Nella decisione di emigrare c'è una lacerazione
immediata, mista ad una sproporzionata speranza rovesciata sul
nuovo territorio su cui si punta. L'emigrazione ha anche segnato
profondamente la storia del movimento operaio e l'intreccio fra
le comunità degli sfruttati e i gruppi di opposizione al
sistema. Questo scritto, di un uruguaiano nato in Spagna durante
la guerra civile poi costretto all'esilio, è apparso sul
numero 3 - 1981 della rivista anarchica "Volontà"
in un numero dedicato al tema dell'utopia. Segue (a pag. 34) un
saggio di Furio Biagini dedicato all'emigrazione libertaria ebraica
in Inghilterra. Il saggio è stato presentato al
convegno su "L'esilio nella storia del movimento operaio e
l'emigrazione economica" (Reggio Emilia 6-7 dicembre 1990),
organizzato da: Fondazione di Studi Storici Filippo Turati,
Università di Barcellona e Friedich Ebert Stiffung.
Dietro ogni utopia c'è sempre un territorio, ma un
territorio che non è "qui", un territorio
sempre lontano, distanziato dalla realtà immediata, nello
spazio e nel tempo. Nel tempo, quando l'utopia rivendica il passato
come "un'età dell'oro" o scommette sul futuro con
fede e speranza. Nello spazio, quando l'utopia si colloca in un
paese o in un'isola lontana, in uno spazio più o meno
sconosciuto o immaginario. La lontananza geografica è la
migliore garanzia della possibile esistenza dell'utopia, un
carattere di "isolamento insulare" che è
all'origine stessa delle opere concepite da Moro e
Campanella. Mentre però l'utopia nel tempo suppone un
divenire storico più o meno idealizzato, l'utopia
nello spazio può prescindere da ogni causalità
storica. La "distanza" e l'esotismo che ne consegue
evitano di dover giustificare ogni processo o di cercar di provocare
una trasformazione e di far fronte alle sue leggi
ineluttabili. Questo carattere "astorico" dell'utopia
nello spazio, indipendente da ogni divenire e casualità,
spiega il grande fascino esercitato dalla immagine di lontane "terre
promesse" sull'animo umano. Emigrare è sempre un modo di
sfuggire ad un destino storico e di accedere ad una possibile utopia
nello spazio senza lo sforzo della trasformazione rivoluzionaria
dell'ambiente in cui si vive. Ogni essere umano è
emigrante potenziale. "Ogni uomo nutre segretamente il sogno
o l'utopia di una terra promessa - ha scritto Salim Abou - di un
luogo dove, senza ostacoli possa riuscire ad essere ciò che è
o crede di essere, sviluppare la sua identità personale e
culturale senza essere conculcato". L'aspirazione a
stabilire una "distanza spaziale" fra il luogo di
residenza abituale, quotidiano, e lo spazio utopico lontano è
inerente alla condizione umana degli oppressi che non vedono altro
modo di sfuggire alle loro circostanze storiche. Queste circostanze
possono essere costituite dall'atmosfera oppressiva del villaggio
natale, dalle tradizioni rigide della loro famiglia, del loro paese
impoverito e tiranneggiato, dagli schemi della loro classe
sottomessa o della loro religione intollerante. All'origine si
tratta sempre di sfuggire, con un gesto energico e decisivo, ai
"limiti di una piccola esistenza le cui linee erano già
state tracciate in anticipo", o di uscire "dallo strato
sociale cristallizzato cui si appartiene" per andare verso un
territorio sconosciuto dove si possa costruire una forma
secolarizzata di paradiso in terra. In questo movimento,
l'emigrante idealizza sempre la terra in cui va, per quanto
sconosciuta, perché l'uomo ha sempre visto la felicità
nel luogo "in cui non si trova". Nessuno è profeta
in patria, dice il proverbio popolare, spiegando il desiderio
d'emigrare, spesso avvolto nell'avventura, nel rischio,
nell'illusione di una vita migliore. Questa terra promessa può
essere la grande città per il contadino soggetto ad uno
sfruttamento feudale, può essere un paese lontano da cui
giungono le vaghe voci di chi vi ha trovato il successo, od una
terra assolutamente sconosciuta, dove "tutto è
possibile", dove si può forgiare una realtà a
misura dei desideri dell'emigrante.
Una scommessa Nella decisione di emigrare c'è una profonda lacerazione
immediata, mista ad una sproporzionata speranza rovesciata sul
nuovo territorio cui si punta. Generalmente si parte dalla
miseria, dall'oppressione e dalla scarsità e si va verso "un
paese del futuro", un "paese di Cuccagna", un
"Paradiso", come hanno testimoniato gli emigranti in
Canada, negli Stati Uniti, in Argentina ed in Brasile. Questa
realizzazione della "terra promessa" può avere un
carattere religioso, come nell'emigrazione biblica del popolo
ebreo guidato da Mosè o il carattere di una "rivelazione",
come la leggenda che circolava all'inizio di questo secolo nelle
comunità povere della Polonia orientale, dove si diceva che
la Vergine Maria aveva dissolto per i contadini polacchi le nebbie
che coprivano le terre del Paganà, trasformando quelle terre
lontane in un paradiso che era loro destinato. L'emigrante
scommette più o meno liberamente su questa "terra
promessa". A differenza di questo senso di scommessa e di
avventura, l'esule politico non ha altra alternativa che scegliere
un'altra terra, per sottrarsi alla persecuzione, alla galera e
addirittura alla morte che lo aspetta nel suo paese. L'emigrante
cerca una "terra promessa", l'esule lascia la speranza
con cui aveva cercato di forgiare l'utopia nel suo paese. Uno è
motivato dalla fede nel futuro, l'altro da quella che aveva nel
passato. L'emigrante cerca l'utopia nello spazio, l'esule l'ha
cercata nel tempo ed è stato sconfitto. Per questo
emigranti ed esuli hanno un atteggiamento diverso quando sbarcano
nella "terra promessa". Tuttavia, nonostante il diverso
atteggiamento iniziale - di aperta speranza per l'emigrante, di
amara sconfitta per l'esule - i due tendono poco a poco a
confondersi. Arrivato nella terra promessa l'emigrante trova
sempre degli ostacoli simili a quelli dell'esule: il rifiuto più
o meno diretto da parte di una società che era già
organizzata prima del suo arrivo e che sembra escluderlo, per quanto
appaia permeabile. La delusione, più o meno sfumata, attende
l'emigrante costretto a confrontare la realtà vera del "nuovo
mondo" con i suoi sogni e le sue speranze. Questa delusione lo
avvicinerà all'esule. Il mondo in cui sono approdati
entrambi, per quanto aperto sembri, è sempre popolato da un
"altro", qualcuno che vi risiedeva prima del suo arrivo.
Un'altra lingua, altre leggi, altri costumi, un'altra cultura, un
altro clima, altre dimensioni, questo carattere di altro
segna l'inevitabile prima delusione. La tensione dell'incontro
culturale segna tutte le emigrazioni, da quella di coloro che
dovettero combattere gli indigeni nell'America vergine dei secoli
XVIII e XIX, a quella dei portoricani in lotta contro gli irlandesi
per 1o spazio vitale nel West Side di New York o a quella dei
lavoratori algerini nella banlieu parigina. In questa
prima lotta l'emigrante già si confonde con l'esule politico.
Entrambi cercano di affermarsi nella nuova realtà, nessuno
cerca di dissolvere la sua identità culturale. Il loro
mondo - come ha detto Salim Abou - si divide in due zone: "Affida
le sue relazioni primarie (emozionali) alla cerchia familiare e a
quella della collettività etnica, e con la comunità
ricevente intrattiene solo relazioni secondarie, d'affari. A partire
da questa divisione, si accontenta di adottare i modelli di condotta
pubblica richiesti dal nuovo paese e conserva intatti i modi di
pensare e di sentire ereditati dalla sua cultura originaria. Ciò
che cerca nell'ambiente familiare od etnico sono sostegni effettivi
solidi, che gli permettono di affrontare senza troppa angoscia il
processo conflittuale che gli provoca la necessità imperiosa
di imparare un nuovo codice culturale in un clima di pressione
emozionale spiccata".
Ghetto culturale Entrambi, nell'impossibilità di forgiarsi l'utopia nel
loro mondo originario o nel "nuovo mondo" in cui sono
emigrati o esiliati, tendono a rifugiarsi nella nostalgia, spesso
concretizzata in riproduzioni in piccolo della vecchia realtà.
Quartieri etnici nelle grandi metropoli - cinesi, italiani,
arabi, africani si riuniscono nelle Little Italy, nelle China Town,
nei ghetti, nelle "medine", nelle città dal nome
ripreso - Barcelona, Valencia, York (Nuova York), Granada (Nueva
Granada) - ed in regioni, paesi, località dall'utopico
nome evocatore: Florida, Antille, Brasile, Perù, Jardìn
America, Puerto Alegre, Ciudad Paraìso, Puerto Eden. Ma
anche le "Case" di Spagna, si vanno moltiplicando, con
straziante nostalgia in tutta l'America che accoglie gli esuli
spagnoli, così come le "Case" dell'Uruguay,
dell'Argentina, del Cile nelle capitali europee che hanno
recentemente accolto l'ondata di esuli dell'America Latina. Tutti,
in un modo o nell'altro, cercano di salvare "qualcosa" del
paese d'origine in una società nuova che, per il solo
fatto di essere differente, non può che essere ostile.
Così, quando l'utopia non è stata possibile là
(esuli) o non è possibile qui ed ora (emigrati),
non resta che tentare l'integrazione. Ma, come ha detto Pierre
George, "l'integrazione passa per la neutralizzazione delle
delusioni" . Questa neutralizzazione delle delusioni è
molto più difficile nell'esule, perché l'emigrante è
più motivato nell'accostarsi alla "terra promessa"
ed è più disposto a priori a lasciarsi sedurre dai
costumi del paese in cui emigra. Per l'esule, invece, la rinuncia al
progetto originario d'utopia, che fu sconfitto e che lo spinse
all'esilio, è generalmente molto dura. L'esule tende a
rifugiarsi in un ghetto culturale e politico che rifiuta la società
che lo circonda, che si rifugia in una memoria immobilizzata nel
tempo (al tempo della sconfitta del progetto utopico e della rottura
con il suo ambiente originario) e che rinuncia a progetti nuovi
nella terra che lo ha accolto, perché spera sempre che tutto
tornerà ad essere possibile nel suo paese d'origine. Questa
speranza che tutto tornerà come prima è la stessa sia
per l'espatriato serbo o bulgaro che sogna le vecchie monarchie
sconfitte, sia per l'esule spagnolo che per quarant'anni ha
aspettato la caduta "imminente" di Franco, sia per il
cileno che fervidamente sogna il crollo di Pinochet ogni volta che
legge un trafiletto di agenzia di un giornale pubblicato in una
lingua che non è la sua. Neutralizzare le delusioni,
integrarsi, è solo possibile a costo di molte concessioni, in
cui si perdono i brandelli della concezione utopica. Tuttavia,
per quanto si integri ed abbia successo, l'emigrante e l'esule
non potranno mai sentirsi totalmente accettati e riconosciuti nel
"nuovo mondo". Dietro qualunque successo ci sarà
sempre la sua condizione di "straniero", sottile o
scoperta, percettibile in un gesto, in un inevitabile accento, nella
coscienza dell'impossibilità di essere accettato in certi
circoli, anche quando non gli interessi farne parte. L'unico modo
per superare questa condizione sarà attraverso i figli, i
figli che l'emigrante o l'esule danno al paese che li ha accolti.
Il figlio non avrà coscienza del Paradiso perduto, non
spererà di essere nato nella terra dell'utopia. Questa
seconda generazione sarà naturalmente integrata nella
nuova società, ma anche quest'impresa non si realizzerà
senza difficoltà.
Incrocio culturale Il figlio di genitori stranieri - emigranti od esuli -, per
essere figlio completo della società in cui è nato,
deve rompere a un dato momento con il suo ambiente familiare, con le
tradizioni che lo caratterizzano, ed in questa rivolta c'è
una nuova lacerazione. La distruzione del passato dei genitori,
l'annientamento totale dell'utopia paterna è il prezzo che
si paga per l'integrazione ed il successo dei figli. Negare la
ricerca dell'Utopia temporale e storica degli uni o il movimento
migratorio degli altri è un'affermazione sedentaria, e dunque
di successo, dei figli nella nuova società. Il movimento
migratorio dei padri nello spazio geografico deve continuare nello
spazio mentale dei figli. Tuttavia, generalmente, ciò che
gli uni e gli altri vedono come una rottura totale non è che
una forma di metamorfosi; ciò che produce la perdita
dell'identità culturale originaria non è altro che un
arricchimento della nuova società, un'alternativa di
pluralismo culturale e di diversificazione, sempre positivi e
soprattutto dinamizzati. L'emigrazione e l'esilio non devono
essere visti alla luce dell'utopia perduta nella terra d'origine
o nella terra promessa, ma alla luce di un risultato più
modesto, ma molto più palese e tangibile: l'incrocio
culturale. "E' l'acculturazione che trasforma le società
chiuse in società aperte; l'incontro delle civiltà, i
loro incroci, le loro interpenetrazioni sono fattori di progresso, e
la malattia, quando c'è malattia, non è che il
rovescio della dinamica sociale e culturale", ha scritto Roger
Bastide. Ma anche se il risultato finale è lontano dal
proposito originale, questa situazione non può mai essere
motivo per abbandonare nuove possibili utopie. Solo grazie alla
loro presenza permanente potrà continuare la dinamica e l'inevitabile gioco dialettico tra mito
e realtà. Quanti figli
di esuli spagnoli in America sono oggi esuli latino-americani in
Europa? Quanti figli di questi figli cercheranno o saranno costretti
a cercare in futuro nuovi scenari per l'Utopia? Emigrazione ed
esilio hanno fatto la storia dell'umanità; emigrazione ed
esilio continueranno a fare la storia dell'utopia.