Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 183
giugno 1991


Rivista Anarchica Online

Città o metropoli
di Gaetano Ricciardo

La critica della forma metropoli vista come sviluppo in negativo della socialità umana e la nascita di nuove sensibilità per una crescita decentrata e attenta alla valorizzazione delle differenze. Ne parla in questa intervista, Alberto Magnaghi, docente di analisi delle strutture urbanistiche e territoriali presso l'università di Firenze, nonché curatore del volume Il territorio dell'abitare (Franco Angeli, 1990)

Da anni Lei si occupa di ricerche sui problemi dello sviluppo locale. Ci spieghi a grandi linee questo progetto.

Il progetto di ricerca, sviluppato all'interno di sette sedi universitarie italiane con collegamenti europei, è partito sostanzialmente dalla ricerca di un superamento della forma metropoli e della sua crescita illimitata; molte teorie tradizionali dello sviluppo considerano l'aspetto metropolitano come definitivo, il punto d'arrivo della storia dell'umanità; dal villaggio neolitico alla città greca, a quella romana, alla città medioevale e a quella barocca, infine alla città borghese moderna, fino alla metropoli, letta come esito di un lungo processo di progresso lineare dell'umanità.
Noi siamo partiti da un'ipotesi opposta, cioè che la metropoli sia, parafrasando Polany, un incidente della storia, o, per dirla alla Mumford, una forma negativa. Mumford parla del villaggio neolitico come di una forma positiva per lo sviluppo umano, così come la città greca e quella medioevale, e parla di altre città imperiali, come la città romana, quella barocca e la metropoli come forme negative per lo sviluppo dell'uomo.
Quindi partiamo dalla relativizzazione della forma metropoli, vedendola come processo di occupazione del territorio, di distruzione di culture, di subordinazione all'economico di tutte le relazioni umane, quindi come la rappresentazione visibile sulla terra della logica dell'economia come dominio. Con questa ottica abbiamo cominciato dagli studi sul localismo, sullo sviluppo locale, andando a ricercare tutti quei fermenti alternativi a questa forma di materializzazione delle teorie tradizionali dello sviluppo. Abbiamo messo insieme parecchi elementi che ci sembrano importanti per ricercare alternative alla forma metropoli; ad esempio gli approcci normativi allo sviluppo, cioè tutte quelle teorie nate nel terzo mondo a seguito della crisi delle teorie della dipendenza.
Abbiamo sviluppato la discussione intorno a queste teorie che vanno alla ricerca di modelli di sviluppo alternativi fondati sulla self-reliance (contare sulle proprie forze); sulla soddisfazione dei bisogni umani fondamentali, i basic needs; sugli sviluppi ecologicamente equilibrati, sull'eco-sviluppo.
Queste teorie che partono dalla crisi dei modelli di modernizzazione del terzo mondo, sono teorie assonanti con quelle che partono dalla crisi per eccesso di produzione del primo mondo, e quindi con le teorie ecologiste che assumono concetti analoghi.
L'altro elemento rilevante che abbiamo messo in evidenza è la presenza di nuovi movimenti, non solo ambientalisti, che si muovono sul terreno della ricerca di nuove identità e che perdono la connotazione di movimenti residuali, pre-moderni come erano considerati i movimenti separatisti o comunque regionalisti come quelli irlandesi e baschi. Questi movimenti tendono invece a dispiegarsi su tutto il territorio mondiale: dalle Repubbliche Baltiche all'Afghanistan, dalla Jugoslavia ai paesi del terzo mondo con assunzione di problemi etnico-linguistici come fondamenti dell'identità.
Noi leggiamo tutto questo processo come effetto dell'emergere, dentro le metropoli, di nuove fondamentali povertà: povertà di qualità ambientale e di identità. Lo sviluppo della modernizzazione ha portato ad una cultura materiale della vita in tutto il mondo, omologante, che distrugge le identità locali, le culture e l'ambiente. Nell'affrontare queste nuove povertà noi andiamo alla ricerca, nelle diverse situazioni territoriali, di germi di nuove territorialità, di nuove forme societarie e di nuovi modelli insediativi che partono dall'assunzione di questi problemi dimenticati e persino soffocati dallo sviluppo.
Quindi la ricerca sullo sviluppo locale è stata una ricerca che ha forti fondamenti teorici nelle teorie alternative dello sviluppo, nell'ecologismo e nelle nuove etnicità, ma ha anche dei fondamenti empirici, perché la ricerca si svolge su modelli concreti, come nel caso del progetto per la Val Bormida, o in quello dell'area ad alto rischio Lambro-Seveso-Olona. In questa come in altre esperienze cerchiamo di verificare questa impostazione teorica, che nel libro "Il territorio dell'abitare", viene affrontata in tutte le sue accezioni: urbanistica, antropologica, geografica, filosofica ecc.

Non pensa che l'ipercentralizzazione e il localismo siano processi complementari che si alimentano reciprocamente?

A livello teorico noi opponiamo globalismo a localismo; il globalismo è ipercentralizzazione. Io credo che in questa fase storica il localismo, cioè l'affermare gli elementi di differenza di un luogo e della sua identità peculiare, sia un punto di vista della realtà, quindi una politica, un modello culturale; non è un problema di scala, di "piccolo è bello", ma un punto di vista che privilegia nell'analisi e nel progetto tutto ciò che vi è di peculiare in un luogo rispetto a ciò che vi è di omologato, omologante e indifferenziato.
Ora lo sviluppo della società industriale, della modernità, ha costruito, a nostro parere, un mondo omologato, che ha distrutto le differenze, e questo lo chiamiamo globalismo, perché è non solo ipercentralizzazione di comando, di potere visibile, ma anche di modi di produrre e di stili di vita.
Quindi il localismo noi lo vediamo non come complementarietà a questo globalismo, ma come un'opposizione, un combattere; la crescita di localismo in questa fase storica è per noi la crescita di momenti di erosione di questa visione del mondo omologante in cui tutte le periferie sono uguali, tutti i prodotti sono uguali, e che ha distrutto, secondo noi, il senso dei luoghi, la comunità e quindi il senso del vivere umano. In questo senso la forma metropoli è una forma che non aiuta a crescere, ma subordina a fini di produzione, di mercato e di crescita economica che non hanno più nessuna relazione con la crescita dell'umanità e con il suo sviluppo positivo.
Per questo non vediamo dialettica tra localismo e globalismo, vediamo il localismo come crescita di modelli, di stili di sviluppo, e di vita opposti a quelli omologanti.
Naturalmente queste forme societarie devono correlarsi tra loro, non devono essere sistemi chiusi, pena la loro decadenza, e dovranno riuscire a costruire qualcosa in un sistema di relazioni complesso e sofisticato, che noi abbiamo chiamato "Locale di ordine superiore", cioè un sistema federativo in cui le relazioni sono determinate dai soggetti e non da Stati Nazionali che li impongono o da Super-Stati o da multinazionali dell'economia. Pensiamo, quindi, alla fondazione dei localismi come nuova identità del mondo, supponendo che esse si relazioneranno tra loro nelle forme che decideranno, per non cadere nella trappola della guerra di tutti contro tutti.
In questo senso c'è una dialettica tra locale e globale, ma qualora esista il locale, se esistono degli individui.
Le periferie non le chiamiamo individui territoriali, perché sono luoghi che non si relazionano più l'una con l'altra, ma si relazionano tutte con il centro, perché sono tutte dipendenti. Allora, se una periferia non ha la possibilità di relazionarsi con l'altra, è inutile che io dica che deve relazionarsi: il globale che governa la periferia è un sistema gerarchico in cui non ci sono relazioni tra periferia e periferia, ma solo tra centro e periferia. Questo tipo di relazione non ci piace perché distrugge opportunità di relazione. Costruisce solo povertà e dipendenza.

Di fronte al moltiplicarsi di diversità e differenze ci si chiede se è possibile una unificazione verso un progetto comune.

Provo a risponderti con il lavoro che stiamo conducendo a Milano con le etnie extra-comunitarie. Noi abbiamo di fronte due modelli: un modello integrazionista che ha come tetto la tolleranza; gli immigrati di altre nazionalità ed etnie devono in qualche modo integrarsi nella cultura che li ospita. Questo modello, è quello utilizzato fino a tempi recenti, e vede l'immigrazione extra-comunitaria come una povertà della città (infatti gli immigrati fanno i lavori più poveri, sovente vengono cacciati perché non hanno lavoro e spesso creano problemi di ordine pubblico ecc...). Dall'inchiesta che noi abbiamo svolto su un certo numero di etnie extra-comunitarie a Milano è emerso che queste etnie chiedono non tanto un'integrazione nella cultura milanese, ma un riconoscimento della loro cultura. Chiedono di poter vivere in un luogo che riconosca la loro specificità culturale, che gli dia quindi spazio e tempo per viverla, che gli permetta di avere relazioni con il proprio paese, di produrre cose attinenti alla loro cultura; quindi propongono uno scambio, in una città multirazziale che scambia cultura alla pari. Tutto sommato, quindi propongono una città più ricca, una città che dalla presenza di queste etnie si arricchisce, in quanto considera le diverse entità come individui paritari e consente loro di sviluppare una loro specificità che viene scambiata.
Se un gruppo viene omologato non ha più nulla da scambiare, può solo dipendere in quanto più povero. Questo concetto, tra l'altro è un modo di affrontare il problema del terzo mondo in una prospettiva molto interessante, perché, avendo distrutto con la nostra teoria dello sviluppo tradizionale, la specificità, la qualità culturale e le vie autonome allo sviluppo del terzo mondo, rendendolo dipendente, questo fa crescere in modo esponenziale la pressione migratoria verso l'Europa.
Ci troviamo così in una situazione in cui da una parte si fa un discorso antirazzista, ma nel contempo continuiamo a distruggere il terzo mondo, ed è una situazione insostenibile, perché quando si avrà un milione di extra-comunitari in Lombardia diventeremo tutti razzisti, in quanto esistono questioni strutturali e materiali che non possiamo risolvere con le ideologie.
Il considerare invece queste presenze come presenze attive in relazione con la riprogettazione dei loro paesi d'origine e quindi con la loro forte identità culturale è anche un modo di pensare a strategie di sviluppo con il terzo mondo che non siano la piatta ripetizione omologante delle strategie fallimentari che sono state portate avanti fino ad ora. Fallimentari perché strategie di dominio e non affatto di sviluppo e quindi la cooperazione era tale nella misura in cui poteva esportare il nostro modello di sviluppo e creare mercati vantaggiosi per il primo mondo.
Ciò su cui voglio insistere è che la costruzione di un mondo plurale di tante località, di tanti luoghi dotati di identità è un modo di arricchire un mondo che sta diventando sempre più povero, e quindi di risolvere i problemi nord-sud.

Il federalismo è ancora un principio valido da contrapporre alla realizzazione del villaggio globale totalizzante?


Noi sosteniamo che contro il modello omologante, che trasforma il mondo, come è avvenuto, per mano del mercato mondiale, sia possibile dare impulso allo sviluppo della creatività dei popoli, di stili di sviluppo autodeterminato; però non possiamo dire a priori quali saranno queste forme di sviluppo, perché pensiamo che siano i singoli popoli a determinarle in base alla loro cultura e ai loro valori. Ci troviamo di fronte a un problema che si pone mentre si costruisce questo schema, ma anche successivamente, dando vita a due alternative di scenario: uno scenario è quello della guerra di tutti contro tutti, di tutti questi localismi che si combattono, l'altro è uno scenario in cui tutti questi localismi assumono all'interno della propria cultura politica il concetto di limite, la ricerca di forme di governo della complessità, delle relazioni.
E allora, secondo me, il federalismo è ancora oggi sempre più valido. Uno dei requisiti etici del localismo è quello di fondarsi su culture antimperialiste, culture che interagiscono con un mondo composto da tante diversità, determinando la coesistenza di tante lingue. Una cultura di questo tipo si ritrova nella cultura anarchica nella ricerca di forme di mutuo soccorso che muovono da Kropotkin nell'individuazione nella storia di forme non gerarchiche di comunicazione.
Io penso oggi al federalismo come alla forma del futuro delle relazioni umane tra le comunità poiché la forma del villaggio globale ha talmente impoverito le relazioni tra le comunità che è giunto ad esiti catastrofici. Vedo la forma federativa, le cui specifiche modalità sono ancora tutte da inventare, (poiché non si possono dedurre da ripetizioni storiche) come un mondo fatto di molte identità che si connettono in modo non gerarchico. È quindi federativo il concetto su cui potremo attuare i rapporti nord-sud a partire dal riconoscimento di "stili di sviluppo" (per dirla con I. Sachs) differenziati.
Inoltre le rivendicazioni di autonomia che stanno avvenendo in tutti gli angoli del mondo, dall'Unione Sovietica, all'Europa, all'Africa sono rivendicazioni che prevedono sostanzialmente un sistema di tipo federale per non ricadere in nuovi imperialismi a rovescio. Oggi esiste la potenzialità di un progetto federativo a livello di regioni, a livello di regione Europa, a livello di terzo mondo rispetto al primo mondo..
Noi sul piano territoriale stiamo cercando di tessere reti non gerarchiche tra città, tendiamo al superamento della forma metropoli ipotizzando città di villaggi; tanti villaggi federati che traggono il vantaggio dall'essere federati mantenendo ognuno la propria identità. Certo, ci muoviamo sul terreno dell'utopia, ma la nostra è un'utopia che sta cercando di appoggiarsi ai fermenti che vediamo muoversi nella società e nel territorio: gli elementi che emergono nel movimento ecologista, nella mobilitazione etnica e nelle teorie alternative allo sviluppo.

La concezione del limite che posto occupa nella ricerca di un nuovo sviluppo locale e quali sono i criteri assunti per ridisegnare i confini dei luoghi?

La cultura del limite occupa un posto determinante nella nostra teoria del locale di ordine superiore e riguarda anche la teoria della politica e quindi dell'ecologia politica, anche se si è ancora ad uno stadio primitivo della cultura di governo della complessità. Siamo ancora dentro forme di governo che si ispirano alla riduzione delle complessità e delle differenze semplificandole a ciò che è trattabile dallo stato; siamo ancora molto indietro rispetto ad una cultura del limite e del senso di responsabilità tra molte diversità, oltre la democrazia formale. Ma la teoria del limite riguarda anche l'insediamento umano rispetto all'ambiente; dedichiamo un capitolo intero di questo libro ai limiti e ai confini della città, proprio perché la crescita illimitata della metropoli è altamente dissipativa di risorse, come forma di insediamento umano gerarchizzato che costruisce sempre più territori periferici degradati da cui attinge le proprie energie e su cui scarica i propri rifiuti.
Il nostro progetto riguarda la chiusura dei cerchi energetici e dei rifiuti, dell'alimentazione ecc. a microscala, progettando microstrutture urbane in cui si ricrea un equilibrato insediamento uomo-natura: la somma di tante piccole scale equilibrate ci restituisce un nuovo grande equilibrio.
La cultura del limite si estrinseca appunto nel ridisegnare i confini dell'espansione urbana: questi confini sono disegnati dai fiumi, dalle acque, dai sistemi energetici, dai sistemi dei rifiuti... confini che definiscono le aree pedonali, i parchi. Sono confini di senso, di identità culturali, di identità storica dei luoghi e confini materiali, di sopravvivenza biologica della città come ecosistema; una nuova cultura del limite produce qualità ambientale, qualità della vita.
Il disegno di questi confini è molto complesso proprio perché non abbiamo più mura materiali e un concetto di nemicità, ma ci riferiamo a un concetto di riequilibrio dell'insediamento. Questi confini sono di varia natura e si sovrappongono creando più confini: confini dettati dalle tradizioni culturali, dalla forma architettonica della città, dei borghi e dei quartieri, confini linguistici, confini relativi alla produzione di energia, di rifiuti ecc.
Non pensiamo a confini rigidi, ma ad un sistema molto articolato che va dalla città di villaggi a più città di villaggi, che costituiscono un sistema territoriale di centri federati che costituiscono una relazione più complessa a livello territoriale fino a quella che si può definire bioregione, come un insieme di sistemi urbani che è caratterizzato dall'avere un'unità territoriale in quanto corrisponde ad una valle, ad un bacino fluviale... La definizione di bioregione, secondo me, è molto complessa, siamo quindi in difficoltà a dire quali siano i confini di una bioregione, e sarebbe sbagliato riferirsi solo ai confini del sistema ambientale naturale o solo ai confini del sistema linguistico-antropico.
Ad esempio per la valle del Lambro-Seveso-Olona, dove stiamo progettando sistemi alternativi per tutta quest'area ad alto rischio, stiamo individuando due matrici fondamentali della bioregione, uno è la ricostruzione del sistema ambientale come base progettuale che è andato distrutto dall'urbanizzazione, dal carico antropico dell'industria, dall'inquinamento, dal prelievo di acqua... Noi partiamo dall'individuazione delle condizioni di sopravvivenza del sistema ambientale, quindi ridisegniamo un sistema insediativo ad alta qualità dell'abitare, andando a ricercare nelle pieghe della struttura metropolitana, nella permanenza dei centri, nell'insediamento urbano e nell'ambiente, un sistema territoriale completamente diverso da quello che ha come epicentro Milano.
Questi due sistemi (il sistema ambientale e il sistema dei luoghi ad alta qualità dell'abitare) interconnessi costituiranno la bioregione, che avrà confini molto labili e una centralità diversa da quella attuale Milano-centrica.
Immaginiamo un territorio multipolare, multicentrico, organizzato a rete, tutto ad alta qualità dell'abitare, che col tempo eroderà la centralità del territorio metropolitano, marginalizzandolo e ridisegnandolo.

È ricorrente il carattere non-gerarchico che dovrebbe animare questo progetto, ma questo investe solo il piano territoriale o tocca anche altri aspetti?


Per "carattere non gerarchico" intendiamo il progetto socio-territoriale in tutte le sue forme, innanzitutto a livello territoriale, perché riteniamo fondamentale un sistema territoriale che non sia un sistema centro-periferia dove tutte le funzioni più ricche sono al centro e quelle povere in periferia. Pensiamo ad un sistema di tanti centri, ognuno dei quali sostanzialmente autogovernato, che si rapporta con gli altri centri con relazioni di scambio (culturali, economiche, produttive).
Naturalmente non pensiamo ad un reticolato uniforme, poiché il territorio presenta sempre dei punti di maggior densità e di polarizzazione...tendenzialmente nell'individuare questa ricchezza pensiamo all'Italia Medioevale, alle mille città libere che si dotavano di schemi di un'altissima democrazia territoriale e che costituiscono tuttora un'armatura territoriale rilevante per un progetto di riequilibrio.
La potenzialità futura di questa armatura territoriale è ben esemplificata dalla recente costituzione della rete delle piccole città dell'Italia centrale; un'associazione di comuni che proprio sui concetti di rete federativa, di equilibrio fra città e territorio, di qualità urbana e ambientale, di identità culturali fonda un manifesto che si pone in aperta alternativa al modello metropolitano.