Rivista Anarchica Online
L'altro volto della scoperta
di Ugo Stornaiolo / Maria Teresa Romiti
Europa 1492: l'universo conosciuto è diventato troppo stretto, navi prendono il largo alla ricerca di
nuove terre.
Il sogno espansionistico occidentale si è trasformato sin dall'inizio in un incubo senza fine per milioni
di persone
che non avevano la pelle chiara, né credevano nello stesso Dio dei conquistatori. Ma chi erano, come
vivevano
in cosa credevano quelle popolazioni che ora, entrate nel mito, conosciamo come "popoli del sole", come "figli
del vento e della nebbia"? E i conquistatori, da quali demoni erano spinti, da quali desideri posseduti, da quale
fede sorretti? Dall'impatto sono trascorsi cinque secoli, cinque secoli di etnocidio continuato, di spoliazione,
di espropriazione, di sistematico annientamento fisico e culturale. I conquistatori non si sono fermati di fronte
a nulla: hanno costruito prima una grande nazione, poi una superpotenza che ha imposto la sua egemonia
economico-militare a tutto il mondo. L'incontro-scontro tra gli europei e le civiltà autoctone nei
territori conquistati dagli spagnoli. La croce e la
spada hanno segnato per secoli la qualità di questo rapporto. Questo testo di Ugo Stornaiolo, come
quello di
Maria Teresa Romiti, è stato presentato nell'ambito del ciclo di conferenze, che la libreria Utopia di
Milano ha
recentemente organizzato. La serie completa delle relazioni uscirà in un volume edito a cura della stessa
libreria
- che ringraziamo, insieme ad Elena Petrassi, per la collaborazione
Un'immane
tragedia (di Ugo Stornaiolo)
Il 1992 è l'anno delle grandi celebrazioni, per i cinque secoli trascorsi dallo storico viaggio di
Cristoforo
Colombo. Il clima celebrativo è andato gradualmente a raggiungere il suo culmine. Lo Stato spagnolo,
con la
compiacenza del Primo Mondo e delle repubbliche del Terzo Mondo latinoamericano, evoca ciò che
è stato
chiamato "l'incontro di due mondi", il tutto in chiave di una generosa eredità culturale, donata ai popoli
amerindi, con la loro incorporazione felice alla cultura occidentale-cristiana. Anche l'Italia - per avere dato il
protagonista stesso della vicenda - rivendica la sua partecipazione agli onori, per cui ha organizzato convegni
celebrativi, pubblicazioni e mostre commemorative, discorsi e servizi giornalistici, e conta particolarmente sulla
televisione, per giustificare anche i numerosi miliardi spesi in opere "patriottiche" (fra cui persino autostrade),
che servono, come al solito, per arricchire qualcuno, ma che pagheremo tutti noi. Non che l'anniversario in
sé
non meriti di essere ricordato. Anzi, è l'occasione propizia per focalizzare l'attenzione su un
avvenimento storico
cruciale e su un personaggio importante. Ma disturba l'eccesso di retorica, la ridondanza gratuita, il tono
trionfalistico: tutte cose che finiscono più per tramortire che per informare il pubblico sul reale
significato di
ciò che è avvenuto dopo lo sbarco di Colombo in un'isola dei Caraibi . Il grande evento
è stato denominato dalla
Storia: "la scoperta dell'America". E' obiettivamente bizzarro il concetto di scoprire terre dove
già, da millenni,
altre persone - decine di milioni di persone - sono vissute e hanno sviluppato culture e civiltà. Non si
legge mai,
ad esempio, che le legioni romane avessero scoperto la Spagna; la Storia ci dice, semplicemente, che i Romani
raggiunsero la Spagna e la conquistarono. Così fu anche con gli Spagnoli: essi raggiunsero l'America,
la
conquistarono e la colonizzarono. Mentre c'è chi vuole celebrare la cosiddetta "scoperta",
c'è anche chi non è affatto d'accordo con tale
celebrazione. Si può leggere, ad esempio, che "il 12 ottobre del 1492 fu un giorno di lutto per tutti noi,
popoli
indigeni, poiché allora iniziarono i 500 anni di genocidio, di etnocidio, di evangelizzazione forzata, di
oppressione e di umiliazioni, susseguitisi ininterrottamente fino a oggi". Con queste parole si apre un documento
del 1989, rilasciato dalle popolazioni indie della Colombia. Altre iniziative si sono susseguite da allora,
compreso il grande incontro del luglio 1990, a Quito, nell'Ecuador, con la partecipazione di rappresentanti dei
popoli indi, non solo dell'America latina, ma anche degli Stati Uniti e del Canada, in un totale di oltre 40 etnie.
Da quell'incontro è scaturito un importante documento, "La Dichiarazione di Quito", in cui si fa un
tentativo
di programmarsi il proprio futuro. Ciò può apparire utopico oggi, di quasi impossibile
realizzazione, ma ha un
significato importante: per il passato, si dice nel documento, i popoli autoctoni americani hanno dovuto sempre
subire passivamente le imposizioni dei conquistatori e dei loro discendenti; per il futuro dovranno essere loro
stessi a decidere della propria vita. Queste sono fra le voci che si oppongono alle celebrazioni del "Quinto
centenario", completate da battaglie che, in modi diversi, stanno combattendo quei popoli, fra cui i tentativi di
occupazione delle terre e il ricorso all'ONU. Ma anche in Spagna, in Italia, in Europa non tutte le voci sono
puramente celebrative. Da un paio di anni, ormai, parecchie sono state le iniziative di solidarietà verso
i popoli
sconfitti di America. Giornali e riviste hanno pubblicato interessanti articoli, cercando almeno di capire
onestamente la realtà americana dei passati cinque secoli; si sono moltiplicate le conferenze e i dibattiti,
contribuendo a una visione più attenta della realtà storica scaturita dalla conquista spagnola.
Il grande successo
che ha ottenuto a Milano il lungo e importante ciclo di conferenze organizzato dalla Libreria Utopia (di cui fa
parte questo mio intervento), è una prova dell'interesse generale del pubblico verso la comprensione
di ciò che
realmente accadde dopo lo sbarco di Colombo in una piccola isola dei Caraibi. Ecco il punto: che cosa
accadde realmente ?
Una catastrofe spaventosa Per le popolazioni autoctone americane, l'arrivo
di Colombo fu l'inizio di un'immane tragedia. Già nei
primissimi tempi ci fu la morte violenta di milioni di persone; la scomparsa di un'impressionante
quantità di
popoli; la dispersione e l'asservimento delle etnie sopravvissute. La faccenda della conquista e della
colonizzazione si tradusse, subito, in una strage orribile, infinitamente più grande di ciò che
ha ammesso la
storia impostata eurocentricamente. La popolazione delle Americhe, nel 1500, non era di 13 milioni di abitanti,
come per tanto tempo si credette, o si volle far credere. Oggi nessuno più nega che fossero molti, molti
di più.
Da vari studi realizzati negli ultimi decenni si è appurato che la popolazione del continente americano,
nell'anno
1500 era di 80 milioni. 80 milioni era anche la popolazione dell'Africa, nel 1500, poco inferiore a quella
europea, di 95 milioni. Tre secoli più tardi, nell'anno 1800, la popolazione in Europa si era raddoppiata,
con 190
milioni di abitanti; in Africa, intanto, dove erano penetrati lo schiavismo e il colonialismo, la popolazione si era
ridotta alla metà: 40 milioni. In America, addirittura, e compresa tutta l'immigrazione di europei, era
scesa a
20 milioni, di cui gli amerindi non superavano i 6 milioni. Da qui che, mentre nel 1500 un abitante su ogni 5
o 6 del mondo viveva nel continente americano, nel 1800 la proporzione era diventata di 1 a 45; considerando
i soli amerindi, la proporzione si fa estremamente grave: un amerindio su 150 abitanti del mondo. Detto
altrimenti: nel 1500, in un pianeta di 450 milioni di abitanti, 80 milioni sono amerindi; nel 1800, su 900 milioni,
6 milioni sono amerindi. La catastrofe è ancora più spaventosa quando si considera la potenziale
popolazione
scomparsa: oggi, in tutto il continente americano, gli indi puri sono 50 milioni, in luogo del potenziale miliardo
che lo avrebbe popolato, in un mondo che ha superato i 5 miliardi di abitanti (per chi voglia consolarsi,
c'è stato
un compenso parziale, costituito da 300 milioni di meticci). Certamente non ha senso congetturare come
sarebbero oggi le tre Americhe, se fossero popolate da un miliardo di amerindi; o come sarebbe la
civiltà
derivata dalle culture maya, azteca, incaica. Non esiste una risposta sensata, ma bisogna pur sempre ricordare
che una tale eventualità è stata stroncata brutalmente. Resta comunque un interrogativo
legittimo: come mai poté
prodursi una strage di tali proporzioni?
Proliferazione di epidemie Una tale strage avvenne, in primo luogo,
perché nelle terre conquistate dagli Spagnoli si concentrava la
stragrande maggioranza della popolazione: erano le zone più abitabili, dove l'uomo aveva trovato le
migliori
possibilità per il suo sviluppo e, ovviamente, le più ambite dagli Europei. Anche nel decennio
1570-80, quando
la popolazione americana si ridusse al suo punto minimo (11 milioni di abitanti; 69 milioni di esseri umani
eliminati) il numero degli amerindi che si trovavano sotto il dominio spagnolo rappresentavano l'80% di tutti
gli aborigeni del continente. La popolazione restante, quel 20% di "indi selvaggi" o "indi nudi", come venivano
chiamati, erano sparsi sul 95% del territorio continentale. Questo incontro-scontro fra spagnoli e la
maggioranza dei popoli americani ebbe l'effetto di una congiuntura
tremendamente sfavorevole. E i risultati furono apocalittici. Il calo più forte si produsse nei primi
decenni: in
mezzo secolo un intero continente aveva perso il 90% della sua popolazione, il che costituisce, senza dubbio,
la più immane catastrofe nella storia dell'umanità. Sin dal primo urto, quelle società
chiuse, furono sottoposte
a una serie di prove inattese e violente, che significarono una vera devastazione del loro habitat,
seguite dal
flagello ancora più severo dello sfruttamento umano del lavoro forzato. Altri fattori di quello spaventoso
calo
sono anche, sì, imputabili alla conquista, ma indirettamente. In primo luogo, ci fu un'aggressione
microbica e
virale generalizzata, di cui risultarono vittime molti popoli americani. Erano trascorsi 40 mila, 30 mila anni da
quando dei cacciatori erranti dell'Asia passarono, a ondate, nel continente americano. Dopo un così
lungo
isolamento dal resto dell'umanità, mancavano ai loro lontani discendenti le adeguate difese
immunologiche
contro il vaiolo, il morbillo, la tubercolosi, il tifo, l'influenza, entrati in America con i conquistatori.
Ovviamente, anche gli Spagnoli si contagiarono di nuove malattie, ma per morirne quasi tutti in terra americana,
senza che vi fosse una vera diffusione in Europa (se si eccettua il forte impatto della sifilide, che pare sia una
malattia di origine americana). Gli Amerindi, dunque, furono indeboliti dalla proliferazione di epidemie del tutto
nuove, che falciarono una percentuale elevatissima di popolazione. Alle malattie febbrili e altamente
contagiose, alle eruzioni cutanee, il popolo nudo dei Caraibi reagì con una cura
letale: il bagno gelato. Nella Nueva España (cioè il Messico), l'epidemia di
matlazáhuatl del 1576 uccise, sugli
altipiani, fra il 40 e il 50% della popolazione (intanto, i conquistatori e gli schiavi neri al loro seguito ne
risultarono immuni). Oggi si ritiene che il matlazáhuatl possa essere stato
una banalissima influenza. Calamità
di questo tipo determinarono un forte decremento della popolazione. Ma v'è dell'altro: la conquista
portò
l'allevamento di nuove specie di bestiame, per alterare, di conseguenza, il regime alimentare, provocando
l'aumento del tasso di mortalità infantile. Per i neonati, anche quelli dei ceti più agiati, i
cambiamenti risultarono
fatali (nel caso dei Maya, già in fase calante, questa fu una delle cause principali della loro scomparsa
in quanto
gruppi organizzati di popoli). La durata eccezionalmente lunga dell'allattamento, generalizzata in America,
significava un coefficiente netto di riproduzione di poco più dell'unità. Il tasso di incremento
in molte
popolazioni americane era basso, minore comunque di quello europeo medio, ma era costante. Inoltre, il
raccolto del mais era meno oscillante di quello dei cereali in Europa, per cui non si producevano le oscillazioni
demografiche in cicli di 20 o 30 anni, come fra gli Europei, bensì in cicli molto più lunghi (che
si pensa fossero
addirittura plurisecolari), legati all'alternanza fra l'esaurimento e la ripresa produttiva del mais. Sembra che le
società americane con maggiore densità di popolazione avessero raggiunto - sfortunatamente
proprio all'epoca
a cavallo dei secoli 14°/15° - la loro punta massima di espansione, e pertanto di fragilità. Si trovavano,
quindi,
in quella fase in cui doveva prodursi un calo demografico; la conquista contribuì ad accelerare e a
rendere
drammatico un decremento che si sarebbe potuto contenere entro limiti naturali di equilibrio, e invece
mancò
poco per l'annientamento totale della popolazione del continente. Tutte queste cose avvennero in un processo
durato decenni, e non spiegano il crollo delle varie civiltà americane - aventi popolazioni numerose,
bene
organizzate e combattive - di fronte a sparuti manipoli di conquistatori.
Il crollo dell'impero Inca Da secoli ormai ci si pone questa domanda, che
lascia sempre perplessi: come mai è stato possibile che delle
culture tanto avanzate, come furono quelle mesoamericane e quelle andine, si dissolvessero sotto l'attacco di
piccole bande di forestieri? Il caso degli Inca (senza dubbio la più grande civiltà autoctona
americana) è quello
più emblematico, perché se gli Aztechi furono sconfitti dopo mesi di guerre, con centinaia di
migliaia di morti,
l'Impero incaico cadde, invece, nel corso di un solo pomeriggio. Il Tahuantinsuyu (questo era il nome
dell'Impero, e significa "le quattro regioni insieme") copriva un territorio di 2 milioni di chilometri quadrati,
dal sud della Colombia fino al nord dell'Argentina e metà del Cile, compresi i territori abitabili
dell'Ecuador,
del Perù e della Bolivia. Nel Tahuantinsuyu vivevano 15 milioni di persone. Tale immenso Impero (si
tenga
conto dell'epoca), che si era formato con la sottomissione di centinaia di popoli diversi, e che funzionava con
precisione matematica, fu conquistato da una banda di 180 avventurieri, capeggiati da Francisco Pizarro.
È vero
che gli Spagnoli avevano a loro vantaggio le spade metalliche, le armi da fuoco, gli elmi e i cavalli, elementi
questi che paralizzavano gli indigeni con terrore religioso, provocando in loro il sentimento di trovarsi contro
degli esseri invulnerabili. Ma anche cosi, la differenza numerica era talmente iperbolica che, con il solo
avanzare, l'oceano quechua avrebbe sommerso la goccia degli invasori. La risposta all'incredibile disfatta va
cercata altrove, e precisamente nella struttura organizzativa piramidale: paradossalmente, fu proprio la perfetta
organizzazione incaica ad autodistruggersi. Tutto si consumò in poche ore, a Cajamarca, il 16 novembre
del
1532. E' utile fare un flashback che, per necessità, sarà estremamente sintetico: nel 1526/27 era
morto a Quito
l'inca Huayna Capac colui che aveva portato il Tahuantinsuyu alla maggiore espansione: governando da Quito,
egli aveva affidato al figlio Huascar la sede del Cuzco. Poiché Quito era diventato un centro di potere
in
concorrenza con il Cuzco, Huayna Capac aveva deciso di dividere, nel suo testamento, l'Impero, lasciando a
Huascar le regioni del Sud e ad Atahualpa quelle del Nord. La pace durò quattro o cinque anni, dopo
di che i
due fratelli si combatterono a lungo e sanguinosamente (si parla di centinaia di migliaia di morti); finì
per
prevalere Atahualpa, e il Tahuantinsuyu era in procinto di riunificarsi. Atahualpa, ferito a una gamba, si
concedeva un periodo di cure e di riposo presso una sorgente di acqua sulfurea, non lontano da Cajamarca,
quando fu informato dell'arrivo di uomini barbuti, sbarcati a Túmbez da grandi case galleggianti. Non
si
preoccupò di difendersi (per apatia, dopo la stanchezza della guerra, dicono alcuni storici; per errore
di
valutazione dell'insignificante spedizione, oppure per semplice curiosità di conoscere quella strana
gente, dicono
altri); fu addirittura tanto cortese da offrire ai forestieri ospitalità a Cajamarca, facendo sloggiare
appositamente
gli abitanti della città. Alcuni ufficiali spagnoli fecero visita all'inca Atahualpa, per invitarlo a
incontrare il loro capo, Francisco
Pizarro. Atahualpa accettò, giunse a Cajamarca con il suo seguito di migliaia di cortigiani e di soldati.
Gli
avventurieri, nascosti e in assetto di guerra, lo attendevano: l'artiglieria, la cavalleria, la fanteria erano pronte
a intervenire. Pizarro mirava a catturare vivo Atahualpa e, con un trucco perpetrato da un sacerdote di nome
Valverde, ci riuscì. Nel momento stesso in cui l'inca è catturato, prima che potesse avere luogo
una battaglia
vera e propria, le armi buttano fuoco, come spinte da una forza magica. Il caos è indescrivibile, ma
soltanto da
parte dei Quechua; gli Spagnoli, invece, lucidamente scaricano i loro archibugi, mentre l'artiglieria fa strage
della massa compatta di uomini, donne e bambini; le cariche dei cavalli atterriscono la folla. Non avendo potuto
impedire la cattura della persona divina del loro inca e padrone, i Quechua si sentirono incapaci di difendere
se stessi. La struttura verticale e totalitaria del Tahuantinsuyu era risultata più pregiudiziale delle armi
dei
conquistatori. La figura dell'inca costituiva il vertice verso il quale convergevano tutte le volontà in
cerca di
ispirazione e vitalità; l'asse attraverso il quale era organizzata la società, e dal quale
dipendevano la vita e la
morte di ogni persona, dal più alto funzionano al più umile contadino. Così, non appena
venne catturato l'inca,
nessuno seppe come agire, e ognuno fece l'unica cosa che poteva fare con eroismo, senza rompere i mille
tabù
e precetti che regolavano l'esistenza: si lasciò uccidere, accettando il proprio destino, confuso come era
ormai,
senza più una guida. Centinaia e centinaia di persone furono pugnalate o squartate, senza opporre
resistenza,
in quel triste pomeriggio a Cajamarca perché non erano più capaci di prendere le proprie
decisioni, di agire con
un certo grado di indipendenza, in quella situazione del tutto nuova che si era presentata. Quei 180 spagnoli,
invece, sapevano benissimo ciò che andava fatto. Ecco la differenza - più che nel numero o
nelle armi - in
questo scontro fra due civiltà, entrambe violente, ciascuna a suo modo. Perché anche la
civiltà incaica era stata
abbastanza aggressiva da poter consolidare un grande Impero schiacciando senza compassione ogni resistenza
dei numerosi popoli che dominò, ma in quella società, piramidale e teocratica, l'individuo niente
contava e,
virtualmente, non esisteva. Collettive e anonime erano state tutte le grandi opere, come lo spostamento, per
grandi distanze e ad elevate alture, dei giganteschi lastroni di pietra di Macchu Pichu o della fortezza di
Ollantay; come il trasporto dell'acqua attraverso la cordigliera, mediante ripiani sulle falde scoscese dei monti,
che ancora oggi rendono possibile l'irrigazione in luoghi desolati; o come la costruzione di quelle strade, sempre
diritte nonostante la geografia infernale, che univano regioni separate tra loro migliaia di chilometri. La
religione statale strappava all'individuo ogni sembianza di volontà, e coronava le decisioni
dell'autorità con
l'aura del mandato divino. Così, il Tahuantinsuyu si era convertito in un laborioso, efficiente e stoico
alveare.
Era la religione, infatti, più della forza delle armi, a rendere possibile il mantenimento di una
docilità metafisica
della gente nei riguardi dell'inca. Perciò, di fronte a categorie che non erano state preventivate, il
Tahuantinsuyu
risultò fragile.
Affrontare l'inatteso Si trattava di una religione
"politica", la quale, da un canto, convertiva la gente in diligenti servitori e, dall'altro,
era capace di accettare come dei minori tutte quelle divinità dei popoli che man mano conquistava. La
religione
incaica era meno crudele di quella azteca, dove il sacrificio umano era un'istituzione, ma in realtà
risultava più
oppressiva, in quanto riusciva ad assicurare l'ipnosi e la fede collettive, sulla base del potere temporale dell'inca.
Non è messo in discussione il genio organizzativo dell'Incario; anzi, è impressionante constatare
come, nel lasso
di un solo secolo, dal nucleo tribale del Cuzco, si giunse a creare un grande Impero, comprensivo di tantissimi
popoli e culture, dai costumi diversi che parlavano centinaia di lingue e migliaia di dialetti. Ciò non
poteva
essere un prodotto esclusivo dell'efficienza militare; lo era anche dell'abilità di persuadere i popoli vicini
ad
aggregarsi con la loro cultura al Tahuantinsuyu (infatti, prima di intervenire militarmente, l'inca proponeva
l'"alleanza"). Una volta che quelle genti - pacificamente o sotto la forza delle armi - passavano a fare parte
dell'Impero, venivano immediatamente assorbite dal meccanismo burocratico, come nuovi servitori, in un
sistema che distruggeva la vita individuale. Sia per prevenire le ribellioni, sia per estinguerle, esisteva un
sistema efficacissimo, quello dei mitimac (gli Spagnoli lo chiameranno "mitimaes"
e lo applicheranno anche
loro con successo). Mitímac era il trasferimento di intere popolazioni in luoghi lontani,
a nuove terre da
dissodare. La gente, smarrita e disorientata in quell'esilio, assumeva un atteggiamento passivo e di assoluto
rispetto. Una grande civiltà come quella incaica fu in grado di combattere contro gli elementi naturali
e di
difendersi dai disastri, e imparò a consumare razionalmente ciò che produceva,
immagazzinando le riserve per
gli eventuali disastri futuri. La cultura incaica è stata, infatti, fra le pochissime dove si riuscì
ad abolire la fame:
i 15 milioni di sudditi mangiavano tutti. La cultura incaica fu anche in grado di infiltrarsi, lentamente e con cura,
nel campo della conoscenza, inventando solo ciò che conveniva e distruggendo ciò che
impediva il progresso,
secondo piani freddamente programmati. Un esempio di "distruzione" culturale, per quanto si desume da alcuni
studi, è quello della scrittura (che qualche popolo delle Ande pare avere conosciuto), come anche di
qualsiasi
altra forma di espressione capace di portare allo sviluppo di un orgoglio individuale o una immaginazione
ribelle. E se nella società incaica si adoperavano i quipu (le cordicelle annodate, che
servivano, quanto meno,
per lo scambio di informazioni), ciò era un'esclusiva prerogativa della classe dominante, per il
coordinamento
preventivo di uomini e materiali, da dislocare nei più remoti angoli del Tahuantinsuyu, e per le
conseguenti
verifiche dei consuntivi. Non era in grado la civiltà incaica di affrontare l'inatteso, come quell'assoluta
novità
rappresentata da un uomo armato su un cavallo. E quando, passata la confusione iniziale, i capi incaici
organizzarono la resistenza contro gli Spagnoli, era ormai troppo tardi. Ciò per due ragioni: la prima
è che
nuove ondate di avventurieri, bene armati e seguiti da legioni di indi a loro aggregati, erano giunti nel
Tahuantinsuyu; la seconda ragione (ma forse, in realtà, l'unica che conta in ultima analisi) è che
il complicato
macchinario regolatore dell'Impero si era inceppato. Morti Huascar e Atahualpa, con loro scomparirono gli
ultimi sapa-inca (cioè "inca supremi") del Tahuantinsuyu; nessuno dei loro figli
poté assumere la carica con
tutti i crismi della tradizione. Seguirono, sì, altri inca nella successione, ma designati dai conquistatori
spagnoli.
Alcuni seppero anche ribellarsi e tentarono la riscossa, ma senza più riscuotere, da parte dei sudditi,
quel timore
panico che era servito per rimanere uniti e ubbidienti. Erano tornati a costituire dei popoli chiusi, proprio come
furono prima delle invasioni incaiche, e con in più gli Spagnoli che non smettevano di terrorizzarli.
Intanto,
quando Atahualpa era prigioniero (lo fu per dieci mesi, prima di venire strangolato), carovane dei più
fedeli,
cariche di oro, continuavano a offrire ai conquistatori tutto quanto erano riusciti a racimolare per pagare il
riscatto del loro inca. Contemporaneamente, alcuni capi dei Quechua e di altri popoli, cercavano di impedire
il definitivo sfaldamento dell'antico Impero; ma numerosi erano ormai gli individui e le intere comunità
che si
sottomettevano agli Spagnoli, e ciò per paura, per risentimento verso gli antichi padroni o per una
molteplicità
di altre ragioni.
Con la spada e la croce Qui la Spagna aveva vinto la partita, così
come l'aveva vinta in altri luoghi del continente: gli Aztechi (che
insieme agli Inca rappresentano le due più potenti società precolombiane) erano caduti dieci
anni prima, sotto
Hernan Cortés, dopo l'assedio e la distruzione di Tenochtitlan, un'efficiente e incantevole città
di 400.000
abitanti. Nella loro caduta, gli Aztechi trascinarono con sé tutta la Confederazione dei Nahua, o Mexica,
cui
appartenevano. Altre confederazioni importanti, fra cui quella dei Chibcha dell'attuale Colombia, e
un'infinità
di popoli, più o meno isolati, venivano travolti per tutto il continente. Questa vittoria totale lasciava
ferite tanto
profonde, che neppure oggi, quasi cinque secoli più tardi, si sono rimarginate. Non si tratta di
un'esagerazione
retorica: quegli spadaccini avidi e implacabili, che anche fra di loro si combattevano selvaggiamente, stavano
dando inizio a una vera e propria "cultura" del tutto nuova, dove qualcosa di esotico germinava. All'uomo che
portava la spada si univa un altro tipo di conquistatore, armato della croce, e le ferite che quest'ultimo infliggeva
erano ancora più micidiali di quelle provocate dal primo. Con la spada e la croce completandosi a
vicenda, si
inaugurò un regime di ingiustizie e di soprusi, nell'ambito di uno spazio proprio, dove non era possibile
essere
governati né controllati dal potere lontano della Madre Patria. Ciò dette luogo allo sviluppo di
una sorta di valori
individuali e sovrani, di cui il mondo latinoamericano non si è mai più potuto liberare. Questa
continuità
culturale (su cui la cattiva coscienza non ha permesso di approfondire abbastanza) spiega molto di ciò
che
avviene oggi nel mondo latinoamericano. "Quando fui posto a governare Chaluc Xulub Chen, ancora
non erano venuti gli Spagnoli in questa terra dello
Yucatan. Io ero il signore di quella contrada [...] quando giunse il nostro signor Adelantado nell'anno 1519.
Noi lo ricevemmo con parole di pace e demmo tributi, rispetto e cibo al capitano degli Spagnoli. [...] Al loro
arrivo portammo dei doni, affinché fossero contenti e non entrassero su tutta la nostra terra. E invece,
fin dal
primo momento, fecero tutto il giro, e per tre volte devastarono la terra di Maxtunil". Queste sono
le parole di sconcerto e sorpresa di un capo maya, di nome Ah Nakuh Pech, nello sperimentare la
violenza gratuita dell'adelantado, il quale altri non era che Hernan Cortés. Prassi della
conquista fu all'inizio,
sempre, il bagno di sangue. Solo in seguito, a poco a poco, con i territori conquistati trasformatisi in colonie,
i colonizzatori cercarono i metodi più efficienti di repressione, per spremere dai popoli sottomessi il
massimo
profitto possibile. Nel clima di opinione prevalente dell'epoca, il grande tema dibattuto dai teorici e dai teologi
riguardava la vera natura degli indi, la loro capacità di vivere alla maniera degli Spagnoli e di accogliere
la fede
cristiana. Con il progredire della conquista, i rapporti razziali divennero un problema di capitale importanza,
poiché il trattamento che i conquistatori concedevano ai conquistati, e le leggi ideali per governarli,
dipendevano dal concetto, approssimativo, che gli Spagnoli si facevano sugli aborigeni. In seguito si sarebbero
sviluppate teorie più sottili, moderate e realistiche; ma, intanto, la maggioranza dei colonizzatori,
durante il 16°
secolo, tendeva a polarizzare la propria opinione, considerando i nativi o come "nobili indi" o come "cani
rognosi". Bartolomé de las Casas è l'esempio di quelli che difendono gli indi; lo fa in modo
paternalistico, è
vero, ma bisogna tenere conto della sua condizione di religioso e dell'epoca. Egli dichiara: "Tutte queste
universe e infinite genti creò Dio le più semplici, senza malizia né doppiezza.
Ubbidienti, fedelissime ai loro
signori naturali e ai cristiani ai quali servono, sono sommesse, pazienti, pacifiche e virtuose. Non sono
attaccabrighe, rancorose né vendicative. Inoltre, sono più delicate dei principi, e muoiono con
facilità a causa
del lavoro o delle malattie. Sono anche genti pauperrime, che non possiedono né vogliono possedere
beni
temporali. Certamente, queste genti sarebbero le più beate del mondo, se soltanto conoscessero il vero
Dio."
Oziosi e viziosi Con tutti i suoi limiti, questo parere di Bartolomé
de las Casas risulta indubbiamente preferibile a quello della
scuola rivale, che vede gli indi alla stregua di bestie da sfruttare. Fra i suoi rappresentanti c'è Gonzalo
de
Oviedo, storico ufficiale delle Indie, che considera gli aborigeni "naturalmente oziosi e viziosi, malinconici,
vigliacchi e, in generale, genti bugiarde e fannullone". Seriamente convinto, scrive Oviedo: "I loro matrimoni
non sono un sacramento, ma un sacrilegio. Sono idolatri, libidinosi e sodomiti. Il loro maggiore desiderio
è
quello di mangiare, bere, adorare idoli pagani o commettere oscenità bestiali. Che cosa si può
aspettare da gente
i cui crani sono così grossi e duri, che gli spagnoli devono fare attenzione, durante il combattimento,
di non
colpirli sulla testa, se vogliono evitare che le loro spade si ammacchino?". Alle disquisizioni dei teorici e
dei teologi - che servono da giustificazione a ogni azione dei colonizzatori - si
aggiunge un elemento ancora più decisivo: è il nascente capitalismo europeo, avidissimo
divoratore di oro,
argento e altri metalli, ma anche vorace dei frutti delle lontane terre. Perciò, quasi subito dopo il
completamento
della conquista, vengono applicati nel continente metodi tipicamente schiavistici o tipicamente feudali, secondo
i casi concreti di ogni territorio e di ogni prodotto. Contemporaneamente, le contraddizioni interne di un paese
così ricco di dinamica sociale, come fu la Spagna di quell'epoca, si riflettono nelle diverse posizioni che,
nei
confronti dell'America e dei suoi aborigeni, assunsero la Corona, i nobili, la Chiesa, i gesuiti, i mercanti giunti
nelle colonie, con obiettivi diversamente enunciati - "fare fortuna", "conquistare la gloria", "affermare il
dominio del re", "difendere la fede cattolica" - ma che, in fondo, volevano significare la stessa cosa: sfruttare
il sangue e il sudore degli indigeni. Dietro gli uomini che portano la spada e montano a cavallo, simboli e fattori
della superiorità militare, giungono a frotte i "propagatori della fede", i frati che benedicono il bagno
di sangue
e che faranno di tutto per estirpare l'"idolatria", ed estinguere così la cultura indigena, sostituendola con
quella
euro-cristiana: le chiese sorgono dappertutto; i secolari nomi nahua, maya, quechua, aymarà, di
città e di luoghi
geografici, vengono rimpiazzati con devoti nomi cattolici. Si mettono a punto termini giuridici come
encomienda, encomendero, encomendado. Encomienda significa
"commessa", e corrisponde all'insieme di
diritti e di doveri di tipo feudale concessi, all'epoca della riscossa contro gli arabi, a un adelantado
(cioè un capo
autonomo in una spedizione di reconquista) e riconosciuti poi dal re di Spagna ai conquistatori
in terre
americane e ai loro discendenti, nell'ambito delle comunità coloniali. L'encomienda deriva
dalla volontà di
legalizzare e, quindi, di disciplinare e umanizzare una realtà di fatto. In pratica, risulta nel
repartimiento
(distribuzione) delle terre, compreso un numero determinato di indi per lavorarla. L'encomendero,
cioè il
padrone, ha poteri illimitati sugli encomendados a lui assegnati (il cui numero dipende dalla sua
posizione
gerarchica: ad esempio 8 indi, se è un soldato a piedi; 40, se è un caballero). L'
istituzione dell'encomienda fu
subito attaccata dai teologi domenicani, e già nel 1542 condannata da nuove leggi; ma resisterà
ancora per
duecento anni, per essere abolita nel 1724, a sostituita con l'hacienda. Questa non fa altro che
perpetuare le
storture dell'encomienda, fra cui la proprietà di fatto degli esseri umani che vi abitano.
Di questa continuità, che
porta fino all'epoca presente, può essere utile fornire un esempio specifico di ciò che è
avvenuto in Ecuador.
Nell'ambito dell'hacienda esisteva un'istituzione chiamata huasipungo. Letteralmente
in lingua "quichua", cioè
il quechua del nord, huasi pungo significa "porta di casa"; ma si riferisce al pezzo di terreno che
veniva
concesso, arbitrariamente, dal latifondista al contadino e che, sempre arbitrariamente, gli poteva essere tolto.
Per questa gentile concessione, il contadino era obbligato a fornire lavoro gratuito nelle terre padronali per un
certo numero di giorni settimanali, oltre a consegnare una parte del proprio raccolto, più tributi vari.
Ebbene,
il huasipungo fu abolito nel 1964, e i contadini indi furono dichiarati "indipendenti", con risultati
ancora più
disperati, perché, all'eliminazione del huasipungo non si crearono istituzioni né
strumenti alternativi, e con i
contadini lasciati a subire gli stessi arbitri di prima, senza potere neppure più contare sul pezzetto di
terreno.
Esistono numerosi esempi del genere, che non fanno che ribadire quanto si è detto su quella nuova
"cultura"
scaturita dalla conquista, basata su un regime di ingiustizie e di soprusi, e da cui il mondo latinoamericano, dopo
quasi cinque secoli non si è potuto liberare. Tale "cultura", di marca occidentale-cristiana, non ha
sostituito
quelle precolombiane autoctone (che, nonostante tutto, sono riuscite a sopravvivere): vi si è solo
sovrapposta,
con la complicazione che i due tipi culturali risultano perfettamente antagonisti, e difficilmente coesistono,
divisi fra loro dallo sfruttamento e dalle discriminazioni.
Progresso e tradizione indigena I paesi dell'America latina restano
perciò quell'agglomerato artificiale di due raggruppamenti culturali, che
divergono nei costumi, nelle tradizioni, nelle lingue, e il cui unico denominatore comune è stato quello
di vivere
insieme, senza però sapere gli uni degli altri. Le immense novità portate dagli Europei finirono
per beneficiare
soltanto una ridottissima minoranza. Alla grande maggioranza toccò invece la parte più negativa
della conquista,
con il proprio contributo di servitù e sacrifici, di miseria e povertà, il tutto per consentire la
prosperità e la
raffinatezza delle élite occidentalizzate. Di notevole interesse è ciò che dice Mario
Vargas Llosa (che quando scrive appare tanto diverso dalle sue
posizioni politiche): "Uno dei nostri peggiori difetti [...] è credere che la nostra miseria ci sia stata
imposta
da fuori, e che altri, ad esempio i conquistadores, restano sempre i responsabili dei nostri problemi. Essi furono
i nostri antenati, che giunsero nelle nostre terre e ci dettero i nomi e la lingua che parliamo. Ci trasmisero
anche l'abitudine di responsabilizzare il demonio di tutte le nostre malvagità. E invece di correggere
ciò che
essi ci lasciarono, al fine di migliorare i rapporti con i nostri compatrioti indigeni, mescolandoci e
amalgamandoci con loro, e di formare una nuova cultura, come una specie di sintesi del meglio delle due
componenti, noi, i latinoamericani occidentalizzati, abbiamo conservato le peggiori abitudini dei nostri avi,
comportandoci con gli indi del 19° e del 20° secolo nella stessa maniera come si comportarono gli Spagnoli
con gli Aztechi e con gli Inca, e talvolta peggio. Dobbiamo ricordare che in paesi come il Cile e l'Argentina,
durante la repubblica (nel 19° secolo) e non durante la colonia, le culture native furono sistematicamente
sterminate. Nella selva amazzonica e nelle montagne del Guatemala lo sterminio continua". Tutto
questo è assolutamente vero: nei paesi latinoamericani è rimasta la mentalità dei
conquistatori, nonostante
la pia e ipocrita indignazione retorica di tanti uomini di lettere e politici. Soltanto dove la popolazione autoctona
era trascurabile, o dove gli indi sono stati liquidati, si può parlare di società integrate. Uno dei
casi più penosi
della storia latinoamericana è quello dell'Argentina, nel 19° secolo. Domingo Faustino Sarmiento,
presidente
dal 1868 al 1874, fu un uomo di cultura e un fiero avversario alla tirannia del dittatore Juan Manuel Rosas (dal
1835 al 1852). Ma Sarmiento era anche convinto che soltanto tramite un radicale processo di
"occidentalizzazione" fosse possibile ottenere un'Argentina moderna. Ciò presupponeva l'eliminazione
di tutto
quello che non era occidentale, ed egli, infatti, considerò la tradizione indigena come un ostacolo al
progresso
del paese, fornendo anche degli argomenti morali e intellettuali per giustificare la necessità di eliminare
gli indi.
Coerentemente con tale impostazione, gli indi furono quasi del tutto sterminati in Argentina, per far si che in
loro luogo giungessero le ondate di immigranti europei. Questa scelta tragica è oggi ancora viva nella
psiche
degli Argentini, per l'impossibilità di riempire il vuoto lasciato dalla distruzione del proprio passato
storico. Nei
paesi dove gli aborigeni sono rimasti - cioè la maggior parte dell'America latina - il passato storico
c'è, ma resta
la discriminazione, talvolta allo stato inconscio, ma sempre netta e sensibile. Perché non è
possibile nascondere
l'enorme divario economico esistente fra le due comunità, le due culture. I contadini indi vivono ancora,
per la
stragrande maggioranza, in condizioni cosi primitive, da rendere impossibile la comunicazione con i concittadini
occidentalizzati. Solo quando vanno in città hanno la possibilità di mescolarsi con loro. Il
grande dilemma per
gli indi è fra l'integrarsi o meno alla cultura dominante. Facendolo, si risparmierebbero
un'infinità di miserie,
ma al costo di rinunciare ai propri valori: cultura, lingua, credenze, tradizioni, costumi. Assumere la cultura dei
loro antichi padroni non è, in fondo, difficile, e molti indi hanno saltato il varco: basta una generazione,
dice
Vargas Llosa, per diventare meticci, assimilarsi al mondo occidentale e non essere mai più indi. Ma ve
ne sono
ancora tanti che - consciamente o inconsciamente - non accettano un tale compromesso: che mantengono la loro
posizione intransigente; che lottano per conquistarsi il rispetto dei propri diritti, come lo dimostrano le
"contro-manifestazioni" e le azioni in atto, moltiplicatesi in questo quinto centenario del viaggio di Colombo.
Bibliografia
- Abya-yala - "Declaración de Quito: resolución del Encuentro Continental del Pueblos
Indigenas", in
Abya-yala n. 15, Quito lug-set 1990. - Abya-yala - "Manifiesto. 500 años de
agresión, 500 años de resistencia", in Abya-yala n. 22, Quito lug-set 1991. -
Chaunu Pierre - L'Amérique et les Amériques - Paris 1964. - Corbellini
Gilberto - "Morbillo contro gli indios", in l'Unità, Roma 11-2-1992. - Iaccio Pasquale
- "Un invasore chiamato Colombo", in Il Mattino, Napoli 15-11-1990. - Stornaiolo Ugo -
Anatomia de un Pais Latinoamericano: el Ecuador - Quito 1988. - Stornaiolo Ugo - La
civiltà incaica - Milano 1975. - Tricontinental - "Il colonialismo e la popolazione in America
Latina", in Bollettino "Tricontinental",
ediz. italiana n. 32, Milano 1968. - Vargas Llosa Mario - "¿Buscando culpables?", in
Abya-yala n. 20, Quito gen-mar 1991. |
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Quelle società senza stato
(di Maria Teresa Romiti)
La scoperta di nuovi paesi è stata sempre l'incontro con cose sconosciute e diverse. I racconti dei
paesi lontani,
fin dall'antichità, riportano di animali favolosi, di personaggi strani, di usi e costumi delle popolazioni
incontrate
come incomprensibili. Non per nulla "barbaro" venne coniato dai greci per indicare le popolazioni oltre i
confini.
Poche volte, però, lo shock culturale è stato così ampio come la scoperta dell'America,
il Nuovo Mondo. Non
è stato solo trovare piante ed animali sconosciuti e strani, ma soprattutto l'incontro con l'uomo. Per gli
europei,
una volta accertato che il continente scoperto non era una parte dell'Asia, il problema maggiore è stato
cercare
di trovare una collocazione agli uomini che lo abitavano.
Da dove venivano, visto che non erano conosciuti nell'antichità e la bibbia non li citava? Come si
potevano
catalogare i loro usi e costumi? L'incomprensione è stata la regola per tutta la storia degli incontri nel
Nuovo
Mondo. Perfino i grandi imperi dell'area messicana ed andina, in fondo più leggibili per gli Europei,
sono stati
solo mistero e incapacità a comprendere. Ma molto peggio è stato l'incontro con le popolazioni
dell'America
del Sud, con le popolazioni amazzoniche e con quelle dell'America Settentrionale. Un problema che non
è
rimasto legato solo ai primi incontri di quasi cinquecento anni fa, ma che è continuato fino ai giorni
nostri, riproponendosi
ogni volta che s'incontrava una nuova popolazione.
Che avevano di così strano questi popoli? Di così incomprensibile da essere sempre alieni per
gli Europei?
Pari dignità alle culture diverse "Uomini senza Dio, senza legge,
senza re" la frase, coniata dai primi viaggiatori europei e ripetuta nel corso del
tempo, segna la diversità di quelle popolazioni e l'atteggiamento dell'Europa di fronte a loro. E' il segno
di un
impatto di struttura che ha colpito il Vecchio Mondo: la scoperta di società che per essere così
diverse non era
possibile classificare, comprendere o sistemare in alcun modo. E la risposta europea è stato il tentativo,
per altro
in buona parte riuscito, di cancellare la diversità riconducendola ai propri schemi sia con la distruzione
vera e
propria, cancellando con il genocidio, il massacro, spingendo lontano dai loro territori le popolazioni indigene,
sia con l'etnocidio, cancellandone le culture, incorporandole, riportandole alla propria.
Anche l'intellighenzia del tempo, che si pose problemi che si possono definire di antropologia ante-litteram, non
riuscendo a capire, non fece altro che riportarle al mito. Gli studi, le osservazioni, le descrizioni dei viaggiatori
e i commenti degli intellettuali oscillano infatti sempre tra due miti: il mito del "selvaggio" barbaro, incivile,
forse non del tutto umano, certo primitivo, ladro, pigro e bugiardo, in una parola inaffidabile ed incredibile,
buono solo per essere cancellato e il mito del "buon selvaggio" l'uomo tutta natura, nobile perché non
ancora
contaminato dalla civiltà, quindi puro, buono, non corrotto, innocente come un bambino, ma nello stesso
tempo
non capace come un bambino. I due miti, anche se uno di segno negativo e l'altro di segno positivo, si situano
sullo stesso piano, in ambedue ciò che viene escluso, per definizione, è la possibilità
che esista una cultura
indigena, che esista la civiltà per queste popolazioni. Viene così esclusa la possibilità
di un confronto paritetico,
di poter imparare qualcosa da questi popoli e soprattutto si rifiuta di riconoscere che queste culture abbiano una
loro storia, che siano il risultato, per quanto diverso e in base ad altri valori, di uno sviluppo altrettanto lungo
e altrettanto degno.
Un nodo non risolto, un approccio che continuerà nel tempo, tanto da permeare buona parte
dell'antropologia,
anche in anni non molto distanti dai nostri. Un atteggiamento comune anche oggi, se non tra gli studiosi, tra la
maggior parte delle popolazioni occidentali. Il problema è che riconoscere pari dignità ad
una cultura diversa, soprattutto quando la diversità è radicale,
significa riconoscere che tutte le culture, compresa la propria, sono basate su scelte arbitrarie, su sviluppi diversi
e non obbligati e che quindi anche i nostri valori non sono dati, ma possono essere posti in discussione. Significa
analizzare la propria cultura nelle sue pieghe nascoste, scoprire le regole del gioco, quelle meta-regole che
generalmente non appaiono e non si mettono in discussione, che facendo parte del "non-detto" non vengono
neppure considerate regole e che della cultura costituiscono i fondamenti più profondi, gli assiomi. Dare
pari
dignità alle culture diverse, studiarle secondo questo approccio non è solo una ricerca fine a
se stessa, la ricerca
di modelli più o meno ben costruiti, più o meno reali, ma la comprensione
dell'arbitrarietà delle regole culturali,
la scoperta anche dei meccanismi che sottendono la propria cultura. D'altra parte non accettare la pari
dignità
delle altre culture e degli altri valori, usare la propria cultura come unica unità di misura per tutte,
cancella il
confronto, non pone problemi di discussione sulla propria e apre la strada all'omologazione o al tentativo di
soppressione di quelle società che con la loro presenza rendono evidente ciò che non si vuole
ammettere.
Dire che le culture amerindie erano diverse da quella europea non significa certo sostenere che fossero tutte
uguali, anzi. Ogni cultura nativa era a se stante, soggetta a cambiamenti nel tempo e nello spazio. Cercare di
ridurre tutto ad un modello sintetico sarebbe fuorviante. È anche vero che fra le culture amerindie
esistevano
alcuni punti di contatto, in linea generale, gli scambi erano continui, c'erano le stesse differenze e similitudini
che si potevano trovare tra le antiche culture del Vecchio Mondo.
Escludendo gli imperi dell'area andina e messicana, il primo e più importante punto di similitudine fra
le culture
amerindie si situa nel sociale, cioè nel diverso modo di porsi rispetto al potere.
"Senza re" le definirono subito i primi viaggiatori, notando immediatamente la differenza più eclatante,
cioè
"senza Stato", come le ha definite una certa antropologia, o meglio "contro lo Stato".
Società acefale, senza capi o, per essere precisi, società in cui la "chieftainship" (1) non
comanda, la società non
si struttura secondo la forma comando-obbedienza. Ciò che manca è la possibilità della
coercizione da parte di
organismi accentrati.
Se tutte queste società non ammettevano lo Stato, alcune avevano però forme di stratificazione
gerarchica,
come, per esempio, le società dell'Area del Nord ovest dell'America Settentrionale o quelle caraibiche,
ma anche
in questo caso la stratificazione, imperniata sulla parentela e sulla discendenza, non presentava la struttura
statuale.
Quindi società con "capi" che non comandavano e che potevano far leva solo ed unicamente sul proprio
prestigio e sulla saggezza delle proprie decisioni per poter sperare di essere seguiti dal resto del gruppo. Non
a caso spesso la parola "capo" significava in realtà "uomo saggio, colui che conosce le cose". Ed
altrettanto
indicativa è la continua, a volte disperata, asserzione dei cosiddetti capi di non essere in grado di farsi
obbedire,
il tentativo di spiegare che le loro decisioni impegnavano e potevano impegnare solo loro stessi. Del resto la
punizione per un capo che avesse cercato di comandare poteva essere molto pesante: l'esilio per i più
fortunati;
la morte per gli altri. La struttura sociale senza stato, la mancanza di un potere accentrato, l'impossibilità
del
comando non implicavano comunque la mancanza di "politica" anzi, quest'ultima, dispersa nell'intero corpo
sociale, poteva anche essere sofisticata e strutturata, uno dei fondamenti della società.
Senza stato e senza dio Se per i bianchi erano società senza re, senza
potere, tanto più erano società senza leggi, visto che non c'era una
struttura legislativa, né una polizia o un esercito per imporne il rispetto. In realtà le
società, per definizione, si
strutturano attraverso regole e sanzioni per chi non rispetta le regole e le società amerindie non
facevano eccezione.
Esistevano norme ed esistevano sanzioni, ma ancora una volta la strutturazione delle regole ed il loro rispetto
erano diffusi nel corpo sociale.
Infine senza Dio poiché in assenza di una struttura sacerdotale definita, con una posizione gerarchica
precisa,
dovevano ovviamente essere società senza Dio. Niente di più lontano dal vero per
società in cui il rapporto con
il sacro era sempre importante e spesso centrale anche nella vita quotidiana. Ma il rapporto con il sacro era
soprattutto
un rapporto individuale, un rapporto che ognuno coltivava in proprio. Esistevano quasi ovunque individui che
avevano rapporti privilegiati con il sacro, che erano in grado di mediare tra il mondo dei sensi ed il mondo
soprannaturale: sciamani, uomini della medicina, uomini sacri avevano funzioni importantissime, centrali
nell'ambito del gruppo, ma ancora una volta basate sul prestigio e sul buon uso di ciò che veniva
considerato,
più che una scelta, l'estrinsecazione di doti naturali. Ovviamente chi sapeva trattare meglio con il sacro
aveva
la possibilità di gestire potere, ma ancora una volta, come per i capi, chi l'avesse usato per costringere
gli altri
rischiava di essere ucciso. Furono diversi i missionari che rischiarono la morte o furono uccisi perché
vennero
accusati di stregoneria, cioè di cattivo uso dei loro poteri.
Si potrebbe provare ad analizzare altri punti di contatto tra le società amerindie che sarebbero comunque
interessanti da discutere, ma è importante sottolineare anche le diversità che erano molto di
più delle
somiglianze. È impossibile, richiederebbe troppo spazio, una trattazione analitica di ogni società
con le sue
differenze, ma è interessante considerare qualche caso particolare, tenendo presente che parlare di una
società
contro lo stato, significa anche parlare di società contro la storia, o meglio di società in cui il
concetto di storia
è molto diverso dal nostro: non un concetto diacronico, che pone gli accadimenti e le persone su una
linea
cronologica, ma un concetto sincronico in cui al presente viene contrapposto un unico tempo, passato, mitico,
lontano. Di queste società quindi non abbiamo la possibilità di considerare i cambiamenti nel
tempo se non per
piccoli archi di tempo, quelli relativi ai rapporti con gli Europei.
Abbiamo cioè delle fotografie, istantanee che possono far credere a società statiche, in
realtà i cambiamenti,
seppure più lenti di quelli noti alle società occidentali, esistevano, ma difficilmente venivano
registrati nel modo
che noi conosciamo.
La cosa forse più interessante è analizzare alcune caratteristiche di una società,
soprattutto se alcune di queste
sono particolarmente originali. Una delle cose più interessanti delle "società contro lo stato"
era la capacità di
mantenere la coesione sociale senza doversi strutturare attraverso organismi accentrati. Certo spesso la struttura
stessa del gruppo serviva ad evitare le possibilità di accentramenti. Non a caso il controllo demografico
era un
punto comune in molte società amerindie e dove si registravano casi di sviluppo, si registravano anche
casi di
crisi. Il gruppo mantenuto piccolo, sulle duecento-quattrocento persone, legato da parentela od affinità,
manteneva rapporti coesivi, bloccando facilmente le spinte centrifughe che potevano sorgere. Ma un gruppo
ampio, migliaia e migliaia di individui, poteva sopravvivere come gruppo sociale senza un centro a meno di
rendere il nome gruppo qualcosa di solo nominale. Era possibile per tutti prendere decisioni in una
società del
genere?
La federazione irochese Ebbene alcune società amerindie tentarono
la sfida e certamente tra tutte una spicca in particolare, per
l'importanza assunta dalla struttura sociale e dai meccanismi di decisione: gli Irochesi. Non a caso considerati
i Greci del Nord America, gli Irochesi si strutturavano intorno all'ambito sociale. Gruppo molto popoloso,
vivevano in una zona fertile e ricca di animali di varie specie. Per buona parte agricoltori, coltivavano ortaggi
e frutta (zucche, mais, fagioli, ecc.), utilizzavano anche la caccia e la pesca, vivevano nella zona compresa tra
i fiumi Hudson e Susquehanna al sud e San Lorenzo e Grandi Laghi al Nord. Territorio vasto e fertile, vivevano
in villaggi semi-permanenti. Matrilocali e matrilineari, la loro abitazione classica, la Casa Lunga, riuniva diverse
famiglie legate tra loro da parentela in linea femminile, cioè la famiglia di una donna o di due sorelle
con tutti
i discendenti femminili sposati e non sposati, i rispettivi mariti, e i discendenti maschili non sposati. In una casa
lunga vivevano quindi parecchie decine di persone, fino a cento o centocinquanta, un villaggio contava dalle
10-15 case lunghe alle 100-150 dei più importanti. I gruppi erano quindi numerosi. Gli Irochesi (2) si
consideravano riuniti nella Lega Irochese o Lega di Hau-doo-noo-see-kee (La Grande Pace) che riuniva sei
tribù
o nazioni come si chiamavano e diversi altri gruppi appartenenti a tribù diverse (3): una vera e propria
federazione.
Gli irochesi erano conosciuti per essere forti e fieri, erano famosi per le torture che infliggevano ai prigionieri,
mentre venivano riconosciuti come pacifici, tranquilli all'interno del gruppo.
Il problema principale che si trovarono a risolvere fu come affrontare le esigenze di organizzazione di gruppi
vasti e sparsi su un territorio ampio evitando forme di accentramento. La risposta si può considerare
un vero
e proprio capolavoro. Le decisioni che riguardavano la federazione Irochese venivano prese
all'unanimità
attraverso diversi livelli. Il gruppo principale, il fondamento della società Irochese, era la
"owachira", la
famiglia allargata che comprendeva tutti i discendenti in linea femminile di una donna o più donne,
sorelle tra
di loro. L'owachira era il primo gradino delle decisioni ed anche l'ultimo. Per qualsiasi decisione
ogni owachira
si riuniva, all'assemblea partecipavano tutte le donne e tutti gli uomini adulti, cioè tutte le donne sposate
(per
la precisione tutte le madri, le donne in grado di generare) e tutti gli uomini che fossero stati dichiarati adulti
(cioè tutti gli uomini che avessero partecipato almeno ad un'azione di guerra e che avessero vissuto
come donne
per almeno due anni), divisi tra loro, le donne da una parte, gli uomini dall'altra. I due gruppi prendevano una
decisione all'unanimità dopo aver discusso esaurientemente del problema, poi si riunivano e se le
decisioni prese
non risultavano uguali, ridiscutevano fino a giungere ad una sola decisione, sempre all'unanimità. Una
volta che
le "owachira" avevano deciso, si riuniva il livello più alto, quelle owachira
che, per legami di parentela si
consideravano tra loro sorelle. Ogni owachira mandava alla riunione il delegato ufficiale (il
portavoce che
avrebbe illustrato la decisione presa dalla propria "owachira") e tutti coloro che desideravano
partecipare.
Anche da questa riunione doveva uscire una sola decisione presa all'unanimità. A questo punto si
riuniva il clan
(quelle owachira che si consideravano discendenti da un antenato mitico comune, generalmente
un animale),
ancora una volta doveva essere presa una decisione, poi si passava alla metà (alcuni clan
si consideravano legati
tra di loro da sorellanza), alla tribù e infine al Grande Consiglio composto
da cinquanta "capi" e dalle madri
dei clan. Ogni volta la decisione da prendere doveva essere una e presa all'unanimità.
Difficilmente comunque la decisione finale poteva essere uguale alla prima decisione presa dalle varie
owachire
e per evitare che nel salire la scala si potesse perdere qualcosa, la decisione finale doveva tornare indietro,
scalino per scalino per essere approvata fino all'owachira. Se, per qualsiasi ragione, la decisione
presa non
veniva ratificata, si ricominciava da capo. Un sistema complesso, che indubbiamente richiedeva molto tempo,
ma che garantiva una partecipazione collettiva reale e non solo formale di tutti alle decisioni anche in presenza
dr gruppi numerosi come quelli irochesi.
L'altra caratteristica della società irochese particolarmente interessante era l'importanza del gruppo
femminile
nell'ambito sociale. Anche questa non si può considerare una caratteristica unica, ma certamente
interessante
era il modo in cui erano strutturate le diversità e i compiti tra gruppo dei maschi e quello delle femmine
in
rapporto ad una società organizzata. Abbiamo visto come le decisioni venissero prese da due gruppi
uno maschile
ed uno femminile, ciò rispondeva alla fondamentale divisione dei compiti nell'ambito della
società tra uomini
e donne. Alle donne veniva riconosciuto un posto nel gruppo sociale altrettanto importante che agli uomini,
infatti il titolo che i bianchi traducevano con capo era appannaggio sia degli uomini che delle donne e le
decisioni, come abbiamo visto richiedevano la presenza di tutte e due i sessi per essere prese.
In parte ciò era dovuto alla struttura stessa della società irochese che essendo matrilineare e
matrilocale si
viveva centrata al femminile. Le linee di discendenza erano femminili, ognuno era veramente figlio della propria
madre, ma proprio per questo si considerava che l'energia, il potere legato alle linee di discendenza, ai clan fosse
appannaggio esclusivo delle donne. Inoltre la società irochese, essendo anche matrilocale, faceva
sì che gli
uomini fossero sempre un po' ospiti nella casa della propria moglie e dei parenti di lei. In realtà quindi
la società
irochese si vedeva come l'interconnessione tra due gruppi sociali: le donne, unite, stabili, che nascevano,
vivevano, allevavano i figli, coltivavano la terra, preparavano il cibo, morivano, sempre nello stesso posto o
meglio legate sempre alle stesse persone: il gruppo stabile legato al villaggio. Dall'altra il gruppo degli uomini
sempre diviso tra la casa della madre a cui tornare per partecipare alle assemblee e alla decisione e la casa della
moglie, nella quale viveva e alla quale consegnava i risultati della propria caccia.
Per almeno due lune Le donne erano anche considerate le custodi della
"potenza" della famiglia, del clan, per cui erano coloro che
decidevano i possibili "capi", dei veri e propri portavoce con funzioni soprattutto diplomatiche; agli uomini
spettava di decidere tra i nomi scelti dalle donne. E alle donne spettava iniziare la procedura per far dimettere
un capo se questo non si fosse comportato come dovuto. Per lo stesso motivo, erano loro ad avere diritto di
adottare membri nuovi per la tribù, accettare o meno una persona come risarcimento per una perdita
o richiedere
la vendetta, oppure bloccare una vendetta già decisa, imponendo la pace. Agli uomini, invece era data
la guerra,
la gloria da ricordare per anni, specie dopo la morte, la parola negli incontri con altre tribù,
l'esterno.
Un mondo quindi complesso e sofisticato nell'ambito sociale, un mondo che sembra aver conosciuto la tirannia
o comunque sembra sapere cosa può essere, e adotta strategie attive per potersene proteggere. Un
mondo per
nulla selvaggio che trova soluzioni interessanti e funzionali ai problemi che il vivere in società pone.
Molti altri
casi altrettanto problematici ed importanti si trovano sparsi nel mondo e non solo sul continente
americano.
Altri casi non li abbiamo mai conosciuti e non li possiamo neppure conoscere, spazzati via in pochi anni,
dall'onda montante che arrivava da oltre oceano. Di altri è rimasto solo qualche ricordo lontano, quasi
leggenda.
Una perdita che non si ha solo quando la cultura viene distrutta perché vengono materialmente distrutti
i suoi
componenti, ma anche quando una cultura muore perché non più capace di cambiare. Si sono
perse molte
culture, altre si continuano a perdere, ogni anno, insieme alla deforestazione, alla tecnica, alle nuove gigantesche
strade, alle nuove industrie, passo dopo passo. Ogni cultura morta è una perdita per tutti, perché
ogni cultura
è un modo diverso di affrontare uno dei nodi centrali dell'essere uomini: come riuscire a vivere insieme,
come
formare, su quali regole e quali sanzioni, un gruppo sociale. E ogni perdita significa poter capire meno la
propria
cultura, i suoi meccanismi, come dice un vecchio proverbio Lakota "Devi camminare per almeno due lune nei
mocassini di un altro per conoscere meglio te stesso".
1) La parola, praticamente intraducibile in italiano indica il comando, inteso come istituzione. 2) Gli
Irochesi propriamente detti erano una parte di quelle tribù considerate di lingua irochese, cioè
le tribù Canienga,
Cajuga o Mowhack, Seneca, Tuscarora, che erano riunite nella lega Irochese, le tribù riunite nella lega
Urano e quelle Eire. 3) La lega Irochese era composta da sei tribù di lingua irochese più
alcuni gruppi algonchini
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