Rivista Anarchica Online
Emozioni e repressione
di Carlo Oliva
Non sono, se mi concedete la brutta espressione, un mafiologo. Non saprei dirvi
niente di particolare in tema
di cupole, cosche e famiglie. Traggo le mie informazioni da dove le traggono tutti: articoli di giornale,
chiacchiere televisive e le opere di fantasia (romanzi, film, sceneggiati) dedicate a questo aspetto particolare
della criminalità organizzata. Cito espressamente questa seconda categoria di fonti, perché sono
convinto che
il livello di informazione attendibile che esprimono non sia poi molto inferiore a quello della prima, ma non mi
faccio, in merito, particolari illusioni. Ho il sospetto, immotivato ma insopprimibile, che rispetto a come ce la
descrive la fiction la mafia sia al tempo stesso più squallida e più temibile. E vivo anch'io, come
tanti cittadini
di questo nostro paese,quel senso di furore e di frustrazione che nasce dallo spettacolo del dilagare impunito
dell'iniquità. Di ammazzamenti e di stragi, di autobombe e di funerali sono, non che indignato,
disgustato, e
soprattutto stanco. Ma soprattutto confesso di essere stanco del copione che a ogni episodio tragico ci viene
proposto. Un copione
che non prevede soltanto il penoso balbettio dei politici e l'improntitudine con cui essi approfittano di ogni
disgrazia per chiedere nuovi poteri. A quello, purtroppo, sono abituato. La classe politica che per sua
volontà
ci governa (non certo per volontà nostra, come dimostra, pur malamente, il dato delle ultime elezioni,
e il modo
con cui è stato ignorato) vive da decenni sulla cultura dell'emergenza. Si serve, con indifferente cinismo,
del
terrorismo, della crisi economica e della mafia per chiedere (e talvolta ottenere) dell'altro consenso e dell'altra
fiducia. Un ceto politico che, investito da una massiccia richiesta di rinnovamento, non ha saputo cavare dal
proprio cappello altre promesse che quelle impersonate dal pio Scalfaro e dal dotto Amato, invoca l'emergenza
come la campagna riarsa la pioggia. In fondo, se la patria è in pericolo, secondo un modello di
comportamento
collettivo vetusto, ma sempre funzionale, non si può indebolire chi da questo pericolo ci deve difendere.
E' per
questo che a chi governa la patria in pericolo fa sempre comodo. Dal loro punto di vista, se le manifestazioni
di terrorismo, crisi economica, mafia e via andare non esistessero bisognerebbe inventarle. E infatti non mi
sentirei di escludere che, talvolta, le abbiamo davvero inventate. Ma il copione ricorrente è un poco
più
complicato. E' fatto (anche) di proteste di cittadini, di sdegno delle forze dell'ordine, di magistrati irritati, di
lenzuoli alla finestra, di sparate retoriche sul popolo che solleva il capo a testimoniare il proprio orgoglio
ritrovato, di lanci di monetine e di insulti ai politici (non a tutti, perché ogni volta è ammesso,
anzi, voluto, il
protagonismo di alcuni, cui si assegna,. per motivi ignoti, una patente d'alternatività). E' un copione
messo a
punto in tempi abbastanza recenti, ma ormai ampiamente sperimentato.
Non preoccuparsi della democrazia? Per carità. Non che i politici,
in questo paese, non meritino tutti gli insulti e i lanci di monetine possibili, e non
che dispiaccia assistere a manifestazioni d'ira popolare, ma da tutto l'insieme mi sembra sia lecito diffidare un
poco. La contestazione ai politici è sempre un fenomeno salutare, l'omaggio commosso ai magistrati
e ai
poliziotti morti ammazzati nell'adempimento del loro dovere è sacrosanto. Ma la dialettica che sembra
nascere
da questo insieme di manifestazioni non mi sembra ineccepibile. Non riesco a convincermi che ai politici inetti
e corrotti si debba e si possa contrapporre una società civile sana, stretta attorno all'unico baluardo della
magistratura e della polizia. Anche perché la "società civile" è un'astrazione, mentre
la polizia e la magistratura
sono delle istituzioni, cioè dei corpi organizzati con solidi collegamenti ministeriali e comunque diretti
secondo
certe politiche e certe finalità. Il fatto stesso che entrambe siano aspramente dilaniate da conflitti interni
e lotte
di fazione esclude la possibilità di vedervi un'alternativa "non politica" pura. I cittadini che sulla piazza
di
Palermo, o altrove, davanti alle telecamere perennemente in funzione, invocano il nome dei giudici assassinati
o applaudono le bare degli agenti massacrati, esprimono una solidarietà umana e un omaggio ai caduti
di alto
valore umano e civile. Ma solo grazie al cinismo che ormai pervade il sistema delle informazioni nel suo
complesso si può far passare il loro atteggiamento per il sostegno a un programma specifico. Mi spiego.
E'
nozione ormai ovvia, almeno nella sinistra (se ne esiste ancora una), quella per cui gli appelli del potere politico
a che i cittadini facciano fronte compatti contro la mafia sono - prima di tutto - risibili, non foss'altro
perché
mafia e potere politico sono legati in molteplici intrecci, e non solo su scala locale. Ed è forte la
tentazione di
contrapporre al governo le istituzioni sociali sane, massime quelle impegnate, come si dice, in prima fila. Ma
resta vero che su molte concrete proposte del governo concordano larghi (ma non esclusivi) settori della
magistratura e della polizia. E questo naturalmente non esclude che quelle proposte vadano accuratamente
vagliate da tutti, sotto il doppio profilo dell'efficienza operativa e della compatibilità democratica.
Sì, molti
dicono che siamo in guerra, ed essendo in guerra non possiamo badar troppo alla democrazia, ma lasciamoli
dire. Noi sappiamo bene che il non doversi preoccupare troppo della democrazia è uno dei motivi per
cui si fa,
appunto, la guerra.
Masse televisive Personalmente, ritengo che i provvedimenti proposti dal
governo dopo gli assassinii di Falcone e Borsellino,
le varie proposte di modifica in senso inquisitorio della procedura penale, di istituzione di super-procure e
super-polizie, di militarizzazione del territorio e affini, siano inutili rispetto ai fini che si propongono e
pericolose dal punto di vista della difesa dei diritti dei cittadini, mafiosi e no, ma confesso di aver sempre
diffidato anche da certe "prassi antimafia" tipiche della magistratura. Non credo ai maxiprocessi, mi ripugna
l'utilizzazione sistematica e senza riscontri dei pentiti, non mi piacciono
i pool di inquirenti. Sarò forse troppo legato alle esigenze classiche del garantismo, ma non credo che
la risposta
alla criminalità organizzata possa venire dall'intensificarsi di misure che un tempo si sarebbero chiamate
di
repressione. Che è ciò cui la spinta emotiva delle masse, diciamo così, televisive
sembra volere chiamare. Ho il sospetto che la mafia si combatta più utilmente controllando i flussi
di danaro, le disponibilità finanziarie
e bancarie, il valore aggiunto dell'economia delle regioni in cui essa notoriamente opera. Mi chiedo se nessuno
tra gli addetti ai lavori si sia mai lasciato sfiorare dalla tentazione di far qualcosa per modificare le infami
normative sulla droga, visto che è dal traffico della droga, in regime di criminalizzazione, che nasce
quel potere
criminale. E se non sia proprio possibile venire a capo di almeno qualcuna delle tante infiltrazioni delle strutture
criminali nei centri del potere e dell'organizzazione civile che, dopo quanto è successo, dobbiamo
presupporre
per forza. In mesi di indagini, a ben vedere, non è stata trovata una sola talpa. Possibile? Sono problemi
di fondo
cui, stranamente, non accenna nessuno. E mentre va in onda, tra i commenti compiaciuti degli eterni servi del
potere, il gioco crudele dell'offesa e della protesta, ho una gran paura. Ho paura che certe reazioni
apparentemente spontanee non siano, in qualche modo, orchestrate; che attraverso le proteste di un certo tipo
non possa passare insensibilmente, nelle coscienze prima che nei fatti, una trasformazione definitiva di regime
da cui la mafia non avrebbe nulla da temere, ma noi sì.
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