Rivista Anarchica Online
Ritorna il Gattopardo
di Andrea Papi
I cambiamenti che si annunciano dopo le recenti vicende politico-giudiziarie non sembrano intaccare le basi
del rapporto gerarchico governanti-cittadini
Da circa due mesi il malgoverno, come viene definito, occupa con cocciutaggine
le prime pagine dei quotidiani e dei telegiornali. Con indovinata ironia è anche stata coniata la parola
tangentocrazia, che riassume e raffigura
efficacemente com'è oggi la gestione della cosa pubblica, cioè il potere delle tangenti. Nel
linguaggio comune,
come si usa dire, dall'uomo della strada, in breve tempo sta diventando più corrente della ormai
super-abusata
partitocrazia; nel senso comune della parola significano sostanzialmente la stessa cosa, indicando che, pur
cambiando l'oggetto di riferimento, il male cui ci si riferisce è sempre lo stesso, l'antico reo non
confesso
sistema dei partiti.
Per tentare di comprendere meglio una materia così contorta, è necessario articolare il discorso
senza fare dei
distinguo che a noi non competono, perché così come viene proposta al ludibrio pubblico rischia
di rimanere
una banalità risaputa da tempo, data in pasto solo ora all'opinione pubblica per qualche ragione non
rivelata.
Infatti è da molto tempo prima di adesso che la magistratura aveva ricevuto più di una denuncia,
fatta da solerti
cittadini venuti a conoscenza provata di casi di corruzione e di giri di tangenti. Ma, com'è usanza
consolidata
nel bel paese della prima repubblica, il tutto era stato bellamente ignorato e annacquato con massicce dosi di
lentocrazia e inefficienza burocratica. Niente di nuovo o di particolare. Anzi! prassi sedimentatasi lungo il
divenire rituale dei poteri costituiti.
Da qualche mese a questa parte la prassi consolidatasi è stata invertita. Dapprima Di Pietro, poi subito
affiancato
da Colombo, con sistematica metodicità stanno mandando avvisi di garanzia a destra e a manca contro
uomini
di partito, di qualsiasi partito, coinvolti nella gestione della cosa pubblica. Quasi d'incanto affiora, ufficializzata
dalla pratica giuridica, una ripugnante realtà della politica, intesa proprio come gestione condotta da
una
gerarchia dirigenziale. I responsabili delle amministrazioni, eufemisticamente dette pubbliche, da sempre
amministrano come se fosse cosa propria, o di partito, o comunque loro, con la massima disinvoltura il denaro
che, nella dizione originaria, dovrebbe essere di tutti.
E questa pratica consolidatasi da chissà quanto tempo è davvero sconcertante. Anche l'intuito
diffidente di quel
protagonista anonimo che è il cosiddetto uomo della strada conosce questa verità da sempre,
forse perché l'ha
vissuta sulla propria pelle; ogni volta che ha potuto, quando non gli è stata cucita la bocca, l'ha sempre
denunciata
con incazzata umile coscienza popolare. Ma, si sa, il dire e ridire della plebe conta solo se può essere
usato dalle
faccende dell'aristocrazia, mentre la mitica opinione pubblica acquista una valenza dialettica solo se in qualche
modo può essere incanalata ad uso e consumo di chi fa, disfà e, in definitiva, decide.
Così, sempre l'opinione
pubblica, ha potuto veder confermata e ufficializzatala propria conoscenza solo quando, per motivi che a noi
non è concesso di sapere, il sempre presente "grande fratello", in accordo col sempre vitale "grande
centro", ha
deciso di lasciar partire quella parte coscienziosa della magistratura, forse idealista e incorruttibile come a suo
tempo fu, per esempio, Robespierre, che da diverso tempo era ansiosa di poter colpire, smascherare e punire
i responsabili di una simile nefanda politica. Giustizia sia dunque fatta!
Illazione e congetture
Però è spontaneo chiedersi: perché proprio adesso? Indipendentemente da qualsiasi
opinione si possa nutrire
sull'operato generale della magistratura, ben poche volte limpido, soprattutto quando si tratti di affari mafiosi,
o di servizi segreti, o ancora di faccende politiche poco pulite, nulla da obiettare in questo caso specifico. Non
tanto perché sembra voler punire i colpevoli, cosa che ovviamente farà, sempre che ne abbia
possibilità e
intenzione, quanto perché sta rendendo ufficiale e di dominio pubblico come partitocrazia e
tangentocrazia si
identifichino. Ma la la domanda rimane: perché allora non è stato fatto prima, dal momento,
fra l'altro, che da
diverso tempo erano depositate denunce che giustificavano le indagini? Non che a questo punto sia essenziale,
ma il saperlo probabilmente potrebbe spiegare perché si è permesso che le cose del malaffare
procedessero
indisturbate, fino ad occupare quasi totalmente intere capitali.
Le illazioni e le congetture hanno libero sfogo. Per esempio, è stata rilevata la strana coincidenza tra
questa
operazione della magistratura e il periodo particolarmente delicato per le istituzioni, col parlamento appena
insediato e in assenza di governo e presidente della repubblica.
La magistratura ne avrebbe approfittato per rifarsi un'immagine, per dimostrare che può essere garante
della
giustizia, unica a poter intervenire per fare pulizia quando le strutture politiche risultano altamente inquinate
e corrotte. Illazione sensata, ma poco credibile. Secondo costituzione infatti, non c'è mai un'assenza
reale dei
poteri del governo e del presidente della repubblica, anche in momenti come questo di passaggio delle
consegne.
Fino all'insediamento effettivo del nuovo governo, resta in carica quello precedente che all'occorrenza
può
benissimo intervenire, come pure in assenza del legittimo presidente della repubblica è pienamente
legittimato
al suo posto il presidente del senato.
Più verosimile mi sembra invece l'ipotesi che si riferisce alla fase di transizione che le istituzioni stanno
vivendo
a vari livelli. Per una parte la formazione dell'unione politica europea è alle porte e l'Italia, nonostante
continui
ad appartenere all'area del benessere occidentale, si trova con la finanza pubblica ridotta a un tale colabrodo
che,
sempre più seriamente, rischia di essere mal sopportata dagli altri partner europei. Contemporaneamente
all'interno la vecchia classe dirigente, espressione della tanto giustamente vituperata partitocrazia, sembra
sempre più incapace di gestire sé stessa, con una criminalità organizzata ormai
saldamente dentro le stesse
istituzioni, con gli equilibri e i rapporti politici tra i partiti tradizionali sempre più instabili e sempre
meno in
grado di imporsi. In seguito al crollo dell'est tre anni fa è anche venuto a meno il nemico simbolico
capace di
catalizzare le energie e giustificare, nonostante tutto, gli assetti dominanti. Il modo di gestione delle strutture
consolidatosi in quasi cinquant'anni di repubblica sta scricchiolando così vistosamente, che è
ormai incapace
di garantire la continuità. Rispetto a questo contesto, l'azione della magistratura che colpisce,
esemplarmente
e spettacolarmente, molti uomini in varie maniere legati alla vecchia nomenklatura, è un ottimo
incentivo
concreto, capace di favorire l'affossamento del vecchio e il sorgere di nuove categorie dirigenziali.
Aggiustare le regole Soprattutto svolge un'opera salvifica all'interno dello stato
stesso, permettendo di separare le responsabilità di
una parte da quelle di altre sue parti. Lo scollamento determinatosi nel tempo tra lo stato nel suo complesso e
la società, intesa come l'insieme dei suoi cittadini, si sta avvicinando a un punto di rottura, per ora
ancora
lontano, ma possibile in un futuro prossimo se non interviene un'inversione di tendenza.
Il fatto che la magistratura, parte integrante dell'apparato statale, o anche solo una sua parte abilitata a farlo,
intervenga in modo pesante e decisivo per colpire politici e industriali, chiunque siano e quanti siano,
perché
corrotti e corruttori o inadempienti, perché tutti concordemente a piene mani si spartiscono la torta del
denaro
pubblico, permette di proporre la stessa magistratura come uno strumento della società, capace di
salvaguardare
il bene e gli interessi collettivi. Permette soprattutto di affermare che lo stato non è tutto marcio.
L'immagine che se ne ricava è che esiste la possibilità di riformare lo stato riportandolo al
compito per cui si
è giuridicamente legittimato, cioè di regolatore della giustizia sociale, di garante dei bisogni
organizzativi e di
erogatore di servizi utili alla collettività. Il problema viene allora inquadrato nella necessità di
aggiustare le
regole di funzionamento dell'apparato pubblico per superare quelle che ci sono, ormai sputtanate e obsolete, ma
in particolare di cambiare gli uomini, ai quali viene poi addossata la colpa maggiore. Non a caso su questa linea
di intervento risolutore si stanno gettando più o meno tutti, anche e soprattutto gli uomini a capo dei
partiti, i
cui apparati e i cui uomini hanno ampie responsabilità nelle ruberie in questione. Mi solletica l'orecchio
il
vecchio detto gattopardesco "bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima".
Corruzione e ruberie Mi permetto di inserire un ragionamento derivato da
un punto di vista radicale, dal momento che l'origine del
male di cui si parla per me si trova nelle radici che stanno a fondamento delle strutture atte a gestire la
politica.
Il problema vero non è tanto nelle regole da riformare o negli uomini che hanno occupato la cosa
pubblica come
se fosse loro proprietà. Al contrario risiede nei principi garantiti da quelle regole.
Certamente quegli uomini sono responsabili in prima persona, come del resto i partiti di cui fanno parte, dal
momento che mi è difficile supporre che una così gran parte di uomini di alto livello potesse
agire del tutto
all'insaputa delle dirigenze partitiche.
Indipendentemente da tutto hanno potuto agire perché la struttura è impostata in modo tale che
ciò possa
succedere, in quanto il controllo è comunque sempre e soltanto nelle mani degli apparati. Agiscono in
nome del
popolo, mentre questi non può intervenire in nessuna maniera, né per decidere, né per
dire il proprio parere,
né per controllare I cittadini hanno le mani legate. Possono solo aspettare che una parte della
magistratura, o
al limite di un altro apparato addetto, decida, per ragioni proprie, di intervenire. Il problema dunque risiede nella
strutturazione gerarchica delle decisioni e dei controlli, per cui tutto può avvenire solo se i vertici lo
vogliono.
Questo principiò va invertito, perché finché rimarrà in vigore quello attuale si
verificherà ciò che Alberto
Ronchey auspica su il quotidiano La Repubblica di martedì 19 maggio, cioè "che non è
ragionevole la pretesa
di sopprimere la corruzione in sé, come sempre insopprimibile nella storia di ogni nazione". In fondo
Ronchey
esprime un pensiero altamente funzionale agli stati nazionali, che cioè corruzione e ruberie dei potenti
debbono
essere limitati e compatibili con i bisogni del governo e dello stato.
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