis e nel Comune Medioevale - azzera quell'ambiente sociale in cui si formano l'etica, la partecipazione e le istituzioni sociali.
Ma la comunità non dobbiamo identificarla solo con le esperienze comunitarie degli ultimi decenni - che comunque costituiscono un'interessante esperienza, anche se a volte vicina al campanilismo e all'isolamento delle tribù primitive -; non dobbiamo pensare solo ad una comunità contratta al suo interno, ma ad una consociazione vasta che si realizza anche nella città e nella sua storia, che si radica nei quartieri e nelle loro tradizioni, che si espande nei villaggi limitrofi e nelle loro relazioni solidali.
Non solo il villaggio o la comune sono comunità. Essa è evidente nella struttura della polis e nella sua democrazia partecipativa, nel popolo di Parigi quando insorge nel 1879, strutturato per quartieri e gilde, che trova la sua organica espressione nelle Assemblee di sezione e nei clubs; la comunità la ritroviamo tra gli immigrati, diventati operai, tanto di New York, che di Colonia o di Torino; nei ghetti neri delle città statunitensi, tra i giamaicani di Londra, tra gli africani di Parigi. Quasi sempre queste strutture comunitarie sono il prodotto della spontanea evoluzione della antica struttura clanica e tribale che, modificandosi, perviene all'inurbazione, creando a volte non solo ghetti, ma alte espressioni di vita civica e politica.
Queste sono alcune delle multiformi risposte che la società civile organizza contro l'accelerato processo di sradicamento dell'umanità dalla natura - e di conseguenza dagli originari legami comunitari sui quali la società si era cementata - attivato dal capitalismo. La comunità, dunque, non è, e non può essere ridotta, a ghetto, perché è stata la struttura sociale fondamentale dell'umanità fino alla Rivoluzione Industriale e all'avvento dell'economia di mercato.
Ripristinare la comunità significa allora negare materialmente l'esistenza e la consistenza del capitalismo, denunciarne la transitorietà, la casualità, la parvenza, la contingenza. Qualunque società non può negare in continuazione e all'infinito radici storiche, antropologiche, biologiche, di una specie che si è pensata e organizzata sempre su una profonda matrice naturale, che ha cementato e reso continue forme associative umane che non possono essere completamente cancellate.
Nessuna società può pensare di rimuovere in permanenza ancestrali ricordi, legami umani e con la natura protrattisi per millenni, culture, desideri, immaginari, utopie vecchie di secoli, soltanto con il suo apparato tecnologico. Significa negare le radici biologiche stesse della società, e le forme culturali che hanno mutato e riadattato tali radici all'ambiente sociale che si modificava. Mutate, ma non negate ed estirpate!! come intenderebbe il vero, irriflesso, nascosto progetto capitalista.
Uccidere l'humanitas, l'organico, il ricordo, la memoria, sostituendoli con l'inorganico, il sintetico, il posticcio, il tecnico, si parli di istituzioni politiche, di città, di culture. A questo ci sta portando lo sviluppo capitalista. Non c'è niente di scientifico in questa presenza capitalista, non è una società per l'uomo; essa ha negato le proprie origini nella natura e nell'umano, ha diviso la specie in classi, ha soggiogato l'uomo per sfruttare la natura.
Ma se pure le gerarchie ed il dominio sono apparsi già con le prime civiltà imperiali, è pur vero che mai raggiunsero l'intensità, la perfezione, la tecnica attuale. Solo ora sembra scientifico, necessario, irrefutabile il fatto che a un certo punto della Storia sorga e si strutturi una forma di dominio come lo Stato, e che questa ingaggi per secoli uno spietato confronto con le comunità indipendenti degli uomini, per poi vincere questa battaglia solamente con l'alleanza con il mercato, il profitto, il denaro, l'economia. Qui inizia il nostro dramma attuale.
Riconoscere la transitorietà del capitalismo, delle sue istituzioni e dei suoi prodotti - non come fatto oggettivo, ma come condizione senza la quale è possibile che la vita sul pianeta finisca - ci pone il problema dell'utopia, dell'immaginario che forma nelle nostre menti l'idea di una società ecologica e libertaria. La città è il punto focale di tale utopia: perché la battaglia si vince anche e soprattutto qui, nella capacità di riportare la città ad una dimensione umana, aperta, di simbiosi con la campagna, di rispetto delle differenze, capace di favorire partecipazione e libertà, certo sulla base anche di uguaglianze economiche e non solo astratte o civiche.
Ora, tutto questo discorso sulla città è evidentemente un discorso ideale. La città di cui parliamo è quella antica e classica, la polis, che forse è rimasta, con il libero comune medioevale, l'esempio più esplicito di una tendenza che si opponeva alla centralizzazione statale e al dominio dell'uomo sulla natura.
Ma questi brevi richiami storici mettono in moto riflessioni più ampie, si agganciano ad una dialettica storica che si catapulta immediatamente nel nostro tempo, aprendo anche interessanti vie pratiche da sperimentare. Ma quello che più ci preme è caratterizzare, per superarlo, questo dualismo tra fabbrica e comunità, tra l'economico e l'etico, tra il lavoro e l'azione.

Individuare i semi
Dobbiamo decidere in quale ambito noi possiamo oggi collocare il bios politikos aristotelico, cioè l'attività pubblico-politica. Nell'accezione ellenica il bios politikos, che denotava un modo di vita autonomo e autenticamente umano, collettivo e partecipativo, basato sulla solidarietà e la cooperazione tra individui, non si forma nel lavoro e nell'attività economica - queste sono attività individuali e di pura sopravvivenza condizionate dalla necessità. Il lavoro, l'economia, il commercio, le attività produttive in genere non garantiscono quella libertà e quell'indipendenza necessarie alle esigenze umane di attività politica; la concezione greca della vita politica rendeva la polis, sostiene a ragion veduta Hanna Arendt, una forma d'organizzazione sociale peculiare e liberamente scelta, non una mera forma consociativa necessaria per tenere uniti gli uomini im modo ordinato.
Ma se nell'antichità i greci, per garantirsi questa libertà dal lavoro per partecipare all'attività politica pubblica, usavano gli schiavi nella produzione, nella nostra società moderna, la scarsità, considerato il potenziale tecnico e scientifico applicato alla produzione di beni, non è più fatto immanente e costitutivo della società, ma unicamente condizione sociale imposta da cui è possibile affrancarsi.
Ciò non vuol dire che la scienza e la tecnica attuali siano così immediatamente adattabili ad una società libera, anzi! Vogliamo soltanto affermare che lo sviluppo tecnologico ha collateralmente e forse a sua insaputa, aperto la possibilità di liberarci dalla necessità del lavoro come riproduzione biologica, e di affrancarci da una scarsità che è sempre stata latente nelle comunità primitive.
La scienza e la tecnica, da sempre strumenti di dominio nelle mani di caste militari ed economiche, hanno aperto al proprio interno possibilità alternative di evoluzione sociale, spesso poco indagate, che dobbiamo sviluppare, scegliendo tecniche e concezioni alternative ed appropriate alla realtà sociale in cui si applicano, seguendo le indicazioni interessanti forniteci da Feyerabend.
Possiamo alla fin fine individuare i semi della società ecologica non solo in un processo di crescita delle opposizioni sociali, ma anche nelle potenzialità creative, tecniche e produttive, espresse da parti della società, ma che sono spesso negate e rimosse, se non brutalmente represse dal dominio capitalista.
Dobbiamo scegliere in questo frangente storico: o mettere una pezza qua e una là al disastro ambientale, o approfondire una riflessione ecologica che dalla natura passi alla società, superando quei dualismi cartesiani che hanno tenuto separati per secoli gli elementi di un unico processo evolutivo, che hanno aperto aporie piuttosto che chiuderle in una visione organica.
Parliamo dei dualismi tra natura e società, tra mente e corpo, tra etica ed economia, tra specie e classi, tra Stato e giustizia, tra libertà e necessità.
Agire sul territorio, sulla città, assume a nostro avviso una valenza più forte di qualunque imbellettamento ambientalistico. E riflettere su tali questioni diventa un elemento importante per definire nel prossimo futuro le forme sociali, politiche ed economiche che organizzeranno il cambiamento.