Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 187
dicembre 1991 - gennaio 1992


Rivista Anarchica Online

L'urlo di Leo
di Cristina Valenti

”L'impero della ghisa” ultimo spettacolo di Leo de Berardinis, conferma la sua eccezionale capacità di graffiare l'esistente e di proporre un teatro di profonda, sentita denuncia del conformismo.

Il sipario si apre su un palcoscenico pressoché nudo. Su tre file di sedie, disposte frontalmente rispetto agli spettatori, sono seduti gli attori, immobili, svaccati, indolenti. Le lampade che pendono basse sulle loro teste li illuminano di una luce livida, lugubre, sinistra. E' l'Impero della Ghisa, siamo nell'"era della metallurgia trionfante", e il dittatore e profeta di questa "svolta epocala" è un sovrano pazzariello che parla in dialetto foggiano, veste un frac stracciato, con la canottiera al posto dello sparato, scarpe da tennis, cilindro e bastone; la sua corte è un esercito di freaks, una parata di scalognati, inscimuniti, furbi di bassa tacca, consorti e vanescenti e trucidi gagà. Ai comandi del sovrano, mentre emerge dal sottofondo una militaresca marcia di cornamuse, questo esercito di pirati-straccioni si anima e comincia una marcia da seduto, scandita da un battere di piedi e un dimenarsi di mani e da un ossessivo ritornello dove “marciare" diventa "marcire”. L'imperatore marcia a sua volta, annaspando con gravità, lo sguardo fra il grave e il trasognato, fermo a fissare lontano, davanti a sé. Dove guarda? A che favola teatrale appartiene? Dove porta il suo esercito di creature inconsapevoli, di soldatini meccanici, di sopravvissuti a un beckettiano "spopolamento"? “In marcia verso un futuro ancora più buio", proclama, e detta i paradossali fondamenti del suo impero: far salire il prezzo del ferro e gestirne il mercato in regime di monopolio; trasformare tutto in ghisa e far sì che il metallo pesante divenga "cosa generale, inconscio collettivo”; e porre infine il sigillo dell'epoca attraverso la "chiodatura dei libri". "Non siamo ignoranti perché non leggiamo", sentenzia: "non leggiamo perché siamo ignoranti". Ecco come il suo impero rinnova e programma l'incubo di Fahrenheit 451, facendo seguire agli anni di piombo dell'impegno e della disperazione quelli di ghisa dell'omologazione e della "pacificazione" delle coscienze, che avranno bisogno degli intellettuali di turno (puntuali interpreti da una parte, solleciti motori dall'altra) per riciclare le scorie dei valori consumati e fagocitati dal sistema culturale e farli poi girare a vuoto, sotto forma di chiacchiera, slogan, luogo comune, cinica rimasticatura di parole che sono state importanti, che in altri tempi hanno dato luogo a scelte. Parole che alla fine dello spettacolo "rotoleranno", accompagnate da una smorfia di sazietà e disgusto, dalla bocca dell'Imperatore, nella quale concetti come "pace" e "amore" diventano fatui oggetti di lusso destinati ad essere consumati, e sprecati, dai palati "fini" di chi decide le sorti del mondo. “Si vuole istituire a tutti i costi una pace che invece dovrebbe nascere storicamente, con il progressivo ridursi dell'ingiustizia" ha detto Leo de Berardinis, intervistato su questo spettacolo, " ma ormai c'è la svalutazione totale di ogni parola importante. Qualunque assassino parla di giustizia, di libertà e di democrazia".

La dittatura del denaro
L'Impero della Ghisa dà i brividi. L'umanità vi si affanna per marciare furiosa verso l'immobilità dello status-quo. Ecco l'orbita in cui gravita questo impero globale, in attesa di conquistare nuove galassie; ed ecco le acque sulle quali naviga la barca dei comici: che sta andando alla deriva rispetto all'attualità delle cose, ma che segue una sua rotta perigliosa e fiera, inscritta piuttosto nell'inattualità storica, cioè nel mondo a parte della responsabilità e della volontà dell'attore. "Io credo che la consapevolezza almeno di questo viaggio allucinante, e la sua rappresentazione -scrive Leo nello scritto che pubblichiamo a pag. 32 - possano essere considerati sintomi che non appartengono a un pessimismo di comodo, che gira intorno a se stesso, a un pessimismo di ghisa, appunto [...] Shakespeare affida agli attori un altissimo compito di sapienza e di responsabilità storica. Io credo ancora in questa funzione dell'attore". In un Impero della Ghisa che è anche Età dell'Oro, ossia realtà del denaro incombente come una dittatura, gli attori si fanno interpreti di una diversa istanza, proprio mentre quella realtà rischia di farli tacere. Sì, perché il Teatro di Leo, uno dei pochissimi e dei più importanti luoghi di ricerca e di sperimentazione del nostro paese (di cui De Berardinis ha avuto finora la personale responsabilità economica ed organizzativa, in regime di autosostentamento pressoché totale) rischia di chiudere, strozzato dall'esorbitanza delle spese. È possibile così che questo grandissimo artista rimanga ancora una volta senza una sede, sia privato delle condizioni in cui lavorare, della sua scuola e dei suoi collaboratori, e che debba ricominciare da capo, come già più volte ha fatto, partendo di nuovo dalle candele e dalla scena vuota, e dalla pura presenza dell'attore. Ha detto, nell'intervista già citata, che si sta compiendo in campo teatrale "una cancellazione di tutto ciò che è stato fatto negli ultimi venticinque anni": "ciò che si vuole è un pentimento globale. [...] Se si parla di qualcuno la cui formazione risale dagli anni sessanta o settanta, lo si indica poco meno che come un criminale". E ha spiegato: “Questo sistema (il sistema teatrale) prima non era migliore, ma mostrava qualche smagliatura. Ora è solido e compatto. Non si passa più". Leo pensa ai giovani, in particolare, a quelli che verranno, e che si troveranno (e già si trovano) a lavorare all'interno di un'organizzazione teatrale che da mezzo è diventata fine: che del teatro stesso ha fatto un mezzo, il mezzo per fare un certo tipo di carriera. Al termine di un seminario condotto con gli studenti del DAMS di Bologna, dopo averli portati, nel corso di una settimana di lavoro, a uno spettacolo finale di notevolissimo interesse e di eccezionale intensità, ha congedato i ragazzi con parole che toccavano questi stessi temi, che richiamavano alla responsabilità dell'attore, e ha concluso con un monito assolutamente (e altrettanto) inattuale: "Si è detto che le ideologie sono morte, e le si è messe da parte, ma attenzione, perché finite le ideologie resta solo il mercato". Nel monopolio di mercato della ghisa, ovvero nell'Età dell'Oro, la trasgressione ha le vesti del carnevale e (“per scherzo si intende”) l'imperatore, il ciambellano e il cortigiano-marinaretto interpretano la farsa dei tre morti di fame che si mettono insieme (“la nostra unione fa la debolezza”) per giocare una burla all'oste e mangiare a sue spese. Il carnevale svela il volto nascosto del potere, i suoi risvolti di emarginazione, povertà, degradazione. E l'Età dell'Oro vede ossidarsi la sua nobile materia. “Stanno stampando banconote false sotto i nostri occhi!" urla la donna in bianco e affronta l'imperatore: “Fai orrore, non paura". Alla forza aggressiva dei tempi oppone le ragioni senza tempo degli ideali: "Io sono antica e tanto futura". Ma non si illuda la vecchia talpa di far vacillare il potere scavandone le fondamenta: “Ma cosa credi di fare?" le si oppone l'imperatore "Tu non sospetti neanche la mia forza. E' solo un travestimento. Io non sono bonario. Non sono straccione. Io sì sono infinito, sono eterno, cosa credi di fare? Anche se mi seppellite, io sono una talpa gigantesca: vi assalirò come un topo enorme. Cosa credi di fare?" la musica di sottofondo è una Marsigliese lenta e drammatica. “Per lo meno sputarvi in faccia. Per lo meno dirvi che mi fate schifo. Tu e quelli come te", risponde la donna in bianco.

Doppia farsa

Sono state trovate molte fonti teatrali e letterarie per questo re atroce e grottesco. Tutte riconoscibili e appropriate perché appartenenti alla formazione teatrale di Leo, alla sua storia di attore e alla popolazione dei suoi fantasmi drammatici: l'Ubu re di Jarry, il re morente di Ionesco, il Nerone di Petrolini, Macbeth e Amleto fra Shakespeare e Totò - secondo le ormai classiche associazioni dell'artista -, e ancora Frank V di Durrenmatt e l'Arturo Ui di Brecht... ma di un'interpretazione regale ci si è dimenticati, che pure appartiene alla storia teatrale che Leo ha attraversato: il Creonte di Julian Beck nell'Antigone del Living Theatre, quel sovrano terrifico e vacillante, che nell'affermare il suo potere è solcato in volto dalle ferite del delirio regale, dall'insulto della contraddizione: come una statua di creta solo apparentemente intatta, in realtà composta di frantumi pericolanti, che cominciano impercettibilmente a disgregarsi, sfigurando in una smorfia oscena e grottesca il cipiglio del potere. A Julian Beck-Creonte fa pensare anche la figura dell'eroina che gli si oppone, col suo inutile gesto da moderna Antigone: quello sputo gettato al posto del pugno di sabbia, ossia il gesto simbolico e gratuito che è insieme azione irriducibile e rinuncia alla sopraffazione, che è contro il potere senza essere contropotere. "Dove sono i buoni vecchi assassini di un tempo? Un bel gesto romantico... " rimpiangerà Leo-Don Chisciotte. Ma non c'è una Speranza nell'Impero pesante della Ghisa per la levità degli idealisti e dei romantici. "Io ti predico molti sogni" lo maledice la bianca eroina. "Io ti predico che ti sposerò" risponde l'imperatore, esorcizzando le sue intenzioni. E nella scena seguente si celebrano le nozze. È una doppia farsa, in fondo, diceva Leo nei camerini, dopo lo spettacolo. Quella dell'imperatore magliaro, percorsa da toni truci e caricaturali, e quella dei suoi sudditi morti di fame. Le due farse si alternano e si incalzano, fra scene corali di grande effetto e siparietti d'attore assolutamente esilaranti, marce trionfali e numeri d'avanspettacolo, canzoni napoletane e brani di hard rock; con un'interruzione a teatro illuminato, circa a metà dello spettacolo, in cui Leo interrompe la finzione scenica per ricordare agli spettatori che il teatro è essenzialmente assemblea civile e che "in tempi oscuri" deve “invitare le persone a guardarsi”, deve “farsi carico di unire ciò che è disunito". Alla fine, dal turbinio delle danze che ubriacano l'impero e la sua corte in una nostalgica scena di felliniano struggimento, emerge il "primo piano" dell'Imperatore che comincia a sognare. Di nuovo suona la Marsigliese. "Questo mio sogno... inglobare il globo... in un abbraccio di amore..." Sono le parole tronfie dell'imperatore, che sembrano tracimare sazietà, untuosa e filistea: "I1 mio cuore sanguina pace... specialmente le domeniche...sanguina pace per tutti...La rosea bocca di ogni creatura della terra... nei giorni lievi della festa...il mondo va avanti...rotola...ROTOLA..."). La voce si è fatta rantolo rovinoso, tragico, rotolante, e si fa grido, urlo "Aaahhh...". Lo spettacolo è finito. Oppure l'incubo, di un mondo dalle prospettive sbieche, come le immagini che sono state via via proiettate sullo sfondo (un paesaggio urbano di Sironi, una piazza metafisica di De Chirico, un'immagine oleografica di Napoli con l'immancabile pino, le ciminiere fumanti di un paesaggio metropolitano), popolato di uomini marionetta, che marciano verso l'inedia, danzano in attesa dell'oblio, masticano parole vuote, scorie di significati...Un mondo di cui sopravvive l'urlo.

Un altissimo compito di sapienza e di responsabilità

"L'Impero della Ghisa o dell'Età dell'Oro" è una scrittura scenica, e come tale si va facendo giorno per giorno, a contatto con gli attori, con i tecnici, con le idee che vengono e che vanno, con i vari spazi scenici in cui si è costretti a lavorare quando non si ha un proprio teatro: non è un testo da mettere in scena, ma un tutt'uno che nasce, e delle volte può capitare che una luce o un brano musicale suggeriscano una determinata "battuta parlata", oppure la rendano superflua, come anche può capitare che invece di impiegare un certo numero di movimenti di attori, o di luci o brani sonori basti l'invenzione di una semplice "battuta parlata", di una semplice intonazione per risolvere un eventuale problema espressivo. Un modo di far teatro molto mobile, aperto a molteplici soluzioni.
Ogni mio lavoro nasce da sollecitazioni interne, e non per commissione, e quest'ultimo lavoro nasce da un senso di orrore: la visione di un mondo in frantumi, scardinato da ogni possibile punto di riferimento che abbia un minimo di pensiero, un minimo progetto umano. Un mondo che si contorce in se stesso, nella sua immobilità, nella sua riorganizzazione in altri fallimenti. Un viaggetto alla cieca, verso un punto oscuro dell'universo.
Siamo in un Impero pesante, oppressivo, di ghisa appunto, più pesante del ferro, e la mitica Età dell'Oro è soltanto un sottotitolo ironico che allude sì all'oro, ma nel senso di lingotti d'oro di una qualsiasi Banda Bassotti.
Quest'Impero è anche attraversato da lampi umani, tentativi di evasione: in una (probabile o improbabile) farsa, ricavata da un vecchio canovaccio napoletano, rielaborato da me, presenze poetiche (Giulietta di Shakespeare e forse un barlume di Don Chisciotte) ma sembra che tutto poi vada a crollare in un buco nero di una profonda Galassia a destra del sole in un ultimo insensato valzer.
Quindi una scrittura scenica che per il momento sembra procedere su binari molto pessimistici. Ma io credo che la consapevolezza almeno di questo viaggio allucinante, e la sua rappresentazione possano essere considerati sintomi che non appartengono a un pessimismo di comodo, che gira intorno a se stesso, a un pessimismo di ghisa appunto, sostenuto e protetto da un bel sottotitolo d'oro: tutt'altro. Shakespeare affida agli attori un altissimo compito di sapienza e di responsabilità storica. Io credo ancora in questa funzione dell'attore. Un artista che in tempi oscuri si oppone all'oscurità, non vi collabora, a costo di qualsiasi disagio, e che in tempi costruttivi e di speranza li alimenta.
E' un testimone e un uomo d'azione.
Quello che posso dire è che spero che i risultati non siano molto lontani dalle intenzioni. Un attore reinventa la vita, bisogna che la conosca e se ne assuma la responsabilità, senza lamentele e senza comode dichiarazioni d'impotenza. Sennò, cambi mestiere.

Leo de Berardinis


L'IMPERO DELLA GHISA
O DELL'ETA' DELL'ORO

con Leo di Berardinis l'imperatore; Elena Bucci la donna in nero; Francesca Mazza la sposa; Gino Paccagnella il figlio a pois dell'imperatore; Toni Servillo il ciambellano; Marco Sgrosso il figlio curvilineo dell'imperatore; Paola Vandelli la signora padam-padum-pà; Enzo Vetrato il marinaretto.
Regia, ideazione, luci, spazio scenico, colonna sonora: Leo di Berardinis.