Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 192
giugno 1992


Rivista Anarchica Online

Ritorna il Gattopardo
di Andrea Papi

I cambiamenti che si annunciano dopo le recenti vicende politico-giudiziarie non sembrano intaccare le basi del rapporto gerarchico governanti-cittadini

Da circa due mesi il malgoverno, come viene definito, occupa con cocciutaggine le prime pagine dei quotidiani e dei telegiornali. Con indovinata ironia è anche stata coniata la parola tangentocrazia, che riassume e raffigura efficacemente com'è oggi la gestione della cosa pubblica, cioè il potere delle tangenti. Nel linguaggio comune, come si usa dire, dall'uomo della strada, in breve tempo sta diventando più corrente della ormai super-abusata partitocrazia; nel senso comune della parola significano sostanzialmente la stessa cosa, indicando che, pur cambiando l'oggetto di riferimento, il male cui ci si riferisce è sempre lo stesso, l'antico reo non confesso sistema dei partiti.
Per tentare di comprendere meglio una materia così contorta, è necessario articolare il discorso senza fare dei distinguo che a noi non competono, perché così come viene proposta al ludibrio pubblico rischia di rimanere una banalità risaputa da tempo, data in pasto solo ora all'opinione pubblica per qualche ragione non rivelata. Infatti è da molto tempo prima di adesso che la magistratura aveva ricevuto più di una denuncia, fatta da solerti
cittadini venuti a conoscenza provata di casi di corruzione e di giri di tangenti. Ma, com'è usanza consolidata nel bel paese della prima repubblica, il tutto era stato bellamente ignorato e annacquato con massicce dosi di lentocrazia e inefficienza burocratica. Niente di nuovo o di particolare. Anzi! prassi sedimentatasi lungo il divenire rituale dei poteri costituiti.
Da qualche mese a questa parte la prassi consolidatasi è stata invertita. Dapprima Di Pietro, poi subito affiancato da Colombo, con sistematica metodicità stanno mandando avvisi di garanzia a destra e a manca contro uomini di partito, di qualsiasi partito, coinvolti nella gestione della cosa pubblica. Quasi d'incanto affiora, ufficializzata dalla pratica giuridica, una ripugnante realtà della politica, intesa proprio come gestione condotta da una gerarchia dirigenziale. I responsabili delle amministrazioni, eufemisticamente dette pubbliche, da sempre amministrano come se fosse cosa propria, o di partito, o comunque loro, con la massima disinvoltura il denaro che, nella dizione originaria, dovrebbe essere di tutti.
E questa pratica consolidatasi da chissà quanto tempo è davvero sconcertante. Anche l'intuito diffidente di quel protagonista anonimo che è il cosiddetto uomo della strada conosce questa verità da sempre, forse perché l'ha vissuta sulla propria pelle; ogni volta che ha potuto, quando non gli è stata cucita la bocca, l'ha sempre denunciata
con incazzata umile coscienza popolare. Ma, si sa, il dire e ridire della plebe conta solo se può essere usato dalle faccende dell'aristocrazia, mentre la mitica opinione pubblica acquista una valenza dialettica solo se in qualche modo può essere incanalata ad uso e consumo di chi fa, disfà e, in definitiva, decide. Così, sempre l'opinione pubblica, ha potuto veder confermata e ufficializzatala propria conoscenza solo quando, per motivi che a noi non è concesso di sapere, il sempre presente "grande fratello", in accordo col sempre vitale "grande centro", ha deciso di lasciar partire quella parte coscienziosa della magistratura, forse idealista e incorruttibile come a suo tempo fu, per esempio, Robespierre, che da diverso tempo era ansiosa di poter colpire, smascherare e punire i responsabili di una simile nefanda politica. Giustizia sia dunque fatta!

Illazione e congetture
Però è spontaneo chiedersi: perché proprio adesso? Indipendentemente da qualsiasi opinione si possa nutrire sull'operato generale della magistratura, ben poche volte limpido, soprattutto quando si tratti di affari mafiosi, o di servizi segreti, o ancora di faccende politiche poco pulite, nulla da obiettare in questo caso specifico. Non tanto perché sembra voler punire i colpevoli, cosa che ovviamente farà, sempre che ne abbia possibilità e intenzione, quanto perché sta rendendo ufficiale e di dominio pubblico come partitocrazia e tangentocrazia si identifichino. Ma la la domanda rimane: perché allora non è stato fatto prima, dal momento, fra l'altro, che da diverso tempo erano depositate denunce che giustificavano le indagini? Non che a questo punto sia essenziale, ma il saperlo probabilmente potrebbe spiegare perché si è permesso che le cose del malaffare procedessero indisturbate, fino ad occupare quasi totalmente intere capitali.
Le illazioni e le congetture hanno libero sfogo. Per esempio, è stata rilevata la strana coincidenza tra questa operazione della magistratura e il periodo particolarmente delicato per le istituzioni, col parlamento appena insediato e in assenza di governo e presidente della repubblica.
La magistratura ne avrebbe approfittato per rifarsi un'immagine, per dimostrare che può essere garante della giustizia, unica a poter intervenire per fare pulizia quando le strutture politiche risultano altamente inquinate e corrotte. Illazione sensata, ma poco credibile. Secondo costituzione infatti, non c'è mai un'assenza reale dei poteri del governo e del presidente della repubblica, anche in momenti come questo di passaggio delle consegne.
Fino all'insediamento effettivo del nuovo governo, resta in carica quello precedente che all'occorrenza può benissimo intervenire, come pure in assenza del legittimo presidente della repubblica è pienamente legittimato al suo posto il presidente del senato.
Più verosimile mi sembra invece l'ipotesi che si riferisce alla fase di transizione che le istituzioni stanno vivendo a vari livelli. Per una parte la formazione dell'unione politica europea è alle porte e l'Italia, nonostante continui ad appartenere all'area del benessere occidentale, si trova con la finanza pubblica ridotta a un tale colabrodo che,
sempre più seriamente, rischia di essere mal sopportata dagli altri partner europei. Contemporaneamente all'interno la vecchia classe dirigente, espressione della tanto giustamente vituperata partitocrazia, sembra sempre più incapace di gestire sé stessa, con una criminalità organizzata ormai saldamente dentro le stesse istituzioni, con gli equilibri e i rapporti politici tra i partiti tradizionali sempre più instabili e sempre meno in grado di imporsi. In seguito al crollo dell'est tre anni fa è anche venuto a meno il nemico simbolico capace di catalizzare le energie e giustificare, nonostante tutto, gli assetti dominanti. Il modo di gestione delle strutture consolidatosi in quasi cinquant'anni di repubblica sta scricchiolando così vistosamente, che è ormai incapace di garantire la continuità. Rispetto a questo contesto, l'azione della magistratura che colpisce, esemplarmente e spettacolarmente, molti uomini in varie maniere legati alla vecchia nomenklatura, è un ottimo incentivo concreto, capace di favorire l'affossamento del vecchio e il sorgere di nuove categorie dirigenziali.

Aggiustare le regole
Soprattutto svolge un'opera salvifica all'interno dello stato stesso, permettendo di separare le responsabilità di una parte da quelle di altre sue parti. Lo scollamento determinatosi nel tempo tra lo stato nel suo complesso e la società, intesa come l'insieme dei suoi cittadini, si sta avvicinando a un punto di rottura, per ora ancora lontano, ma possibile in un futuro prossimo se non interviene un'inversione di tendenza.
Il fatto che la magistratura, parte integrante dell'apparato statale, o anche solo una sua parte abilitata a farlo, intervenga in modo pesante e decisivo per colpire politici e industriali, chiunque siano e quanti siano, perché corrotti e corruttori o inadempienti, perché tutti concordemente a piene mani si spartiscono la torta del denaro pubblico, permette di proporre la stessa magistratura come uno strumento della società, capace di salvaguardare il bene e gli interessi collettivi. Permette soprattutto di affermare che lo stato non è tutto marcio.
L'immagine che se ne ricava è che esiste la possibilità di riformare lo stato riportandolo al compito per cui si è giuridicamente legittimato, cioè di regolatore della giustizia sociale, di garante dei bisogni organizzativi e di erogatore di servizi utili alla collettività. Il problema viene allora inquadrato nella necessità di aggiustare le regole di funzionamento dell'apparato pubblico per superare quelle che ci sono, ormai sputtanate e obsolete, ma in particolare di cambiare gli uomini, ai quali viene poi addossata la colpa maggiore. Non a caso su questa linea di intervento risolutore si stanno gettando più o meno tutti, anche e soprattutto gli uomini a capo dei partiti, i cui apparati e i cui uomini hanno ampie responsabilità nelle ruberie in questione. Mi solletica l'orecchio il vecchio detto gattopardesco "bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima".

Corruzione e ruberie
Mi permetto di inserire un ragionamento derivato da un punto di vista radicale, dal momento che l'origine del male di cui si parla per me si trova nelle radici che stanno a fondamento delle strutture atte a gestire la politica.
Il problema vero non è tanto nelle regole da riformare o negli uomini che hanno occupato la cosa pubblica come se fosse loro proprietà. Al contrario risiede nei principi garantiti da quelle regole.
Certamente quegli uomini sono responsabili in prima persona, come del resto i partiti di cui fanno parte, dal momento che mi è difficile supporre che una così gran parte di uomini di alto livello potesse agire del tutto all'insaputa delle dirigenze partitiche.
Indipendentemente da tutto hanno potuto agire perché la struttura è impostata in modo tale che ciò possa succedere, in quanto il controllo è comunque sempre e soltanto nelle mani degli apparati. Agiscono in nome del popolo, mentre questi non può intervenire in nessuna maniera, né per decidere, né per dire il proprio parere, né per controllare I cittadini hanno le mani legate. Possono solo aspettare che una parte della magistratura, o al limite di un altro apparato addetto, decida, per ragioni proprie, di intervenire. Il problema dunque risiede nella strutturazione gerarchica delle decisioni e dei controlli, per cui tutto può avvenire solo se i vertici lo vogliono.
Questo principiò va invertito, perché finché rimarrà in vigore quello attuale si verificherà ciò che Alberto Ronchey auspica su il quotidiano La Repubblica di martedì 19 maggio, cioè "che non è ragionevole la pretesa di sopprimere la corruzione in sé, come sempre insopprimibile nella storia di ogni nazione". In fondo Ronchey esprime un pensiero altamente funzionale agli stati nazionali, che cioè corruzione e ruberie dei potenti debbono essere limitati e compatibili con i bisogni del governo e dello stato.