Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 190
aprile 1992


Rivista Anarchica Online

A nous la libertè
diario a cura di Felice Accame

Cinema vilipeso, documentari contraffatti

Nella gerarchia dei generi cinematografici al documentario spettano infimi scantinati. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che, se uno decide di andare a vedere Atlantis di Luc Besson, innanzitutto lo trova classificato dal giornale come film "avventuroso", poi deve far tornare i conti sia con un cartello, apposto all'ingresso, che lo avvisa che "questo film è un documentario" o sia con uno slogan pubblicitario che magnifica "L'ultima straordinaria avventura del regista di Nikita". Quando il livello della contraddizione è tale, quando si ha infierito fino a questi punti, un minimo di senso di colpa a qualcuno dovrebbe rimanere. Per qualcuno, evidentemente, la nozione di "documentario" fa a pugni con quella spettacolarità da cui ogni film che si rispetti, secondo questo qualcuno, non dovrebbe mai disgiungersi. Assunti penosi che insultano il buon senso di noi spettatori.
Che, poi, sulla nozione di "documentario" pesino presupposti ideologici anche più consistenti (il documento che attesterebbe "storia", "realtà," o "verità" di qualcosa di contrapposto alla fiction e che in merito alla contrapposizione godrebbe di valore universale) è un ulteriore segno della delicatezza del tema - e questo film di Besson capita giusto a puntino per verificarne certe evoluzioni.
Il documentario avente per oggetto il mare e la vita marina è nato come discorso, come forma argomentativa esplicita sulle bellezze nascoste e sulle morali che governerebbero biologie misconosciute. In esso c'è l'ambiguità della morale antropomorfica coniugata alla logica consolatoria: impara da loro, guarda cosa ti stai perdendo. Una natura ridotta a merce e il rito del sospiro di rimpianto prima di appiccicarci sopra il cartellino del prezzo.
Si comincia con un Sesto continente (anni Cinquanta, Folco Quilici) e si finisce - uscendo anche dal mare, ma sguazzando nel vieppiù inquinato - con Mondo cane (anni Sessanta, Gualtiero Jacopetti). Si finisce tanto male che le Ultime grida dalla savana sembra siano state di qualcuno che, ignaro, fosse stato immolato alle esigenze del cinema occidentale. Dietro chi "presenta," o mercantilizza il monstrum, la meraviglia e la perla rara o l'ultimo esemplare di qualsiasi serie, c'è il ghigno della speculazione e il peggio del paradigma reazionario.
Grossomodo il rischio non si corre con Atlantis, che, più che parlare, allude, senza alcun ricorso al patrimonio verbale, mentre attinge a piene mani a quello musicale. La regola che Besson si è imposto prevede immagini solo "interne" al marino (tranne una - la sola, lontanissima, traccia di artificio umano: un vaporetto che solca le onde, visto da qualche centinaio di metri di altezza -, in chiusura), nemmeno una parola di commento e associazioni di animali e musica. Serpenti, squali, testuggini, foche o piovre vengono così "interpretati" in grazia di disco-music, rock, liricheggiamenti, sinfonie o polifonie religiose che fungerebbero da cartine di tornasole per far emergere significati etologici o puri momenti di fruizione estetica.
Se la cultura cinematografica del sesto continente ha raschiato il barile del mirabile, Besson non se ne preoccupa perché - più da poeta che da cronista (tanto meno da scienziato) - rovescia l'ideologia del documentario e coltiva l'immagine per la tecnica (ecco il mirabile adatto al 1992) con la quale l'ottiene. Il mezzo e il suono che ne enfatizza l'uso sono lo spettacolo. Il fatto che il mare cui volgo l'occhio io faccia schifo, che sia un putridume confezionato di ombrelloni, boe e pedalò per le vittime dell'ideologia turistica, e che di questo mio mare non si faccia cenno - preferendogli un mare limpido e vitale, da "enciclopedia" - non può venirgli imputato come colpevole omissione. Perché, per l'appunto, Atlantis potrà essere classificato in molti modi, ma mai come documentario.