Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 188
febbraio 1992


Rivista Anarchica Online

Conversare, forse comunicare
di Filippo Trasatti

Sospetto e temo fortemente il declino o forse persino la scomparsa di una fondamentale capacità umana: quella di conversare. Non parlo della chiacchiera, dello scambiarsi informazioni, dell'affermazione delle proprie idee, della schermaglia e del duello verbale; piuttosto intendo quel gioco libero del conversare che si muove fluidamente tra le cose, i pensieri, gli argomenti e i sentimenti, che crea nello scambio spesso qualcosa di inaspettato e talvolta conduce oltre le proprie convinzioni ad una benefica deriva.
Una conversazione felice è terapeutica: è un buon massaggio per la mente, qualcosa che ci fa riscoprire il senso di comune umanità che spesso ci sfugge. Ma perché l'arte di conversare sta scomparendo? Mi limito ad azzardare alcune osservazioni.
In primo luogo a causa di un modo ansioso di percepire il tempo, scandito dagli impegni quotidiani, dai ritmi di lavoro, un modo di pensare e vivere in cui time is money e non si può sprecare, Ora per una conversazione felice ci vuole tempo, senza sentire il ticchettio dell'orologio, abbandonando l'assedio degli impegni e dei doveri.
Cristopher Lasch nel suo libro L'io minimo disegna il ritratto della persona nell'epoca della "cultura della sopravvivenza"; prevalgono la frammentazione dell'io, il senso di vuoto, gli apparati difensivi per sopravvivere al peso schiacciante della società di massa, la paura dell'intimità; condizioni queste che minano alla base la reale possibilità di comunicazione tra persone, perché la vera comunicazione è un incontro con l'altro che ci porta oltre i nostri limiti abituali, limiti che in tempi di sopravvivenza tendiamo a tenerci ben stretti. Una conversazione felice per contro ha bisogno della fiducia. E per comprendere chi parla dobbiamo ascoltare, re-imparare ad ascoltare anche noi stessi mentre parliamo, soprattutto in quei momenti in cui azioniamo il pilota automatico e ci lasciamo andare ai giudizi surgelati, alle affermazioni firmate, alle conclusioni in saldo. Se non tolleriamo di pensare ciò che ci è più distante, distruggiamo alla base la possibilità del dialogo. E del dialogo, della capacità di avvertire il simile nel dissimile e il dissimile nel simile, abbiamo assoluto bisogno.
Sembra a prima vista paradossale che nella cosiddetta civiltà della comunicazione debba scomparire la conversazione. Eppure oltre le apparenze ciò che chiamiamo comunicazione andrebbe più propriamente definito trasmissione.
Comunicare, ci ricorda Danilo Dolci nel suo bel libro Dal trasmettere al comunicare (Edizioni Sonda, Milano 1988), è mettere in comune, corrispondere all'altro, modificarsi nel rapporto. Quelle che abitualmente chiamiamo comunicazioni di massa sono in realtà trasmissioni dai pochi che detengono il potere di trasmettere ai molti che hanno solo il potere di ricevere. Il sistema delle comunicazioni di massa ci ha abituato ad essere ricevitori e ripetitori.
Negli allucinati dialoghi dei personaggi delle commedie di Ionesco ritroviamo in forma lampante scambi verbali a comunicazione nulla. Ma se osserviamo le molte conversazioni quotidiane cui assistiamo o prendiamo parte potremo notare come, più spesso di quanto si pensi, lo scambio comunicativo sia nullo.
E' possibile anzi arrivare a sostenere che proprio il modello di comunicazioni di massa dominante socialmente accettato contribuisca a mutare sostanzialmente anche le comunicazioni quotidiane tra le persone. In primo luogo si fa sempre più sentire l'esigenza di essere ben informati, quasi che non si potesse comunicare senza disporre delle ultime notizie del telegiornale. In questo caso ciò che facciamo valere nella conversazione è il nostro saperne di più dell'altro, in qualche modo la nostra superiorità sull'altro che non sa. Si ripropone una relazione che ha il suo luogo naturale di crescita nelle nostre scuole dove chi sa parla e chi non sa tace, dove riceve una ferita, forse mortale, il bisogno umano di comunicare.
Con le "comunicazioni di massa", dice Dolci, si instilla, si inocula il virus del dominio che agisce trasformando le persone in massa.
"Costipare gente da schiere di banchi nelle scuole (e prescuole) a schiere di banchi nelle chiese fino ai banchi di lavoro più o meno forzato; da un ghetto all'altro, da un lager a un altro; non favorire i rapporti tra i lontani e l'imparare a conoscersi; non favorire i rapporti tendenti a scoprire come è possibile crescere insieme: così si impasta la massa", (58).
Dolci ci guida ad uno sguardo diverso attraverso i molti discorsi sulla comunicazione, a recuperare la fiducia nella capacità umana di esprimersi e di creare, modificata giorno dopo giorno fin dalla prima infanzia. Uno degli strumenti fondamentali di questo recupero è il dialogo o la conversazione aperta. Dolci ci ha offerto in passato molti esempi di conversazioni con bambini e adulti sui temi fondamentali dell'esistenza, sui problemi politici, sulle miserie quotidiane, che pur trascritte non hanno perso nulla della freschezza e del potere comunicativo che le ha originate. Anche in quest'ultimo libro dialoghi sul tema della comunicazione, sul conformismo, si intrecciano a considerazioni di Dolci, a citazioni in un insieme vario e stimolante.
Consiglio una lettura a piccole dosi, ma scoprirete anche da soli che il libro non si presta a una lettura continuativa , anzi sembra proprio invitare alle pause di riflessione.
Per concludere, intanto che siamo su questo tema affascinante, se vi interessa sapere cosa c'entri il dialogo con l'anarchismo (e c'entra molto), vi consiglio un articolo di Marco Cossutta (nessuna parentela imbarazzante) uscito sul numero di "Volontà" (4/90) intitolato appunto: Elogio del dialogo.