Rivista Anarchica Online
Città o
metropoli
di Gaetano Ricciardo
La critica della forma metropoli vista come
sviluppo in negativo della socialità umana e la nascita di
nuove sensibilità per una crescita decentrata e attenta alla
valorizzazione delle differenze. Ne parla in questa intervista,
Alberto Magnaghi, docente di analisi delle strutture urbanistiche e
territoriali presso l'università di Firenze, nonché
curatore del volume Il territorio dell'abitare (Franco
Angeli, 1990)
Da anni Lei si occupa di ricerche sui problemi
dello sviluppo locale. Ci spieghi a grandi linee questo progetto.
Il progetto di ricerca, sviluppato all'interno di
sette sedi universitarie italiane con collegamenti europei, è
partito sostanzialmente dalla ricerca di un superamento della forma
metropoli e della sua crescita illimitata; molte teorie tradizionali
dello sviluppo considerano l'aspetto metropolitano come definitivo,
il punto d'arrivo della storia dell'umanità; dal villaggio
neolitico alla città greca, a quella romana, alla città
medioevale e a quella barocca, infine alla città borghese
moderna, fino alla metropoli, letta come esito di un lungo processo
di progresso lineare dell'umanità. Noi siamo partiti da
un'ipotesi opposta, cioè che la metropoli sia, parafrasando
Polany, un incidente della storia, o, per dirla alla Mumford, una
forma negativa. Mumford parla del villaggio neolitico come di una
forma positiva per lo sviluppo umano, così come la città
greca e quella medioevale, e parla di altre città imperiali,
come la città romana, quella barocca e la metropoli come
forme negative per lo sviluppo dell'uomo. Quindi partiamo dalla
relativizzazione della forma metropoli, vedendola come processo di
occupazione del territorio, di distruzione di culture, di
subordinazione all'economico di tutte le relazioni umane, quindi
come la rappresentazione visibile sulla terra della logica
dell'economia come dominio. Con questa ottica abbiamo cominciato
dagli studi sul localismo, sullo sviluppo locale, andando a
ricercare tutti quei fermenti alternativi a questa forma di
materializzazione delle teorie tradizionali dello sviluppo. Abbiamo
messo insieme parecchi elementi che ci sembrano importanti per
ricercare alternative alla forma metropoli; ad esempio gli approcci
normativi allo sviluppo, cioè tutte quelle teorie nate nel
terzo mondo a seguito della crisi delle teorie della
dipendenza. Abbiamo sviluppato la discussione intorno a queste
teorie che vanno alla ricerca di modelli di sviluppo alternativi
fondati sulla self-reliance (contare sulle proprie forze); sulla
soddisfazione dei bisogni umani fondamentali, i basic needs; sugli
sviluppi ecologicamente equilibrati, sull'eco-sviluppo. Queste
teorie che partono dalla crisi dei modelli di modernizzazione del
terzo mondo, sono teorie assonanti con quelle che partono dalla
crisi per eccesso di produzione del primo mondo, e quindi con le
teorie ecologiste che assumono concetti analoghi. L'altro
elemento rilevante che abbiamo messo in evidenza è la
presenza di nuovi movimenti, non solo ambientalisti, che si muovono
sul terreno della ricerca di nuove identità e che perdono la
connotazione di movimenti residuali, pre-moderni come erano
considerati i movimenti separatisti o comunque regionalisti come
quelli irlandesi e baschi. Questi movimenti tendono invece a
dispiegarsi su tutto il territorio mondiale: dalle Repubbliche
Baltiche all'Afghanistan, dalla Jugoslavia ai paesi del terzo mondo
con assunzione di problemi etnico-linguistici come fondamenti
dell'identità. Noi leggiamo tutto questo processo come
effetto dell'emergere, dentro le metropoli, di nuove fondamentali
povertà: povertà di qualità ambientale e di
identità. Lo sviluppo della modernizzazione ha portato ad
una cultura materiale della vita in tutto il mondo, omologante, che
distrugge le identità locali, le culture e l'ambiente.
Nell'affrontare queste nuove povertà noi andiamo alla
ricerca, nelle diverse situazioni territoriali, di germi di nuove
territorialità, di nuove forme societarie e di nuovi modelli
insediativi che partono dall'assunzione di questi problemi
dimenticati e persino soffocati dallo sviluppo. Quindi la ricerca
sullo sviluppo locale è stata una ricerca che ha forti
fondamenti teorici nelle teorie alternative dello sviluppo,
nell'ecologismo e nelle nuove etnicità, ma ha anche dei
fondamenti empirici, perché la ricerca si svolge su modelli
concreti, come nel caso del progetto per la Val Bormida, o in quello
dell'area ad alto rischio Lambro-Seveso-Olona. In questa come in
altre esperienze cerchiamo di verificare questa impostazione
teorica, che nel libro "Il territorio dell'abitare",
viene affrontata in tutte le sue accezioni: urbanistica,
antropologica, geografica, filosofica ecc.
Non pensa che l'ipercentralizzazione e il
localismo siano processi complementari che si alimentano
reciprocamente?
A livello teorico noi opponiamo globalismo a
localismo; il globalismo è ipercentralizzazione. Io credo che in
questa fase storica il localismo, cioè l'affermare gli
elementi di differenza di un luogo e della sua identità
peculiare, sia un punto di vista della realtà, quindi una
politica, un modello culturale; non è un problema di scala,
di "piccolo è bello", ma un punto di vista che
privilegia nell'analisi e nel progetto tutto ciò che vi è
di peculiare in un luogo rispetto a ciò che vi è di
omologato, omologante e indifferenziato. Ora lo sviluppo della
società industriale, della modernità, ha costruito, a
nostro parere, un mondo omologato, che ha distrutto le
differenze, e questo lo chiamiamo globalismo, perché è
non solo ipercentralizzazione di comando, di potere visibile, ma
anche di modi di produrre e di stili di vita. Quindi il localismo
noi lo vediamo non come complementarietà a questo globalismo,
ma come un'opposizione, un combattere; la crescita di localismo in
questa fase storica è per noi la crescita di momenti di
erosione di questa visione del mondo omologante in cui tutte le
periferie sono uguali, tutti i prodotti sono uguali, e che ha
distrutto, secondo noi, il senso dei luoghi, la comunità e
quindi il senso del vivere umano. In questo senso la forma metropoli
è una forma che non aiuta a crescere, ma subordina a fini di
produzione, di mercato e di crescita economica che non hanno più
nessuna relazione con la crescita dell'umanità e con il suo
sviluppo positivo. Per questo non vediamo dialettica tra
localismo e globalismo, vediamo il localismo come crescita
di modelli, di stili di sviluppo, e di vita opposti a quelli
omologanti. Naturalmente queste forme societarie devono
correlarsi tra loro, non devono essere sistemi chiusi, pena la
loro decadenza, e dovranno riuscire a costruire qualcosa in un
sistema di relazioni complesso e sofisticato, che noi abbiamo
chiamato "Locale di ordine superiore", cioè un
sistema federativo in cui le relazioni sono determinate dai soggetti
e non da Stati Nazionali che li impongono o da Super-Stati o da
multinazionali dell'economia. Pensiamo, quindi, alla fondazione dei
localismi come nuova identità del mondo, supponendo che esse
si relazioneranno tra loro nelle forme che decideranno, per non
cadere nella trappola della guerra di tutti contro tutti. In
questo senso c'è una dialettica tra locale e globale, ma
qualora esista il locale, se esistono degli individui. Le
periferie non le chiamiamo individui territoriali, perché
sono luoghi che non si relazionano più l'una con l'altra,
ma si relazionano tutte con il centro, perché sono tutte
dipendenti. Allora, se una periferia non ha la possibilità di
relazionarsi con l'altra, è inutile che io dica che deve
relazionarsi: il globale che governa la periferia è un
sistema gerarchico in cui non ci sono relazioni tra periferia e
periferia, ma solo tra centro e periferia. Questo tipo di relazione
non ci piace perché distrugge opportunità di
relazione. Costruisce solo povertà e dipendenza.
Di fronte al moltiplicarsi di diversità e
differenze ci si chiede se è possibile una unificazione verso
un progetto comune.
Provo a risponderti con il lavoro che stiamo
conducendo a Milano con le etnie extra-comunitarie. Noi abbiamo
di fronte due modelli: un modello integrazionista che ha come tetto
la tolleranza; gli immigrati di altre nazionalità ed etnie
devono in qualche modo integrarsi nella cultura che li ospita.
Questo modello, è quello utilizzato fino a tempi recenti, e
vede l'immigrazione extra-comunitaria come una povertà della
città (infatti gli immigrati fanno i lavori più
poveri, sovente vengono cacciati perché non hanno lavoro e
spesso creano problemi di ordine pubblico ecc...). Dall'inchiesta
che noi abbiamo svolto su un certo numero di etnie extra-comunitarie
a Milano è emerso che queste etnie chiedono non tanto
un'integrazione nella cultura milanese, ma un riconoscimento della
loro cultura. Chiedono di poter vivere in un luogo che riconosca
la loro specificità culturale, che gli dia quindi spazio e
tempo per viverla, che gli permetta di avere relazioni con il
proprio paese, di produrre cose attinenti alla loro cultura; quindi
propongono uno scambio, in una città multirazziale che
scambia cultura alla pari. Tutto sommato, quindi propongono una
città più ricca, una città che dalla
presenza di queste etnie si arricchisce, in quanto considera le
diverse entità come individui paritari e consente loro di
sviluppare una loro specificità che viene scambiata. Se un
gruppo viene omologato non ha più nulla da scambiare, può
solo dipendere in quanto più povero. Questo concetto, tra
l'altro è un modo di affrontare il problema del terzo mondo
in una prospettiva molto interessante, perché, avendo
distrutto con la nostra teoria dello sviluppo tradizionale, la
specificità, la qualità culturale e le vie autonome
allo sviluppo del terzo mondo, rendendolo dipendente, questo fa
crescere in modo esponenziale la pressione migratoria verso
l'Europa. Ci troviamo così in una situazione in cui da una
parte si fa un discorso antirazzista, ma nel contempo continuiamo a
distruggere il terzo mondo, ed è una situazione
insostenibile, perché quando si avrà un milione di
extra-comunitari in Lombardia diventeremo tutti razzisti, in quanto
esistono questioni strutturali e materiali che non possiamo
risolvere con le ideologie. Il considerare invece queste presenze
come presenze attive in relazione con la riprogettazione dei loro
paesi d'origine e quindi con la loro forte identità culturale
è anche un modo di pensare a strategie di sviluppo con il
terzo mondo che non siano la piatta ripetizione omologante delle
strategie fallimentari che sono state portate avanti fino ad
ora. Fallimentari perché strategie di dominio e non
affatto di sviluppo e quindi la cooperazione era tale nella
misura in cui poteva esportare il nostro modello di sviluppo e
creare mercati vantaggiosi per il primo mondo. Ciò su cui
voglio insistere è che la costruzione di un mondo plurale di
tante località, di tanti luoghi dotati di identità
è un modo di arricchire un mondo che sta diventando sempre
più povero, e quindi di risolvere i problemi nord-sud.
Il federalismo è ancora un principio
valido da contrapporre alla realizzazione del villaggio globale
totalizzante?
Noi sosteniamo che contro il modello omologante,
che trasforma il mondo, come è avvenuto, per mano del
mercato mondiale, sia possibile dare impulso allo sviluppo della
creatività dei popoli, di stili di sviluppo autodeterminato;
però non possiamo dire a priori quali saranno queste forme di
sviluppo, perché pensiamo che siano i singoli popoli a
determinarle in base alla loro cultura e ai loro valori. Ci troviamo
di fronte a un problema che si pone mentre si costruisce questo
schema, ma anche successivamente, dando vita a due alternative di
scenario: uno scenario è quello della guerra di tutti
contro tutti, di tutti questi localismi che si combattono, l'altro è
uno scenario in cui tutti questi localismi assumono all'interno
della propria cultura politica il concetto di limite, la ricerca di
forme di governo della complessità, delle relazioni. E
allora, secondo me, il federalismo è ancora oggi sempre più
valido. Uno dei requisiti etici del localismo è quello di
fondarsi su culture antimperialiste, culture che interagiscono con
un mondo composto da tante diversità, determinando la
coesistenza di tante lingue. Una cultura di questo tipo si ritrova
nella cultura anarchica nella ricerca di forme di mutuo soccorso che
muovono da Kropotkin nell'individuazione nella storia di forme non
gerarchiche di comunicazione. Io penso oggi al federalismo come
alla forma del futuro delle relazioni umane tra le comunità
poiché la forma del villaggio globale ha talmente impoverito
le relazioni tra le comunità che è giunto ad esiti
catastrofici. Vedo la forma federativa, le cui specifiche modalità
sono ancora tutte da inventare, (poiché non si possono
dedurre da ripetizioni storiche) come un mondo fatto di molte
identità che si connettono in modo non gerarchico. È
quindi federativo il concetto su cui potremo attuare i rapporti
nord-sud a partire dal riconoscimento di "stili di sviluppo"
(per dirla con I. Sachs) differenziati. Inoltre le rivendicazioni
di autonomia che stanno avvenendo in tutti gli angoli del mondo,
dall'Unione Sovietica, all'Europa, all'Africa sono rivendicazioni
che prevedono sostanzialmente un sistema di tipo federale per non
ricadere in nuovi imperialismi a rovescio. Oggi esiste la
potenzialità di un progetto federativo a livello di regioni,
a livello di regione Europa, a livello di terzo mondo rispetto al
primo mondo.. Noi sul piano territoriale stiamo cercando di
tessere reti non gerarchiche tra città, tendiamo al
superamento della forma metropoli ipotizzando città di
villaggi; tanti villaggi federati che traggono il vantaggio
dall'essere federati mantenendo ognuno la propria identità. Certo,
ci muoviamo sul terreno dell'utopia, ma la nostra è un'utopia
che sta cercando di appoggiarsi ai fermenti che vediamo muoversi
nella società e nel territorio: gli elementi che emergono nel
movimento ecologista, nella mobilitazione etnica e nelle teorie
alternative allo sviluppo.
La concezione del limite che posto occupa nella
ricerca di un nuovo sviluppo locale e quali sono i criteri assunti
per ridisegnare i confini dei luoghi?
La cultura del limite occupa un posto determinante
nella nostra teoria del locale di ordine superiore e riguarda anche
la teoria della politica e quindi dell'ecologia politica, anche se
si è ancora ad uno stadio primitivo della cultura di governo
della complessità. Siamo ancora dentro forme di governo
che si ispirano alla riduzione delle complessità e delle
differenze semplificandole a ciò che è trattabile
dallo stato; siamo ancora molto indietro rispetto ad una cultura del
limite e del senso di responsabilità tra molte diversità,
oltre la democrazia formale. Ma la teoria del limite riguarda anche
l'insediamento umano rispetto all'ambiente; dedichiamo un capitolo
intero di questo libro ai limiti e ai confini della città,
proprio perché la crescita illimitata della metropoli è
altamente dissipativa di risorse, come forma di insediamento umano
gerarchizzato che costruisce sempre più territori periferici
degradati da cui attinge le proprie energie e su cui scarica i
propri rifiuti. Il nostro progetto riguarda la chiusura dei
cerchi energetici e dei rifiuti, dell'alimentazione ecc. a
microscala, progettando microstrutture urbane in cui si ricrea un
equilibrato insediamento uomo-natura: la somma di tante piccole
scale equilibrate ci restituisce un nuovo grande equilibrio. La
cultura del limite si estrinseca appunto nel ridisegnare i confini
dell'espansione urbana: questi confini sono disegnati dai fiumi,
dalle acque, dai sistemi energetici, dai sistemi dei rifiuti...
confini che definiscono le aree pedonali, i parchi. Sono confini di
senso, di identità culturali, di identità storica dei
luoghi e confini materiali, di sopravvivenza biologica della città
come ecosistema; una nuova cultura del limite produce qualità
ambientale, qualità della vita. Il disegno di questi
confini è molto complesso proprio perché non abbiamo
più mura materiali e un concetto di nemicità, ma
ci riferiamo a un concetto di riequilibrio dell'insediamento. Questi
confini sono di varia natura e si sovrappongono creando più
confini: confini dettati dalle tradizioni culturali, dalla forma
architettonica della città, dei borghi e dei quartieri,
confini linguistici, confini relativi alla produzione di energia, di
rifiuti ecc.
Non pensiamo a confini rigidi, ma ad un sistema
molto articolato che va dalla città di villaggi a più
città di villaggi, che costituiscono un sistema territoriale
di centri federati che costituiscono una relazione più
complessa a livello territoriale fino a quella che si può
definire bioregione, come un insieme di sistemi urbani che è
caratterizzato dall'avere un'unità territoriale in quanto
corrisponde ad una valle, ad un bacino fluviale... La definizione di
bioregione, secondo me, è molto complessa, siamo quindi in
difficoltà a dire quali siano i confini di una bioregione, e
sarebbe sbagliato riferirsi solo ai confini del sistema ambientale
naturale o solo ai confini del sistema linguistico-antropico. Ad
esempio per la valle del Lambro-Seveso-Olona, dove stiamo
progettando sistemi alternativi per tutta quest'area ad alto
rischio, stiamo individuando due matrici fondamentali della
bioregione, uno è la ricostruzione del sistema ambientale
come base progettuale che è andato distrutto
dall'urbanizzazione, dal carico antropico dell'industria,
dall'inquinamento, dal prelievo di acqua... Noi partiamo
dall'individuazione delle condizioni di sopravvivenza del sistema
ambientale, quindi ridisegniamo un sistema insediativo ad alta
qualità dell'abitare, andando a ricercare nelle pieghe della
struttura metropolitana, nella permanenza dei centri,
nell'insediamento urbano e nell'ambiente, un sistema territoriale
completamente diverso da quello che ha come epicentro Milano. Questi
due sistemi (il sistema ambientale e il sistema dei luoghi ad alta
qualità dell'abitare) interconnessi costituiranno la
bioregione, che avrà confini molto labili e una centralità
diversa da quella attuale Milano-centrica. Immaginiamo un
territorio multipolare, multicentrico, organizzato a rete, tutto ad
alta qualità dell'abitare, che col tempo eroderà la
centralità del territorio metropolitano, marginalizzandolo e
ridisegnandolo.
È ricorrente il carattere non-gerarchico
che dovrebbe animare questo progetto, ma questo investe solo il
piano territoriale o tocca anche altri aspetti?
Per "carattere non gerarchico"
intendiamo il progetto socio-territoriale in tutte le sue forme,
innanzitutto a livello territoriale, perché riteniamo
fondamentale un sistema territoriale che non sia un sistema
centro-periferia dove tutte le funzioni più ricche sono al
centro e quelle povere in periferia. Pensiamo ad un sistema di tanti
centri, ognuno dei quali sostanzialmente autogovernato, che si
rapporta con gli altri centri con relazioni di scambio (culturali,
economiche, produttive). Naturalmente non pensiamo ad un
reticolato uniforme, poiché il territorio presenta sempre dei
punti di maggior densità e di
polarizzazione...tendenzialmente nell'individuare questa ricchezza
pensiamo all'Italia Medioevale, alle mille città libere
che si dotavano di schemi di un'altissima democrazia territoriale e
che costituiscono tuttora un'armatura territoriale rilevante per un
progetto di riequilibrio. La potenzialità futura di
questa armatura territoriale è ben esemplificata dalla
recente costituzione della rete delle piccole città
dell'Italia centrale; un'associazione di comuni che proprio sui
concetti di rete federativa, di equilibrio fra città e
territorio, di qualità urbana e ambientale, di identità
culturali fonda un manifesto che si pone in aperta alternativa al
modello metropolitano.
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