Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 186
novembre 1991


Rivista Anarchica Online

Utopia, terra promessa
di Fernando Ainsa

Nella decisione di emigrare c'è una lacerazione immediata, mista ad una sproporzionata speranza rovesciata sul nuovo territorio su cui si punta. L'emigrazione ha anche segnato profondamente la storia del movimento operaio e l'intreccio fra le comunità degli sfruttati e i gruppi di opposizione al sistema. Questo scritto, di un uruguaiano nato in Spagna durante la guerra civile poi costretto all'esilio, è apparso sul numero 3 - 1981 della rivista anarchica "Volontà" in un numero dedicato al tema dell'utopia. Segue (a pag. 34) un saggio di Furio Biagini dedicato all'emigrazione libertaria ebraica in Inghilterra. Il saggio è stato presentato al convegno su "L'esilio nella storia del movimento operaio e l'emigrazione economica" (Reggio Emilia 6-7 dicembre 1990), organizzato da: Fondazione di Studi Storici Filippo Turati, Università di Barcellona e Friedich Ebert Stiffung.

Dietro ogni utopia c'è sempre un territorio, ma un territorio che non è "qui", un territorio sempre lontano, distanziato dalla realtà immediata, nello spazio e nel tempo. Nel tempo, quando l'utopia rivendica il passato come "un'età dell'oro" o scommette sul futuro con fede e speranza. Nello spazio, quando l'utopia si colloca in un paese o in un'isola lontana, in uno spazio più o meno sconosciuto o immaginario. La lontananza geografica è la migliore garanzia della possibile esistenza dell'utopia, un carattere di "isolamento insulare" che è all'origine stessa delle opere concepite da Moro e Campanella. Mentre però l'utopia nel tempo suppone un divenire storico più o meno idealizzato, l'utopia nello spazio può prescindere da ogni causalità storica. La "distanza" e l'esotismo che ne consegue evitano di dover giustificare ogni processo o di cercar di provocare una trasformazione e di far fronte alle sue leggi ineluttabili.
Questo carattere "astorico" dell'utopia nello spazio, indipendente da ogni divenire e casualità, spiega il grande fascino esercitato dalla immagine di lontane "terre promesse" sull'animo umano. Emigrare è sempre un modo di sfuggire ad un destino storico e di accedere ad una possibile utopia nello spazio senza lo sforzo della trasformazione rivoluzionaria dell'ambiente in cui si vive. Ogni essere umano è emigrante potenziale. "Ogni uomo nutre segretamente il sogno o l'utopia di una terra promessa - ha scritto Salim Abou - di un luogo dove, senza ostacoli possa riuscire ad essere ciò che è o crede di essere, sviluppare la sua identità personale e culturale senza essere conculcato". L'aspirazione a stabilire una "distanza spaziale" fra il luogo di residenza abituale, quotidiano, e lo spazio utopico lontano è inerente alla condizione umana degli oppressi che non vedono altro modo di sfuggire alle loro circostanze storiche. Queste circostanze possono essere costituite dall'atmosfera oppressiva del villaggio natale, dalle tradizioni rigide della loro famiglia, del loro paese impoverito e tiranneggiato, dagli schemi della loro classe sottomessa o della loro religione intollerante. All'origine si tratta sempre di sfuggire, con un gesto energico e decisivo, ai "limiti di una piccola esistenza le cui linee erano già state tracciate in anticipo", o di uscire "dallo strato sociale cristallizzato cui si appartiene" per andare verso un territorio sconosciuto dove si possa costruire una forma secolarizzata di paradiso in terra.
In questo movimento, l'emigrante idealizza sempre la terra in cui va, per quanto sconosciuta, perché l'uomo ha sempre visto la felicità nel luogo "in cui non si trova". Nessuno è profeta in patria, dice il proverbio popolare, spiegando il desiderio d'emigrare, spesso avvolto nell'avventura, nel rischio, nell'illusione di una vita migliore. Questa terra promessa può essere la grande città per il contadino soggetto ad uno sfruttamento feudale, può essere un paese lontano da cui giungono le vaghe voci di chi vi ha trovato il successo, od una terra assolutamente sconosciuta, dove "tutto è possibile", dove si può forgiare una realtà a misura dei desideri dell'emigrante.

Una scommessa
Nella decisione di emigrare c'è una profonda lacerazione immediata, mista ad una sproporzionata speranza rovesciata sul nuovo territorio cui si punta. Generalmente si parte dalla miseria, dall'oppressione e dalla scarsità e si va verso "un paese del futuro", un "paese di Cuccagna", un "Paradiso", come hanno testimoniato gli emigranti in Canada, negli Stati Uniti, in Argentina ed in Brasile. Questa realizzazione della "terra promessa" può avere un carattere religioso, come nell'emigrazione biblica del popolo ebreo guidato da Mosè o il carattere di una "rivelazione", come la leggenda che circolava all'inizio di questo secolo nelle comunità povere della Polonia orientale, dove si diceva che la Vergine Maria aveva dissolto per i contadini polacchi le nebbie che coprivano le terre del Paganà, trasformando quelle terre lontane in un paradiso che era loro destinato.
L'emigrante scommette più o meno liberamente su questa "terra promessa". A differenza di questo senso di scommessa e di avventura, l'esule politico non ha altra alternativa che scegliere un'altra terra, per sottrarsi alla persecuzione, alla galera e addirittura alla morte che lo aspetta nel suo paese. L'emigrante cerca una "terra promessa", l'esule lascia la speranza con cui aveva cercato di forgiare l'utopia nel suo paese. Uno è motivato dalla fede nel futuro, l'altro da quella che aveva nel passato. L'emigrante cerca l'utopia nello spazio, l'esule l'ha cercata nel tempo ed è stato sconfitto.
Per questo emigranti ed esuli hanno un atteggiamento diverso quando sbarcano nella "terra promessa". Tuttavia, nonostante il diverso atteggiamento iniziale - di aperta speranza per l'emigrante, di amara sconfitta per l'esule - i due tendono poco a poco a confondersi. Arrivato nella terra promessa l'emigrante trova sempre degli ostacoli simili a quelli dell'esule: il rifiuto più o meno diretto da parte di una società che era già organizzata prima del suo arrivo e che sembra escluderlo, per quanto appaia permeabile. La delusione, più o meno sfumata, attende l'emigrante costretto a confrontare la realtà vera del "nuovo mondo" con i suoi sogni e le sue speranze. Questa delusione lo avvicinerà all'esule. Il mondo in cui sono approdati entrambi, per quanto aperto sembri, è sempre popolato da un "altro", qualcuno che vi risiedeva prima del suo arrivo. Un'altra lingua, altre leggi, altri costumi, un'altra cultura, un altro clima, altre dimensioni, questo carattere di altro segna l'inevitabile prima delusione.
La tensione dell'incontro culturale segna tutte le emigrazioni, da quella di coloro che dovettero combattere gli indigeni nell'America vergine dei secoli XVIII e XIX, a quella dei portoricani in lotta contro gli irlandesi per 1o spazio vitale nel West Side di New York o a quella dei lavoratori algerini nella banlieu parigina.
In questa prima lotta l'emigrante già si confonde con l'esule politico. Entrambi cercano di affermarsi nella nuova realtà, nessuno cerca di dissolvere la sua identità culturale. Il loro mondo - come ha detto Salim Abou - si divide in due zone: "Affida le sue relazioni primarie (emozionali) alla cerchia familiare e a quella della collettività etnica, e con la comunità ricevente intrattiene solo relazioni secondarie, d'affari. A partire da questa divisione, si accontenta di adottare i modelli di condotta pubblica richiesti dal nuovo paese e conserva intatti i modi di pensare e di sentire ereditati dalla sua cultura originaria. Ciò che cerca nell'ambiente familiare od etnico sono sostegni effettivi solidi, che gli permettono di affrontare senza troppa angoscia il processo conflittuale che gli provoca la necessità imperiosa di imparare un nuovo codice culturale in un clima di pressione emozionale spiccata".

Ghetto culturale
Entrambi, nell'impossibilità di forgiarsi l'utopia nel loro mondo originario o nel "nuovo mondo" in cui sono emigrati o esiliati, tendono a rifugiarsi nella nostalgia, spesso concretizzata in riproduzioni in piccolo della vecchia realtà.
Quartieri etnici nelle grandi metropoli - cinesi, italiani, arabi, africani si riuniscono nelle Little Italy, nelle China Town, nei ghetti, nelle "medine", nelle città dal nome ripreso - Barcelona, Valencia, York (Nuova York), Granada (Nueva Granada) - ed in regioni, paesi, località dall'utopico nome evocatore: Florida, Antille, Brasile, Perù, Jardìn America, Puerto Alegre, Ciudad Paraìso, Puerto Eden. Ma anche le "Case" di Spagna, si vanno moltiplicando, con straziante nostalgia in tutta l'America che accoglie gli esuli spagnoli, così come le "Case" dell'Uruguay, dell'Argentina, del Cile nelle capitali europee che hanno recentemente accolto l'ondata di esuli dell'America Latina.
Tutti, in un modo o nell'altro, cercano di salvare "qualcosa" del paese d'origine in una società nuova che, per il solo fatto di essere differente, non può che essere ostile.
Così, quando l'utopia non è stata possibile (esuli) o non è possibile qui ed ora (emigrati), non resta che tentare l'integrazione. Ma, come ha detto Pierre George, "l'integrazione passa per la neutralizzazione delle delusioni" .
Questa neutralizzazione delle delusioni è molto più difficile nell'esule, perché l'emigrante è più motivato nell'accostarsi alla "terra promessa" ed è più disposto a priori a lasciarsi sedurre dai costumi del paese in cui emigra. Per l'esule, invece, la rinuncia al progetto originario d'utopia, che fu sconfitto e che lo spinse all'esilio, è generalmente molto dura.
L'esule tende a rifugiarsi in un ghetto culturale e politico che rifiuta la società che lo circonda, che si rifugia in una memoria immobilizzata nel tempo (al tempo della sconfitta del progetto utopico e della rottura con il suo ambiente originario) e che rinuncia a progetti nuovi nella terra che lo ha accolto, perché spera sempre che tutto tornerà ad essere possibile nel suo paese d'origine.
Questa speranza che tutto tornerà come prima è la stessa sia per l'espatriato serbo o bulgaro che sogna le vecchie monarchie sconfitte, sia per l'esule spagnolo che per quarant'anni ha aspettato la caduta "imminente" di Franco, sia per il cileno che fervidamente sogna il crollo di Pinochet ogni volta che legge un trafiletto di agenzia di un giornale pubblicato in una lingua che non è la sua.
Neutralizzare le delusioni, integrarsi, è solo possibile a costo di molte concessioni, in cui si perdono i brandelli della concezione utopica. Tuttavia, per quanto si integri ed abbia successo, l'emigrante e l'esule non potranno mai sentirsi totalmente accettati e riconosciuti nel "nuovo mondo". Dietro qualunque successo ci sarà sempre la sua condizione di "straniero", sottile o scoperta, percettibile in un gesto, in un inevitabile accento, nella coscienza dell'impossibilità di essere accettato in certi circoli, anche quando non gli interessi farne parte. L'unico modo per superare questa condizione sarà attraverso i figli, i figli che l'emigrante o l'esule danno al paese che li ha accolti. Il figlio non avrà coscienza del Paradiso perduto, non spererà di essere nato nella terra dell'utopia. Questa seconda generazione sarà naturalmente integrata nella nuova società, ma anche quest'impresa non si realizzerà senza difficoltà.

Incrocio culturale
Il figlio di genitori stranieri - emigranti od esuli -, per essere figlio completo della società in cui è nato, deve rompere a un dato momento con il suo ambiente familiare, con le tradizioni che lo caratterizzano, ed in questa rivolta c'è una nuova lacerazione. La distruzione del passato dei genitori, l'annientamento totale dell'utopia paterna è il prezzo che si paga per l'integrazione ed il successo dei figli. Negare la ricerca dell'Utopia temporale e storica degli uni o il movimento migratorio degli altri è un'affermazione sedentaria, e dunque di successo, dei figli nella nuova società. Il movimento migratorio dei padri nello spazio geografico deve continuare nello spazio mentale dei figli.
Tuttavia, generalmente, ciò che gli uni e gli altri vedono come una rottura totale non è che una forma di metamorfosi; ciò che produce la perdita dell'identità culturale originaria non è altro che un arricchimento della nuova società, un'alternativa di pluralismo culturale e di diversificazione, sempre positivi e soprattutto dinamizzati.
L'emigrazione e l'esilio non devono essere visti alla luce dell'utopia perduta nella terra d'origine o nella terra promessa, ma alla luce di un risultato più modesto, ma molto più palese e tangibile: l'incrocio culturale. "E' l'acculturazione che trasforma le società chiuse in società aperte; l'incontro delle civiltà, i loro incroci, le loro interpenetrazioni sono fattori di progresso, e la malattia, quando c'è malattia, non è che il rovescio della dinamica sociale e culturale", ha scritto Roger Bastide.
Ma anche se il risultato finale è lontano dal proposito originale, questa situazione non può mai essere motivo per abbandonare nuove possibili utopie.
Solo grazie alla loro presenza permanente potrà continuare la dinamica e l'inevitabile gioco dialettico tra mito e realtà. Quanti figli di esuli spagnoli in America sono oggi esuli latino-americani in Europa? Quanti figli di questi figli cercheranno o saranno costretti a cercare in futuro nuovi scenari per l'Utopia? Emigrazione ed esilio hanno fatto la storia dell'umanità; emigrazione ed esilio continueranno a fare la storia dell'utopia.

(traduzione di Amedeo Bertolo)