Rivista Anarchica Online
Un futuro diverso?
di Furio Biagini
Quali sono le prospettive di pace in Medio Oriente dopo la vittoria laburista alle ultime elezioni israeliane?
Emerge la possibilità di un ripiegamento per gli integralisti di entrambe le parti in causa.
Il trionfo laburista nelle recenti elezioni politiche israeliane ha suscitato nelle
capitali di mezzo mondo reazioni
entusiastiche e alimentato speranze di una possibile soluzione negoziata della questione mediorientale.
Sicuramente la vittoria del laburistaYitzhak Rabin rappresenta una buona notizia per il processo di pace in
Medio oriente anche se non sarà estremamente facile giungere in tempi brevi ad una
composizione pacifica e
definitiva del conflitto arabo-israeliano. Per il momento Rabin, futuro primo ministro, ha promesso
un'accelerazione del negoziato, il blocco degli insediamenti ebraici nei territori occupati e si è
impegnato non
solo a garantire la sostanziale autonomia agli arabi di Palestina nei territori e nella striscia di Gaza, ma anche
a restituire un giorno parte di quelle terre (escluso il Golan e i territori indispensabili alla sicurezza di Israele).
Mentre il governo di Yitzhak Shamir non offriva nemmeno una modesta autonomia, Rabin al contrario promette
agli arabi di Palestina il controllo sulla vita politica, economica e culturale escludendo naturalmente la
sicurezza, gli affari esteri e il controllo sugli insediamenti ebraici. Non si deve dimenticare che il leader
laburista è comunque anche lui un falco come il suo diretto avversario
Shamir. Considerato insieme a Moshe Dayan l'eroe della guerra dei sei giorni, Rabin fu il ministro della difesa
che ordinò all'esercito israeliano di usare la forza per fermare l'"intifada"; che nel 1982 durante l'assedio
di
Beirut propose di tagliare i rifornimenti idrici ed alimentari alla popolazione civile. Ma è anche il
ministro che
ha concluso importanti compromessi con Siria ed Egitto gettando le basi degli accordi sottoscritti a Camp David
nel 1978 e che insieme a Shimon Peres pose fine nel 1985 alla occupazione israeliana del Libano. Un falco
dunque, ma pragmatico e pronto ad adeguarsi alla nuova realtà internazionale, forse proprio per
questo suo
passato riuscirà a raggiungere una intesa con gli arabi, confermando la tesi che sono sempre i
partiti di destra
o gli uomini in divisa , o comunque con spiccate tendenze autoritarie, che possono chiudere le grandi
questioni
nazionali.
sefarditi e askenaziti Ma un altro dato importante del risultato elettorale,
forse più importante della vittoria laburista, è la disfatta
politica del Likud, il partito del revisionismo sionista, e la fine del suo ruolo storico di esclusivo rappresentante
della popolazione sefardita (gli ebrei di origine mediorientale e nordafricana, di ceto più modesto,
conservatori
e meno disponibili alla modernizzazione). Rabin è riuscito infatti là dove i precedenti
leader laburisti avevano
sempre fallito, conquistare cioè i voti sefarditi. Lo spostamento elettorale delle masse sefardite verso
il Labour,
ritenuto il partito degli askenaziti (ebrei dell'Europa centrale ed orientale, generalmente colti ed ultrademocratici
per tradizione e cultura) segna la sconfitta del modello con cui la destra sionista ha governato per quindici anni
il paese e nello stesso tempo la fine della tradizionale divisione "etnica" tra ebrei sefarditi ed ebrei
askenaziti.
La crisi economica, l'immigrazione massiccia dall'Est europeo, le trasformazioni economiche e sociali hanno
azzerato le differenze e caso mai accentuato le comuni proteste contro la politica economica e il programma
ideologico del governo Shamir del tutto incentrato sull'espansione degli insediamenti ebraici nei territori
occupati e nella creazione di una "grande Israele". Lo Stato ebraico ha ormai, sia per processi interni che
internazionali, un carattere meno sacrale, più laico e non è più neppure la
società spartana e socialisteggiante
dei primi anni. Gli stessi insediamenti collettivistici i kibbutz e i moshav stanno
attraversando una profonda crisi
mentre altri settori produttivi decisamente più moderni e tecnologicamente avanzati hanno conosciuto
invece
uno sviluppo straordinario. L'arrivo di 350.000 nuovi immigrati provenienti dall'ex Unione Sovietica, per la
maggior parte forza lavoro altamente qualificata, ha inoltre aumentato le conoscenze del paese. Tuttavia
malgrado tutte queste potenzialità la situazione economica israeliana versa in uno stato di grave
crisi, la
disoccupazione è ormai vicina al l2%, gli immigrati non riescono a guadagnare il minimo per
sopravvivere e
vi è penuria di case e carenza di servizi, al contempo i prezzi sono aumentati in maniera vorticosa. Il
Likud
perde consensi proprio tra quei settori meno ideologizzati e più colpiti dalla recessione: i giovani, i
nuovi
immigrati, la classe media ed i sefarditi poveri. E l'andamento dei risultati elettorali lo dimostra. A Tel Aviv,
città laica e moderna, i laburisti ottengono 80.000 voti contro i 50.000 del Likud, a Haifa il
Labour ottiene
60.000 voti contro 20.000, mentre a Gerusalemme dove la popolazione conserva forti sentimenti religiosi ed
è più ideologizzata il Likud sorpassa i laburisti. Si deve poi aggiungere che in questa
situazione di grave crisi economica l'intransigenza di Shamir sulla
questione dei territori e degli insediamenti ebraici ha rischiato di provocare la rottura con gli Stati Uniti che non
hanno accordato le garanzie necessarie per la concessione di un prestito di 10 miliardi di dollari indispensabile
a ridare vigore alla paralizzata economia israeliana. Di conseguenza la politica del Likud di voler ad ogni costo
utilizzare gran parte delle risorse del paese soprattutto per finanziare gli insediamenti nei territori occupati e per
assicurare un certo livello di vita ai coloni, è sembrata alla maggioranza degli israeliani illogica e priva
di senso
anche in relazione ai recenti mutamenti internazionali. L'Unione Sovietica per decenni superpotenza alleata dei
nemici arabi non esiste più, e si sono spalancate le porte per quegli ebrei che volevano raggiungere
Israele
consentendo al sionismo un insperato rilancio. Dopo la guerra del Golfo il pericolo iracheno si è
allontanato
grazie anche al contributo dei paesi arabi come la Siria, L'Egitto, l'Arabia Saudita di fatto alleati di Israele in
quella occasione. Decine di paesi hanno riconosciuto o riallacciato relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico
mentre si è affievolita la stessa "intifada" e gli arabi di Palestina hanno momentaneamente rinunciato
a
rivendicare l'indipendenza accontentandosi di una vaga, imprecisa autonomia. Per la prima volta nel paese il
problema della sicurezza è così passato in secondo piano rispetto alla
necessità del risanamento economico
consentendo a Rabin, che prometteva il blocco degli insediamenti, ricontrattazione degli aiuti americani da
investire per immediati interventi economici e ripresa del dialogo con la controparte araba, una brillante
vittoria. Il 23 giugno Israele, unico paese democratico della regione, ha dunque votato per la pace e la
stabilità;
l'integralismo, che trionfa in tutto il Medio Oriente e il mondo arabo, è stato respinto mentre avanzano
le forze
democratiche e progressiste e possiamo auspicarci che ciò possa rappresentare uno stimolo ed un aiuto
per tutti
coloro che, ebrei od arabi, credono in un mondo di giustizia e lavorano per costruire un futuro diverso.
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La FAI dopo la guerra dei 6 giorni / "disarmiamo i generali"
All'indomani della "guerra dei 6 giorni" (giugno 1967), il settimanale anarchico
Umanità Nova (a. XLVII,
n.23. 17 giugno 1967) pubblicava in prima pagina, sotto il titolo "Ora bisogna disarmare i generali", il
seguente "appello della Federazione Anarchica Italiana per una pace sociale in Medio Oriente". Un
documento lucido che - nella sostanza - sottoscriviamo 25 dopo.
La Federazione Anarchica Italiana non ha salutato la vittoria degli eserciti dello Stato di Israele, ma oggi
esulta
per la deposizione delle armi. La distruzione del popolo d'Israele, vaticinata da dittatori e da monarchi medievali
che opprimono e sfruttano ignobilmente le fanatizzate popolazioni arabe, non è avvenuta e non
potrà mai
avvenire, come non l'hanno potuto le barbare legioni di Hitler. Ma la vittoria dei generali dello Stato
d'Israele, poiché la ragione e l'umanità non hanno potuto prevalere per
impedire il sanguinoso scontro delle armi, non deve giustificare un nuovo impiego della forza delle armi per
l'affermazione del diritto e della giustizia. Non deve glorificare la bruta violenza degli eserciti che, vittoriosi
o sconfitti, sempre preparano nuovi conflitti e approfondiscono il solco degli odii che dividono i popoli
fomentati da sordidi interessi privati, di Stati, di chiese. La vittoria di Israele non deve essere quella dei
generali, ma dell'umanità che vuole rinnovare e rinnovarsi. Non
deve consegnare ai rigurgiti del colonialismo imperialista i popoli arabi indifesi, schiacciati, riversando su di
essi quelle "soluzioni finali" che i loro capi si proponevano di riservare ad Israele. I trionfi militari non
devono far esultare i vecchi massacratori dell'OAS in Algeria e in Indocina, i fascisti più
arrabbiati, tutti i compatti esaltatori della "blitzkrieg" (guerra-lampo, n.d.r.) vittoriosa del generale
Dayan,
preso a prestito quale vendicatore dei colonialisti rimasti senza colonie. Per costoro, oltre tutto, battere i
paesi arabi significa vibrare un duro colpo al prestigio della stato Russo in
Medio Oriente e rendere così un servizio a Johnson per la sua guerra personale in Vietnam. Domani
si schiereranno, come già nel passato, contro ogni tentativo di riunire in una moderna Confederazione
arabi ed israeliani per dissodare le aride sabbie del deserto; insorgeranno contro l'affermarsi di una possibile
convivenza dei due popoli su basi sociali nel Medio Oriente e torneranno al razzismo antiebraico, accusando
Israele di fomentare la "sovversione" del mondo arabo. L'opinione pubblica è sincera e spontanea
quando parteggia per il più debole e perseguitato - e Israele pareva
tale all'inizio del conflitto - e si esalta quando Davide atterra Golia. Ma essa ha orrore anche per la strage dei
vinti e per le montagne di morti, uccisi dalle bombe al Napalm in Giordania, e dei villaggi distrutti. Gli anarchici
respingono decisamente ogni idea che si possa ricostruire una convivenza di arabi e ebrei in Medio Oriente
fondata sulla supremazia militare, sugli interessi di Stato e sui miti religiosi. Essi pongono alla base della
loro solidarietà le esemplari realizzazioni sociali del popolo d'Israele, le sue
collettività agricole, i "kibbutz" che, fin dal loro nascere, gli anarchici hanno salutato quale una
conquista del
socialismo libertario. La gioventù che vive ed opera in Israele non è che una piccola
frazione della gioventù ebraica sparsa in tutto
il mondo e che opera per un mondo migliore, disertando le sinagoghe ed i miti religiosi del passato. Il
popolo d'Israele dovrà essere un popolo come tutti gli altri, operoso, intelligente, coraggioso ed aperto
al
progresso sociale: questo sarà il suo genuino segno distintivo, e non più la razza, la fede
religiosa che rende
"santa" ogni guerra, ogni persecuzione, ogni isolamento, ogni aggressione, che offre armi al cieco fanatismo
di altri miti religiosi. Questo è il significato della solidarietà che gli anarchici hanno sempre
dato e daranno in avvenire al popolo
d'Israele, anche in unione con i loro compagni che vivono ed operano nei "kibbutz" o all'estero. Un
messaggio sociale al mondo arabo per aiutarlo nella sua lotta di liberazione dalla schiavitù economica
e
religiosa, ben altamente nobile, è affidato al popolo d'Israele, togliendo di mano ai generali una vittoria
che, in
altro modo, si trasformerebbe in tempi non lontani in sconfitta e causa di nuovi e più terribili
genocidi.
La Federazione Anarchica Italiana.
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