Rivista Anarchica Online
"A" proposito
di AA. VV.
Ecco un'altra decina di interventi nella riflessione/dibattito iniziata sull'ormai lontano numero di settembre. A
noi pare che il solo fatto che decine di persone si siano espresse sia già di per sé indicativo
dell'interesse che "A" comunque suscita. Interessante è il fatto che non solo gli anarchici
(né tantomeno i soli militanti anarchici) abbiano detto la loro. Questa volta, poi, c'è una
novità: un intervento a fumetti. A quando il prossimo?
Noiosa, opprimente, lagnosa
Cari compari, questa è una lettera che da qualche anno
vorrei scrivere e invece non scrivo mai, non per pigrizia ma per
l'eccessiva distanza che mi sembra ci separi. Cercando di essere il
più sintetico possibile elimino le critiche tipo grafica e
rubriche, già esposte da altri e, per me, rilevanti ma non
fondamentali. E' necessario premettere che trovo poche cose più
squallide di due anarchici che litigano, su chi sia più
anarchico, o di chi infligge scomuniche o bacchettate a destra e
sinistra convinto di essere, lui e il suo gruppetto, gli unici veri
anarchici viventi. Quindi io rifiuto la definizione di anarchico
come ogni altra definizione che vada al di là di un utilizzo
pragmatico e contingente, e che, con il potere totalizzante delle
definizioni, si trasformi nel tentativo di costruire un'ortodossia.
Le ortodossie mi fanno tutte schifo. E forse quello che mi spinge -
da tanto - a comprare "A" è la sensazione di essere
almeno parzialmente in sintonia su questo punto, dato che in genere
non state neanche voi ad esaminare il patentino di anarchico della
gente. Altri punti non so se ce ne sono.
1. La rivista è noiosa, opprimente, lagnosa. Come
sottotitolo ci metterei scritto "Una risata ci seppellirà".
Sembra che sia fatta non per necessità e godimento personale
dei redattori ma per il senso del dovere di testimoniare le
malefatte del potere o i barlumi di libertà che si accendono
di tanto in tanto nel mondo. Faccio eccezione per Carlo Oliva e non
la faccio per Andrea Papi, che una o due volte all'anno ci infligge
il supplizio di un articolo sull'astensionismo, sentendo
evidentemente una voce interna che gli ordina di salvare i poveri
peccatori - i votanti. Oppure andatevi a leggere Pandin di qualche
anno fa quando su Rockerilla scriveva sul punk anarchico, e poi
paragonarlo alle pallosissime cronache su comatosi festival
francesi dove quattro intellettualucoli ne ascoltano altri quattro
che suonano, e tutti e otto - con Marco nove- pensano che Public
Enemy, BDP, Ice-T, NWA, Geto Boys fanno solo musica da discoteca ed
è per questo che vendono milioni di dischi. Allora, dato che
da bravo bambino di educazione cattolica mi sento in colpa se faccio
solo critiche distruttive, evitando il paragone con altra stampa
sedicente anarchica, vi suggerisco di andarvi a vedere, ad esempio,
Decoder. E' vero che dentro potete trovarci anche un sacco di
puttanate, ma la sensazione è che sia un giornale fatto da
chi non ne può fare a meno, e gode nell'infilare il naso,
le dita e le antenne in quello che ci sta attorno, dal rap - appunto
- al tetrapack. Quando compro Decoder mi sento 13 anni, quando
compro "A" me ne sento 52.
2. Ehilà, belli, ve ne siete accorti che c'è un
movimento? Se non ve ne siete accorti ve lo dico io. Gli ottanta
del surgelamento sono finiti, Abbiamo occupato le facoltà per
mesi e non tutti sono tornati a casa a studiare e basta. Le
manifestazioni si stanno facendo più frequenti, più affollate
e anche più incazzate. In molte città i centri sociali
diventano non solo il rifugio degli ultimi moicani, ma centri di
aggregazione nella lotta contro il potere. Ora è notorio come
i centri di aggregazione tendano spesso a trasformarsi essi stessi
in centri di micropotere - leggi contropotere - gerarchicamente
organizzato, e se non ci vanno gli anarchici a rompere i coglioni in
queste situazioni, chi ci va? Voi credete di cavarvela con una
copertina e quindici pagine di banalità e poi, tra vent'anni,
farete un bel numero di Volontà sul 91 - o sul 92, 93... Per
chi vuole stare dentro il movimento i problemi sono e saranno
grossi. Innanzitutto quello dei "compagni di strada". Ora,
io non solo non esigo giuramenti sotto la mia bandiera, ma di
bandiere non ne posseggo in generale. Però ho bisogno di
chiedermi come si evita che il movimento venga nuovamente bruciato
da polizia, lottarmatisti, fascisti, magistratura, avanguardisti,
partiti grandi, partiti piccoli, partiti microscopici e partiti
che fanno finta di non essere partiti, ma poi partono sempre. Ci
troveremo a lottare insieme ad ecologisti, M-L, Aut. Op.,
trozkisti, demo-proletari, pacifisti e nostalgici delle BR,
potenziali sprangatori e masochisti gandhiani. Nei giorni di
festa grande ci capiteranno tra i piedi pure i giovani democratici
della sinistra, con tutta la loro moderazione e il loro nauseabondo
buon senso. Qual è il bagaglio di cultura politica con il
quale Viviana T. o Federica 71 affronteranno le prevaricazioni,
le forzature sulle assemblee, i tentativi di dirigere il movimento?
Per caso con una approfondita conoscenza delle cooperative tessili
indiane? Piuttosto urgerebbe un po' di discussione sulle
organizzazioni, sulla democrazia diretta - cioè su: "tutto
il potere all'assemblea, tutta la servitù agli individui"
-, sull'ansia di fare i capetti, sull'ossessiva necessità di
acquisire un metodo, cioè trovare, o nei migliore dei casi
crearsi, una bella bibbia che ci metta al riparo da sorprese belle o
brutte. Discussione anche su che cosa succedeva in piazza, sul
lavoro, nella scuola durante quei cazzo di anni '70 e come è
stato possibile che i padroni, lo stato, la famiglia, l'eroina, la
coppia e la televisione siano riusciti a trasformare gli "anni
affollati" in anni deserti.
3. Non so però come ne uscireste dalla discussione. Siete
tanto sulla difensiva - per gli attacchi degli ortodossi di cui
sopra - che siete diventati quasi trasparenti. Un po' come per
quel gruppo napoletano che ha come caratteristica più
spiccata quella di mettere un timbro sulle copie di "A"
che distribuisce, le vostre posizioni non si sanno, si devono
intuire. Il vostro anarchismo etico/sofferente alla Le Guin vi
porta, come lei, a ritenere che la distruzione del potere passi per
la costruzione di una Solidarietà tra gli uomini, basata su
un'Etica anarchica, su una Coscienza anarchica, alla quale gli
uomini devono Elevarsi, con un'Educazione fatta di lacrime,
sudore e Sacrificio, perché, compagni cari, il mondo è
duro e non possiamo permetterci di essere Egoisti. Ma, oibò,
ecco che ci siamo ritrovati in tasca tutto l'apparato ideologico che
il potere usa per schiacciare l'individuo con il ricatto del bene
della collettività. Solidarietà, Etica, Coscienza,
Elevazione, Educazione, Sacrificio, Altruismo: questo è il
vocabolario con il quale l'autorità ci estorce la nostra
sottomissione giorno per giorno, ripetendolo incessantemente con le
sue mille voci, dall'altare, dagli schermi, dai giornali, dalle
cattedre. Voci che spacciano la peggiore schiavitù alle
convenzioni, il mito della carriera e dell'uomo che conta, cioè
il servo più zelante, come "individualismo". Io
non ho nessuna coscienza, non mi sento solidale con nessuna
categoria, non ho morale, non voglio elevarmi, non devo insegnare
a nessuno come essere qualcun altro da se stesso, sono
crassamente egoista e non ho intenzione di fare nessun sacrificio
per nessuna collettività. E poi dovrebbe essere lampante che
su questo terreno - coscienza, solidarietà, ecc. - i marxisti
sono in possesso di un arsenale ideologico formidabile, essendo
cent'anni e più che si allenano alla sovversione disciplinata
che diventa prima o poi disciplina e basta, cosicché gli
anarcoetici sono ineluttabilmente votati alla sconfitta. Ed ora,
da lassù, riuscite ancora a sentirmi? Saluti e baci.
Giuseppe Aiello
(Barano d'Ischia)
Dov'è finita la coerenza?
Cari amici, rompo un lungo silenzio, determinato più
che altro dal fatto di non aver molto da dire. Più vado
avanti (o forse invecchio...) e più si divarica la forbice
tra come immagino l'idea e come la vedo applicata, propagandata o
soltanto discussa le poche volte che mi trovo a parlare con
anarchici militanti. Chi "fa politica", in specifico gli
anarchici, lavora inevitabilmente all'ingrosso: tutte le leggi fanno
schifo, tutti gli stati sono fascisti, tutti i padroni vanno
eliminati. In sostanza una critica che mi pare tanto ottusa nella
sua radicalità. A titolo di esempio, perché mi
rendo conto di non spiegarmi bene, sono andato ad un'assemblea
antimilitarista ad Arezzo. Bene, si alza uno, chiaramente
"spoliticizzato" che dice che non vuol fare il militare ma
non si sente di fare l'obiezione; chiede dunque perché non
esistono strutture che possano aiutare gente come lui.
Risposta: imbarazzo, e poi un discorsetto del tipo "obiezioni
diverse da quella totale non servono a niente". Un altro
chiede all'obbiettore totale presente cosa ne pensa dell'obiezione
fiscale alle spese di guerra. Imbarazzo anche qui, non si sa se la
possono fare i lavoratori dipendenti. Poi si alza il capo anarchico
che non è d'accordo, che le tasse non si devono pagare per
niente, non soltanto quelle destinate alla difesa, ma tutte. E come
se non bastasse, vengo poi a sapere che lui, lavoratore dipendente,
le tasse le paga , eccome!. Allora forse ora riuscite a capirmi:è
questa faciloneria, questa improvvisazione, questa superficialità,
questo gioco al massacro, che mi urtano: ancora di più negli
anarchici, che fanno della coerenza mezzi-fini uno dei loro
capisaldi. E della coerenza fra il sé e gli altri, cosa ne
fanno? Mi sarebbe piaciuto conoscere l'opinione dell'aspirante
evasore totale, ma alla fine non gliel'ho nemmeno chiesto. Forse
ora capirete perché al principio ho detto che non avevo molto
da dire. Ma poi si sono accumulate alcune altre cose e allora
eccomi qui. (Non marginale è il fatto comunque che a gente
per cui si prova amicizia e stima, come per voi due, bisogna pure
farglielo sapere in qualche modo che li si ricorda, no?) (...) E
poi sto sforzandomi di seguire il dibattito sulla rivista. E'
infatti per me uno sforzo seguire quella quantità di sapienti
che continuano a dirvi quello che dovete o non dovete fare, pena la
scomunica. Personalmente, credo che questo predicare a vanvera
vada ricondotto come origine al conflitto irrisolto che gli
anarchici hanno fra autorità-autoritarismo-autorevolezza: nel
dirvi ciò che dovete fare, ci trovo un fondo decisamente
autoritario. Ma trovo autorevoli voi (in altri termini: degni di
rispetto) per il fatto che da 20 anni ce la fate a far uscire
regolarmente malgrado il casino che c'è intorno, Mi pare
che in questo dibattito non siano stati valutati a sufficienza i due
elementi principali di questa (e di qualsiasi altra) impresa:
nessuno, salvo forse (e dico "forse") i velinari dei
giornali di partito, credo sia disponibile a fare da portavoce e da
cassa di risonanza ai pensieri espressi da altri. Mi sembra
dunque inutile che si dica che sulla rivista ci dovrebbe essere più
politica, oppure più storia, oppure più notizie "dal
reale": lo si faccia, accettando con modestia l'eventuale
giudizio negativo alla pubblicazione. I mezzi sono quelli che
rendono economicamente autonoma la rivista: io non credo che "A"
abbia una situazione ottima di costi e ricavi: credo al contrario
che senza le sottoscrizioni dei lettori, difficilmente potrebbe
continuare ad uscire. In un movimento evanescente come quello
anarchico, non mi sembra però che le sottoscrizioni offrano
quelle garanzie di continuità di cui un progetto editoriale
ha bisogno. Le difficoltà che ha trovato Umanità
Nova nel reperire soltanto 100 (mi pare) sostenitori a 100.000
lire al mese mi sembrano una conferma. Allora non riesco a
spiegarmi l'ottuso rifiuto che c'è della pubblicità.
Pensano forse che voi, notoriamente golosi, vendereste la rivista
alla Nestlé, in cambio di una tavoletta di cioccolato? Io non
sono contrario alla pubblicità, se utile per far quadrare i
conti. E sono convinto che in un giornale anarchico ciò si
tradurrebbe in un miglioramento qualitativo della pubblicazione.
(...) Un abbraccio a tutti voi. Dino Mosca
(Terontola)
Facere saltum
Cari compagni, a rischio di apparire lezioso vi confesserò,
in via preliminare, di essere quasi commosso per le parole di
apprezzamento nei miei confronti che alcune anime gentili hanno
voluto inserire nei loro interventi al dibattito sul presente e sul
futuro di "A". Non mi succede spesso. Salvo errore, finora
mi è toccata solo una tiratina di orecchi, da parte del
Roberto Ambrosoli, che, a quanto capisco, mi accusa d'aver scritto
sul PCI una cosa che in effetti non ho scritto, ma non importa
perché in questi casi la colpa è di chi non si fa
capire e comunque ci conosciamo, io e l'Ambrosoli, da almeno
trent'anni, per cui non è il caso di litigare. Comunque,
l'occasione buona per ringraziare il corpo redazionale al completo
per l'ospitalità e inserirmi, magari un po' surrettiziamente,
nel dibattito. Surrettiziamente perché esso dibattito ha
avuto finora una forte caratterizzazione "interna" diciamo
di "movimento", e questo è un terreno sul quale avrei qualche
difficoltà ad avventurarmi (per non dire che potrei anche non
riuscire gradito a tutti). Facciamo così: se i punti di vista
che mi azzarderò comunque a esprimere andranno troppo fuori
bersaglio, cestinate tranquilli il tutto e limitatevi a trasmettere
a chi di dovere i ringraziamenti del caso. Mi spiego subito.
Credo di essere, con l'ottimo Accame e forse qualcun altro, fra i
pochi non anarchici che collaborano abitualmente a una rivista
anarchica. E come osserva un lettore, peraltro gentile, non mi
dichiaro nemmeno tale. Il che, visto che non c'è altro mezzo
di compiere un'opzione ideologica se non quella di dichiararla, può
far nascere qualche problema, soprattutto nella prospettiva di un
periodico, come si diceva una volta, "militante" fatto
da militanti per altri militanti. E per militare, non c'è
santi, non milito: ve lo garantisco. Il particolare può
sembrare irrilevante, perché, in fondo, non mi dichiaro
neanche non anarchico, anzi ho smesso da tempo di dichiararmi
alcunché, ma mi rendo conto che non è una grandissima
consolazione. Da un punto di vista anarchico ortodosso (se un punto
di vista anarchico ortodosso non è soltanto un ossimoro) ho
parecchie mende. Tanto per cominciare, ho un passato, come le
fidanzate nei romanzi popolari di una volta. Ho bazzicato dei
partiti, come si diceva, borghesi, e - peggio - dei gruppuscoli
marxisti, le cui colpe verso il movimento anarchico non sono
state dimenticate. E anche se il passato notoriamente è
morto e sepolto almeno dagli anni '80, è vero che non mi sono
neanche pentito. Rivendico la validità delle esperienze
politiche degli anni '70 (in cui la componente anarchica ha avuto un
ruolo, per così dire, marginale) e continuo a pensare che il
marxismo sia un utile strumento di analisi critica delle realtà
politiche e sociali. Per fare un esempio a caso, ma non troppo, sono
convinto che il vecchio Marx ne sapeva qualcosa di interazione tra
bisogni materiali e costruzioni ideologiche (questione nazionale
compresa) e che quindi è proprio mediante un'analisi marxista
che si può cercare di capire qualcosa su quanto è successo
negli ultimi anni nell'Europa dell'est. Quasi tutti oggi tendono
a considerare, come minimo, poco fine utilizzare delle
categorie marxiste per analizzare la crisi di sistemi politico
sociali che si definivano marxisti, ma non so che cosa farci. Le
analisi libertarie, come dire tradizionali, corrono troppo spesso il
rischio di confondersi con quelle liberal-democratiche della grande
stampa: sapete, quella che risolve sempre tutto contrapponendo
l'amore della libertà alla tirannia e identifica l'amore
della libertà con l'adesione alla NATO, il licenziamento del
personale in esubero, l'aumento dei prezzi, l'introduzione del
catechismo nelle scuole di ogni ordine e grado e la possibilità
di assistere finalmente all'elezione di Miss Italia in diretta
TV. Certo, utilizzare delle categorie marxiste non significa
essere marxisti, nel senso di far propria una visione rigida del
mondo, aderire a ipotesi politiche predefinite o farsi zelatori di
quel socialismo che, dio solo sa perché, si definisce
"reale". E anche le analisi marxiste, quanto a questo,
corrono i loro bravi rischi: per esempio si prestano bene a
pervicaci giustificazionismi, ma questo è un altro discorso.
E comunque era solo un esempio: se interessa potremo (dovremo)
parlarne a lungo in futuro. Il fatto è che in questi anni '90
le categorie ideologiche tradizionali della sinistra, anche quelle a
cui siamo più affezionati, tendono a farsi strettine:
personalmente credo che sia utile sforzarsi di inventarne di nuove,
ma non rilutto a un oculato reimpiego di quanto già
disponibile. Mi rendo conto che è pratica che presta il
fianco ad accuse di eclettismo teorico ma, in fondo, chi se ne
frega. Mi accorgo, con qualche sgomento, che mi è scappato
l'aggettivo "libertario". Mi ero ripromesso di evitarlo
come la peste, ma tanto vale. Concorderete senza dubbio con me che è
un aggettivo comodo, ma un po' infido. Definendoci libertari (o
anti-autoritari, in caso di timidezza) potremmo trovarci tutti
d'accordo senza difficoltà, ma sarebbe un accordo da poco. E'
difficilissimo, oggi come oggi, trovare qualcuno che abbia il
coraggio di dichiararsi autoritario (credo che non lo faccia
neanche Den Xiaoping), e ciò toglie molto valore al
termine opposto. E poi ammetterete che è un'etichetta che può
coprire di tutto. Ricordo che anche i partiti borghesi e i
gruppuscoli marxisti di cui sopra, erano in teoria, libertari (in
effetti, i loro avversari li tacciavano spesso di essere "anarchici
"), ma solo l'intrinseca sbragataggine organizzativa impediva
d'essere ferrea: i dirigenti avevano il vezzo di dirigere, appunto,
e di aspettarsi che i diretti obbedissero senza fiatare se no li
espellevano, e capirete che la cosa non faceva ben sperare per le
prospettive della società che ci si proponeva di
costruire. Contraddizioni, certo, ma utili a ricordarci come sia
sempre necessario adibire anche verso se stessi la più
sagace vigilanza ideologica. In fondo, libertari non lo si è
mai abbastanza. Come dire che il termine attiene più alla
sfera degli ideali che a quella delle definizioni. E mentre è
fin troppo facile assumerlo come fine (a questo appunto servono gli
ideali), non sempre si riesce a non dubitare della possibilità
di utilizzarlo incondizionatamente come mezzo. Le petizioni di
principio, in genere, non servono un gran che e non si può
mai dire mai, se no che libertari del cavolo saremmo. Se è
vietato vietare, sarà anche vietato vietare di vietare. Il
sullodato Accame potrebbe spiegarci quali operazioni mentali
sottostiano a questi paradossi: nel concreto resta vero che chi
voglia agire (e scrivere e analizzare) con spirito libertario non
può far altro che andare avanti un po' a caso e un po' a
casaccio, stando ben attento a non sgarrare e fidando soprattutto
sul buon senso. Che, ammetto, non è una grande scoperta, dopo
quasi quattro cartelle, anche se a me basta e infatti su "A",
se non me lo impedite voi, conto di continuare a scrivere per un bel
po'. Ma il problema è un altro. E' un fatto che la maggior
parte dei compagni intervenuti nel dibattito non mi sembrano
follemente innamorati di un atteggiamento libertario generico
fondato sul buon senso. L'idea del "lettore medio di sinistra
libertario" li manda piuttosto in bestia. Scrivono che non è
la rivista a essere genericamente di sinistra è un po'
"tutto l'andazzo del movimento anarchico" ed è
chiaro che ci soffrono. Vogliono la diversità, tutta la
possibile diversità, come condizione per agire e trasformare
il mondo. Postulano un "anarchismo diffuso,... uno spirito
libertario capace di animare vasti movimenti" di fronte a cui
v'è l'incapacità degli anarchici di superare i vecchi
schemi, di intraprendere vie nuove, di provare percorsi
"alternativi". E si rifugiano in auto-deprecazioni
ermetiche, come quella secondo cui "il problema è ora
l'esaurimento di quella vivacità intellettuale e critica (e
quindi anche auto-critica) che ha finora posto il movimento
anarchico in perfetta sintonia teorica con il proprio tempo
nonostante la continua (e forse fisiologica) distonia storica"
(Ambrosoli, Ambrosoli...). Naturalmente, non essendo anarchico,
non so se sia possibile superare questi deprecabili limiti. Me lo
auguro di cuore e comunque ho la mezza convinzione che la distonia
storica in questione (suppongo voglia dire che ogni volta che hanno
provato a combinare qualcosa gli anarchici le hanno sempre prese di
santa ragione) rappresenti, nella sinistra di oggi, una condizione
privilegiata, perché, a ben pensare, in vista dei compiti che
ci aspettano è più importante averle prese che averle
date. Non so neanche se "A" abbia i titoli per esprimere
la voce del movimento anarchico, o di qualche sua parte e frazione,
o se altri siano più indicati allo scopo. E' vero che un po'
mi inquieta nel leggere occasionali deprecazioni di altre realtà
giornalistiche, a me ignote, che non sono abbastanza di movimento, o
lo sono un po' troppo, o comunque non lo sono nel modo giusto: la
cosa suscita ricordi sgradevoli, e poi è controproducente,
perché critiche del genere di solito fanno venire l'acquolina
in bocca. Il fatto è che come collaboratore di "A"
e convinto sostenitore, come tale, della pratica di analizzare,
enunciare e quindi ostacolare i comportamenti abitudinari dei
detentori del potere (e le interpretazioni del mondo che li
sostengono) adibendo all'uopo quel po' di capacità critica
collettiva che tra tutti riusciamo a mettere insieme - perché
quella di consentirsi di mettere insieme un poco di capacità
critica collettiva è la funzione di una rivista come la
nostra - ho delle perplessità. Pur auspicando che il
movimento prosperi e alligni come e più del lauro dei Salmi,
non sono sicurissimo di credere che lo sviluppo della rivista ne sia
una funzione, o viceversa. Diciamo che non credo particolarmente
all'utilità delle riviste di movimento. Allora, parliamo
di affari. Una rivista come "A" serve alla circolazione
delle idee, ed è particolarmente utile quando, come
succede in questi tempi grami, di idee non omologate agli interessi
del potere ne circolano pochine. Quindi, deve porsi come referente -
come unico indispensabile referente - dei lettori: diciamo un
settore, il più ampio possibile, di opinione pubblica. E'
improbabile che ci riesca con la purezza ideologica (anche se,
naturalmente, neanche lo sputtanamento programmatico totale è
garanzia di successo) ma questo lo sappiamo già. L'ipotesi da
verificare è che esista, tra i lettori di lingua italiana, un
settore interessato al tipo di analisi e di informazione che "A"
produce e diffonde (che tale attività rampolli dal filone
storico dell'anarchismo non è irrilevante. Ma non è
l'unico elemento da prendere in considerazione). Dico da
verificare, ma naturalmente in questi casi l'ipotesi la si da per
scontata, e al massimo la si verifica perseguendola, e se poi ci si
rompe le corna vuol dire che non era vero. "A" tira avanti
da una ventina d'anni e questo è già un dato
abbastanza confortante. Ma appunto, dicono in buona sostanza gli
intervenuti al dibattito, dopo vent'anni "A" ci ha un poco
stancato. E' sempre la stessa: carina, certo (ci scrive persino
l'Oliva), ma si può fare di meglio. Guai se non ci fosse,
ma è anche vero che corre il rischio di essere ripetitiva,
poco eccitante, un qualcosa che ci accompagna come un antico rimorso
o un vizio assurdo, o piuttosto come una buona abitudine cui non
sapremmo rinunciare ma che non ci gratifica come vorremmo con il
brivido dell'anticonformismo e dell'audacia. Ci mettiamo la maglia
di lana, apriamo l'ombrello se piove e ci leggiamo i nostri nove
numeri di "A" tutti gli anni. Lungi da noi l'idea di
lamentarci, ma... Non si potrebbe fare qualcosa di nuovo? Non
tocca a me rispondere e me ne compiaccio, perché non saprei
come. Se posso esprimere un parere da collaboratore senza
responsabilità redazionali, ma non del tutto digiuno di
giornalismo professionale, la rivista è fatta benissimo:
sfrutta al meglio le possibilità della sua formula, di cui
rappresenta l'unica accettabile incarnazione contemporanea. Al
massimo, ad essere usurata è proprio la formula che è
appunto quella, essenzialmente amatoriale, della rivista di
movimento degli anni '70 (per questo, prima, blateravo tanto di
movimento). Certo, nulla osta che la si perpetui nei secoli: nel
mondo giornalistico e sub-giornalistico allignano già
parecchi buoni esemplari di fossili viventi, di specie protette
degne tutte di qualche interesse, e probabilmente potrebbe starcene
un altro, ma, in fondo, perché? "A" merita a tutti
gli effetti l'Oscar della sua categoria (potremmo chiamarla quella
del "mercato speciale"), ma forse, per svolgere la sua
funzione, dovrebbe cercare d'uscirne. Le specie protette non possono
sperare in altro che nella sopravvivenza: noi abbiamo altri
progetti. Per realizzare i quali, dunque, bisogna provarsi a
entrare nel mercato normale. Secondo i cui standard, "A"
è attualmente un prodotto ibrido: è, più o
meno, un mensile strutturato come un settimanale. Ma naturalmente
del settimanale non ha la capacità di coprire, anche solo a
livello di commento, tutta l'attualità, e del mensile gli
manca lo spessore, inteso sia come numero di pagine sia come
ampiezza e varietà dell'analisi e dell'approfondimento. Sono
fermamente convinto che questa ambiguità vada risolta, in un
senso o nell'altro (quale, è tutto da discutere). Il
suggerimento, in definitiva, è quello di andare oltre la
dimensione amatoriale. Se non altro di provarci. Di pensarci,
almeno. Bella forza, direte: come se non ci avessimo pensato di già.
Beh, qualcuno lo doveva pur dire. So che la cosa è tutt'altro
che facile, perché quello di una rivista a vasta
distribuzione, da lanciare sul mercato, sono caratteristiche che non
si improvvisano, e nemmeno si realizzano a forza di buona volontà,
richiedendo comunque l'apprestamento preliminare di strutture
produttive e distributive di ingente impegno (in regime
capitalistico, richiedono anche la disponibilità di un
mucchio di quattrini): roba da far rizzare i capelli in testa. Ma
non impossibile, su un lasso di tempo ragionevolmente programmato. E
poi, che ci posso fare? Siete stati tanto bravi, amici redattori, da
giungere al top del settore. Adesso, o si ristagna o si prova a
facere saltum. La modestia di chi, con artigianale competenza
e quieta soddisfazione coltiva il proprio orticello non si addice a
quanti ambiscono a porsi in radicale contrapposizione con il
sistema. Per fare davvero gli anarchici bisogna essere in grado
di sobbarcarsi agli impegni dell'imprenditorialità. Vatti
a fidare della dialettica. Che il nuovo anno sia foriero di ogni
successo. Carlo Oliva (Milano)
Uscire dall'orticello
Vorrei intervenire nel dibattito sulla nostra rivista alla luce
della mia esperienza personale. Su "A" 178 Gian Franco
Bertoli poneva l'interrogativo se si credesse e si volesse
un giornale per incidere socialmente (e la società non è
fatta di soli anarchici, anzi...), oppure un giornale rivolto al
compiacimento narcisistico di un cenacolo di puri e irriducibili
custodi di un mito e di fatto, paradossalmente destinato a
rinserrarsi in un ghetto rassicurante. Nel mio relativamente
recente riavvicinamento all'ideale e, di conseguenza, al
movimento anarchico e alla sua stampa, ho purtroppo spesso avuto
la sensazione (spesso epidermica) di trovarmi di fronte ad un
insieme di sette, con relativi sacerdoti e profeti, ognuna composta
da un ipotetico popolo di eletti che aveva ricevuto da chissà
quale dio la verità rivelata, da rivendicare come "primato"
e da tenere ben stretta fra le dita. Non so se effettivamente
questa visione sia realistica, certo è l'impressione che
parecchi altri miei conoscenti, hanno ricavato da molti contatti
con alcuni compagni e con la nostra stampa. Per me, che ritorno
all'anarchismo dopo esperienze politiche differenti, anche con
le istituzioni (la grande delusione delle liste verdi, che
portandomi alla sfiducia nei confronti di qualsiasi istituzione e
delega ha aperto la strada a questo ritorno ai miei primi passi in
politica per ritrovare la strada che credo più giusta) con
ancora aperti moltissimi dei dubbi e delle sfiducie che mi hanno
spinto, nell'adolescenza, ad allontanarmene, la stampa militante,
con quel senso di chiusura a tutti i "non adepti" è
indigesta, non mi da niente, non mi fa progredire, e quindi, in un
certo senso, mi fa fare dei passi indietro. Credo che sia
importante per il movimento anarchico avere dei luoghi di
discussione aperti anche ai non anarchici e ai non "ortodossi"
per parecchi motivi. Innanzitutto perché se vogliamo non
soffocare nelle certezze (di alcuni) dobbiamo essere aperti a punti
di vista diversi, anche contrastanti, e al dubbio, al rimetterci in
discussione, dobbiamo, penso, re-imparare a dialogare senza
tranciare giudizi emarginanti e senza il timore che altri li
trancino. Inoltre, poiché siamo anche noi tutt'altro che
perfetti e poiché nella società (tanto quella attuale
quanto l'auspicata futura società anarchica) vi sono molti
problemi e situazioni di tipo non prettamente militante in cui un
anarchico dovrebbe comportarsi secondo i propri principi, di
tantissime cose anche non strettamente "politiche" (nel
senso restrittivo del termine), per proseguire e migliorare come
soggetti. Se poi vogliamo veramente costruire una società
libertaria dobbiamo uscire dal nostro orticello per cercare
di cambiare il nostro modus vivendi e farlo cambiare agli altri
soggettivamente (Gaber cantava che le idee devono essere nella
testa, ma anche nella pelle, devono essere interiorizzate,
assimilate, digerite, certo non subite). Ogni progetto di
cambiamento politico, violento oppure no, che prescinda da questo
presupposto, a mio avviso, può solo sostituire un potere
con un altro, o meglio, può sostituire le persone che
lo detengono e che lo esercitano e le forme in cui si esprime. E
questo è in contraddizione con l'idea anarchica. Una rivista
anarchica aperta serve anche per questo cambiamento. "A"
può avere anche un valore di "propaganda del fatto"
di un valore fondamentale per un anarchico: il
rispetto. Naturalmente, la funzione della rivista è anche
quella di mettere in comunicazione le diverse concezioni di
anarchia dei diversi gruppi e dei diversi compagni, interni o
esterni al movimento, possibilmente senza pregiudizi e arroganze:
da tutto e tutti, o quasi, possiamo prendere qualcosa di valido per
noi, a tutto e a tutti possiamo dare qualcosa di valido. Un
difetto, e grosso anche, a mio parere, la rivista l'ha: è la
mancanza del rifiuto della delega da parte di noi lettori. Dovremmo
imparare a sentirci tutti redattori, parte attiva e non soltanto
fruitori del lavoro altrui. Elisabetta Michelini (Sannazzaro
de' Burgondi)
Vedrai che andrà meglio
A/Rivista,
ho preso il coraggio per la coda dopo aver letto il suggerimento di
Marianne Enckell ("A" 177, "Dibattito su A/5)e, "da
collaboratore" e "da lettore" questo mese oltre alla
solita pagina di Musica & idee ho deciso di scriverti una
lettera per dirti quando e quanto mi piaci. E per parlarti un po' di
me. Non ti ho conosciuta a scuola né all'università,
anche se qualche volta, allora, ti ho sfogliata. Ti leggo con una
certa regolarità da circa dieci anni, con attenzione e
interesse e coinvolgimento variabili, comunque in costante aumento.
I primi numeri li ho acquistati perché ero più curioso
che convinto: non per il mio sesto senso storico-politico, ma mi
sentivo più attratto da te che da una rivista
socialdemocratica o da una fanzine dell'autonomia operaia. Non mi
sei piaciuta subito. Meglio, non mi è stato facile capirti
subito. A volta parlavi un'altra lingua pur mostrandomi immagini
familiari: era come starsene al cinema, a guardare un film russo
sottotitolato in tedesco o francese (spero di aver reso l'idea). Le
cose nel frattempo sono cambiate: io sono diventato più
grande - anche se continuo ad avere difficoltà con il russo ,
tedesco e francese... e con la vita in generale - e anche tu sei
cresciuta. Ospiti facce nuove e spesso diverse tra loro (pure la
mia da un bel pezzo: dal 1983...troppo?), e mi piace respirare
l'aria nuova mossa dalle tue pagine. Riesci a muovere le idee, gli
umori, a trovare posto per così tante sfumature dell'utopia
anche se in bianco e nero è difficile. Nelle pieghe della
tua sottana riesco a trovare posto anch'io, che non faccio il punk
militante ma l'impiegato, che non ho mai tirato un sasso a nessuno
né fatto a pugni ma a volte bestemmio da far schifo, che
vivo in una città di provincia grassottella, nordista e
razzista invece che nella giungla metropolitana o nelle piste
Policar dell'antagonismo. E' che mi lascio trasportare dalle
impressioni più che dalle responsabilità. Eccomi a
leggere Bruce Chatwin invece di Kropotkin o Bakunin ("marche di
vodka"... per dirla con Penny Rimbaud), ad ascoltare Annie
Anxiety ed i Crass invece che i canti libertari della guerra di
Spagna. Eccomi trascorrere il lunedì sera in compagnia di
Lucia, invece di partecipare alla riunione settimanale del
Collettivo Libertario cittadino: è l'unica sera della
settimana che posso passare assieme a mia moglie, e ho anch'io i
miei gusti. Un topo da retrovie? Mettila come vuoi, A/Rivista, ma
anche i topi sognano. Il 12 dicembre scorso ho evitato di proposito
di scendere in piazza. Le celebrazioni hanno per me un
odore insopportabile: bisognerebbe scendere in piazza perché
c'è qualcosa che non va tutte le mattine, tutti i giorni in
ogni città e paese del mondo. Ho preferito starmene per
conto mio a pensarci sopra. Ho preferito gettare qualche fiore giù
dalla finestra di casa mia tre giorni dopo, e ascoltare "Imagine"
ripensando a mio padre, con una pietra al posto del cuore per tutte
queste assenze, per tutta questa solitudine. E poi? Poi ho
cambiato idea. E l'ho cambiata ancora. Vorrei essere libero di
cambiare idea ogni volta, senza restare invischiato nella coerenza,
nell'etica, nel moralismo, specie se "alternativi'. No alla
bistecca ma sì agli stivali nuovi in vendita, no alla
repressione ma sì al pellegrinaggio al centro sociale
occupato, no alla pubblicità anarchica sul Manifesto ma sì
alle cassette e dischi autoprodotti tutti irrimediabilmente uguali,
tutti irrimediabilmente disgustosi. Eppure così vivi. Eppure
così tristemente vuoti, vuoti d'amore. Tornando a te,
volevo dirti che sono felice del tuo ventesimo compleanno. Ti sei
fatta più bella, ti sei vestita a festa. Non preoccuparti se
a qualcuno qualche volta la tua copertina non è piaciuta, se
qualche articolo ha offeso qualcuno, se sei stata fraintesa o
strumentalizzata: a vent'anni si può non essere per forza dei
sopravvissuti. Vedrai che andrà meglio: l'ho sognato,
quindi dovrà succedere. Un bacio. Marco Pandin (Padova)
Una proposta
"costruttivista"
Cerco di intrufolarmi
nel dibattito in corso - su "A", sulla pratica anarchica e
sullo schema teorico che la guida. Ci tento, lo premetto, perché
non sono sicuro di riuscirci. Concordo con le analisi di chi mi ha
preceduto - analisi ove contrasti veri e propri, divergenze
irrimediabili, non mi sembra si siano esplicitate: concordo in
particolar modo con Bertoli allorquando ci racconta di come farebbe
volentieri a meno di un giornale "consolatorio", in cambio
di un giornale che sappia "incidere sulla mentalità
collettiva e sul costume", e raccolgo il suo invito a
riflettere sulle condizioni che favorirebbero tale programma e
conseguenti risultati. Sappiamo bene tutti quanti che non si
tratta di un programma da poco. Da un lato la Concorrenza è
mostruosamente cospicua, radicata, articolata in un sistema coesivo
di istituzioni, piaghe storicizzate, centri di potere, giornalismi,
spettacolarità coatte e scemenze sacrali- il tutto
autoperpetuante come un gene perfido e rigorosamente egoista. Di
fronte a questa mole c'è di che striminzirsi. Dall'altro lato
c'è il problema, che problema benché gli anni passino
è ancora, di cosa qualifichi, in termini di un paradigma
perlomeno equipotente, l'opposizione a questa Concorrenza. In proposito se devo dire
la mia, mi tocca prenderla alla lontana. Nello scenario delle
idee al mondo, da sempre, si combattono due punti di vista
inconciliabili. Chi si riferisce ad una Realtà come
collezione di enti e di proprietà esistenti per conto
proprio, indipendentemente dall'uomo che passivamente dovrebbe
recepirla - ragion per cui la Scienza sarebbe un'impresa difficile,
ma destinata, prima o poi, a colpire nel segno ed a fornire
descrizioni dell'Autentico, del Vero e del Oggettivo, ragion per cui
Morale e Politica troverebbero già bell'e fatto un Ordine cui
analogicamente attenersi. E chi si riferisce ad una Realtà
come costruzione dell'Uomo, attivo partecipante o
addirittura creatore - ragion per cui alla Scienza tocca di
avanzare modelli il più possibile coerenti fra loro, ma senza
speranza alcuna di giungere prima o poi all'Ultimo; ragion per cui
Morale e Politica non possono riposare su alcuna giustificazione
(esterna) a chi le formula e le adotta per guidare comportamenti
propri e altrui. Platone e Aristotile (con le dovute differenze: uno
più spiritualista, rinviante ad un empireo come collezione di
garanzie di Verità; l'altro, più materialista,
rinviante a virtù tutte umane ma egualmente misteriose) da
una parte e Protagora dall'altra costituiscono un modello di
schieramento idoneo a renderci conto della filosofia classica greca,
ma pari pari modelli del genere possono rappresentare
qualsiasi epoca, oggi incluso. Il primo punto di vista ha
segnato la storia di brutto: in una versione o nell'altra, i grandi
movimenti delle masse sociali sono stati legittimati dal richiamo ad
un ordine "già fatto" cui non rimane altro che
"adeguarsi". Cristianesimo e marxismo per citare due
paradigmi ancora impari per nefandezze a carico sono saldamente
"realisti" e si differenziano di un minimo solo per il
tipo di Sanatore cui ricorrono per garantire sia la copia "esterna"
come uguale alla copia "interna", sia la sana e robusta
costituzione di Morale e Politica in grazia di un pizzico di
teleologismo (Dio e il Paradiso, la Storia e il trionfo della
Classe). Il secondo punto di vista è forse meno compatto,
mai gli ha arriso il successo popolare, ma non per questo è
esente da macchie. In certe versioni ha portato allo scetticismo più
galoppante - per cui l'impresa della scienza sarebbe un'impresa
demente, priva di qualsiasi utilità, e via smantellando a
parole e lasciando di fatto le cose come stanno; in altre, al
moderato empirismo per cui all'uomo toccherebbe di costruire le
qualità secondarie delle cose e di subire le primarie (da
cui, volendo, un po' di democrazia all'anglosassone) ; in altre
ancora, ahinoi, all'idealismo - per cui al mondo toccherebbe
d'essere la creazione di un "io" per mezzo di chissà
quali magiche virtù ("atti" più e meno
"puri"), per cui scienza, morale e politica diventano
appannaggio dell'"io" più forte; per cui democrazia
ed uguaglianza verrebbero a rappresentare la soluzione d'emergenza
del più debole. Ora, mentre le contraddizioni del secondo
punto di vista (come mai, se esco dalla stanza il tavolo è
ancora lì, anche se non ci sono più io a
percepirlo-costruirlo? Sarà anche vero che qualcosa nella
scienza non funziona, ma come mai, ogni volta che voglio farmi un
piatto di spaghetti, l'acqua messa sul fuoco, dopo un po', bolle?)
ne minano la credibilità, il primo punto di vista sembra
godere di ottima salute e riscuotere successi. A guardare le cose
con più attenzione tuttavia, ci si accorge che anche il
realismo ha il suo bel problemino. Non si può pensare che
Platone fosse così scemo da tirare in ballo una spiegazione
così palesemente insoddisfacente come l'empireo se non si
fosse accorto che nel realismo c'era qualcosa che non andava.
L'"esternità" e "l'internità"
attribuite alle cose del mondo ed alle copie che di esse ci
faremmo sono semplici metafore (interna a cosa? alla testa, al
cervello, al singolo neurone, alla sinapsi? al neurotrasmettitore?)
e anche il nome che diamo alla pretesa operazione di confronto, il
"conoscere", è una metafora (perché non
designa un confronto fra una ripetizione effettuata in due momenti,
bensì in due posti): se ipotizzo una cosa da conoscere ed
un soggetto conoscente, come faccio a garantirmi che il risultato
dell'attività del soggetto corrisponda esattamente alla
prima? Il realismo, dunque, si porta dietro la tenia del problema
"epistemologico", ma, per quanto incapace di rendersi
conto dell'impossibilità di principio del confronto
richiesto, sopravvive arzillo e beato: per economia del viver
quotidiano, noi tutti preferiamo non chiederci come operiamo nei
confronti di chicchessia e, dunque, lo prendiamo come "già
fatto"; per economia evolutiva questo "già fatto"
viene sancito in quella particolare costruzione sociale della realtà
che è il linguaggio; per logica di sviluppo tecnologico, fino
a qualche anno fa, a nessuno poteva venire in mente di simulare
artificialmente le attività umane responsabili di quel
"già fatto", (è la cibernetica che comincia
a prospettare l'idea di macchine che passino da una situazione non
linguistica ad una linguistica, di macchine che traducano da una
lingua in un'altra secondo modalità umane - cioè
comprendendo -, di macchine che percepiscano, che memorizzino e che
rappresentino il proprio ambiente, etc.); per logica di sviluppo
scientifico, fino a qualche anno fa, a nessuno poteva né
venire in mente di screditare i metodi descrittivi della fisica
classica (è la meccanica quantistica che rinunciando alla
dicotomia di teoria ondulatoria e teoria corpuscolare della luce,
mette in crisi la concezione realista tradizionale di oggetto
fisico, di osservato e di osservatore mostrandone
l'interdipendenza), né di attendersi una biologia talmente
rinnovata da intendere come proprio oggetto di studio lo stesso
fenomeno del pensiero. A iosa, il concorso di simili evenienze
spiega e il successo del realismo, e il suo attuale momento di
intrinseca debolezza. A maggior ragione vale la considerazione se
pensiamo al mondo dei Valori - mondo che da Scienza, Morale e
Politica, non senza ibridazioni più pestifere, si informa. La
millenaria pratica realista è consistita nel conferire al
Valore - qualsiasi esso fosse - lo statuto dell'ipostasi: diritto e
gerarchie sono in Natura; o in Dio (e suoi Ministri in Terra), o
nella Storia (e suoi Ministri in Terra). La nostra stessa storia,
l'autorappresentazione che in quanto collettività ci è
concessa, è un campione della capacità selettiva del
Valore. All'uomo sono state espropriate le operazioni con cui -
grazie al porre un rapporto fra due cose qualsiasi ed alla capacità
di soddisfare questo rapporto (l'acqua, positiva per l'assetato,
negativa per l'annegato) - si costruisce il valore giorno per
giorno. Il maltolto gli è stato reso Assolutizzato e si è
innescato il principio della subordinazione per masse sempre più
consistenti e sempre più immiserite nell'identità di
vittime supine. Non c'è religione, Stato o forma di potere
che non si sia asseverata tramite questo processo. Quando Marx e
altri parlano di alienazione, parzialmente, comprendono il
meccanismo di quest'infamia: purtroppo, pur sentendo il puzzo che
emana dal cadavere della filosofia e dalle discipline ideologiche,
come l'economia, da questa generate, subiscono ancora come tale il
problema epistemologico (senza imputare loro, qui, altri
"difettucci" più noti). Alla mentalità e
al costume altrui, con il dichiarato scopo d'indurvi rilevanti
cambiamenti (e l'urgenza di farlo, purtroppo, c'è), vorrei
dunque presentarmi con una proposta ben ponderata. Io, più
spesso, la chiamo metodologico-operativa (soprattutto in omaggio a
storie mie), ma, se garba di più, la si chiami pur
"costruttivista". Essa comprende l'assunzione di un punto
di vista che considera qualsiasi cosa risultato di nostre operazioni
(il ramo scientifico di questa proposta potrà specificare la
natura di queste operazioni in un modello di mente intesa come
funzione, in rapporto al cervello inteso come organo, dando l'addio
a dualismi ed a idealismi- ed è ciò di cui mi occupo
da venticinque anni a questa parte), valori inclusi; la liquidazione
del problema epistemologico come autocontraddittorio (il costrutto è
fisico se faccio queste operazioni, è psichico se ne faccio
altre; il tavolo è fisico in quanto lo localizzo spazialmente
e lo metto in una rete di rapporti con altri costrutti, come il
pavimento, il tappeto e i muri della stanza; la costruzione di
questa rete di rapporti è un indotto sociale sancito dalle
procedure percettive, dalle categorizzazioni e dal linguaggio
condiviso: è lo "stesso" tavolo di prima che
uscissi dalla stanza in quanto eseguo nei suoi confronti certe
operazioni e non altre - se ne andassi a controllare la struttura
atomica potrei parlare benissimo di un "altro" tavolo,
etc.) e, infine, la liberazione delle scienze dall'appestamento
ideologico cui sono state sottoposte (scienze cosiddette
"dell'uomo" come la psicologia e la sociologia - di cui
finalmente rimarrebbe ben poco -, la linguistica, l'antropologia,
etc., e scienze naturalistiche classiche, come la fisica e la
biologia, senza dimenticare i deliri panmatematicisti grazie al
quali l'intelligenza capitalistica tenta di mettere le ultime pezze
agli ultimi buchi). Ecco, detto un po' per sommi capi, cosa
potrebbe qualificare, a parer mio, un paradigma oppositivo alla
Concorrenza (ed ecco, per capi ancor più sommi, il senso
della mia pratica - che forse ambisce soltanto alla
caratterizzazione anarchica - e della mia collaborazione ad "A"
collaborazione che, detto in parentesi, meriterebbe un mio maggior
entusiasmo...). Un rilevatore del valore surrettiziamente
inoculato in cose e vicende e il laboratorio sperimentale di
comunità che vogliano convivere nella consapevolezza del
proprio operare creativo e nella tolleranza reciproca: è il
mio modello prediletto di giornale - uno dei pochi che mi fa
apprezzare la pena di essere ancora e sempre in minoranza.
All'insegna del "non facciamogliene passare nessuna", del
"dagli al Regime" e del "dimostriamo come se ne possa
fare a meno", senza illusioni ma fiduciosi nella chiarezza dei
nostri intenti. Affettuosamente Felice Accame
L'opinione di un "laico"
Sono un lettore non anarchico di "A". Alla rivista
sono arrivato del tutto casualmente: l'ho acquistata per la prima
volta in libreria perché avevo visto che c'era un articolo su
un argomento che mi interessava; da allora la leggo regolarmente. La
trovo interessante e mi sono persino sentito stimolato a saperne
qualcosa di più sull'anarchia, cosa che di sicuro non sarebbe
successa con altre riviste più "militanti" che ho
provato in seguito a leggere. Pur essendo tutto sommato una persona
curiosa, che legge, si interessa, ecc. e pur avendo addirittura
partecipato ai tempi del liceo ad un paio di riunioni anarchiche,
dell'anarchia avevo un'opinione molto riduttiva (gli anarchici?
Simpatici ,disinteressati, rompiscatole, peccato però che
vivano fuori dal mondo, si accontentino di utopie irrealizzabili e
così via). Il che equivale a dire che, come la stragrande
maggior parte della gente, non avevo in fin dei conti alcuna
opinione, perché una volta stabilito quanto sopra, la
questione era definitivamente liquidata. Sono contento di essere
stato costretto a cambiare idea e di avere la possibilità
ogni mese, grazie alla Rivista anarchica, di leggere cose
interessanti,.
Essendo un "laico" non posso addentrarmi nei problemi
specifici riguardanti il movimento anarchico toccati nel
dibattito in corso sulla rivista, vorrei però, se mi è
concesso, richiamare l'attenzione su alcuni punti per me
interessanti. 1) Per dirla nuda e cruda: il movimento anarchico è
un movimento (purtroppo) quasi del tutto ininfluente e più
ancora che impopolare, può essere definito come assolutamente
ignorato dalla maggior parte della gente, anche quella che
tendenzialmente potrebbe essere più aperta alla sua
cultura. Ciò è dovuto in gran parte, a mio parere,
oltre che a motivi di boicottaggio da parte del circuito informativo
e al rifiuto di scendere a patti con le strutture esistenti (motivi
che pure svolgono il loro ruolo), all'atteggiamento di chiusura con
il quale certe parti dello stesso movimento si presentano
all'esterno e all'incapacità che ne consegue di confrontarsi
con altre culture, magari molto vicine, ma non sufficientemente
"pure". Questo tipo di atteggiamento oltre che
respingere in pratica qualsiasi tipo di arricchimento
proveniente dall'esterno è ancora più negativo,
poiché è del tutto funzionale allo status quo: sarà
forse bello rimanere a contemplarsi davanti allo specchio, ma non si
contribuisce di certo a cambiare le cose in questo modo. Mi sembra
che "A" non segua questa strada e trovo questo un suo lato
positivo che andrebbe senz'altro reso ancora più marcato. Non
vedo poi nessun motivo per cui la cosa debba avvenire a scapito dl
una "forte" connotazione anarchica, anzi. 2) Molto
opportunamente è stato posto da Maria Matteo ed Emilio Penna
e da Roberto Ambrosoli ("A" 178) il problema
dell'approccio agli sconvolgimenti avvenuti nell'Europa orientale
durante l'89/90. L'"avevamo ragione noi" con il quale
molto spesso si liquida la cosa da parte anarchica rischia di
diventare un pericoloso e sclerotico autoincensamento. A parte
l'ovvio orgoglio per aver sempre preso chiaramente le distanze e per
aver sempre avversato l'ideologia sulla quale quei regimi si
reggevano, a me pare che con questo atteggiamento si rinunci a
priori ad una chiara analisi di quello che questi sconvolgimenti
comportano per tutti noi, rinunciando di conseguenza anche ad una
tempestiva ed efficace reazione. Forse alcuni anarchici non si
rendono conto del fatto che se andassero ora ad esporre anche le più
moderate e aggiornate idee libertarie ad un normale abitante della
Polonia, della Cecoslovacchia, ecc., si sentirebbero immediatamente
dare del comunista bolscevico e che in quei paesi mai come ora è
stato così forte il bisogno di delega a personalità ed
istituzioni autoritarie e mai è stato così spento il
desiderio di agire in prima persona. Questa situazione dovrebbe essere a
mio parere prima di tutto materia di riflessione e non di
celebrazione. Senza contare il fatto che bisogna qui di nuovo
constatare che l'anarchismo è rimasto, e rimane, praticamente
del tutto ininfluente anche in occasione di questi rivolgimenti di
portata storica. 3) Gli atteggiamenti di cui sopra risultano a
mio parere ancora più gravi perché
l'anarchismo avrebbe in realtà tutte le carte in regola
per svolgere un ruolo di primo piano nella situazione attuale,
prima di tutto perché è un movimento con un forte
passato e questo è un fattore che può svolgere una
funzione decisamente alternativa rispetto ad un sistema che si regge
in buona parte sulla "dimenticanza" del passato e che
sembra capace di assorbire dentro di sé quanto di nuovo
nasce; in secondo luogo perché questo passato non è
compromesso e, infine, perché la sua tradizione culturale è
particolarmente ricca, grazie alle contaminazioni con il movimento
operaio in Europa da una parte e al movimento anarchico americano di
natura più individualista dall'altra (per non parlare poi
delle esperienze molto vicine all'anarchia dell'India). Tutto
questo costituisce, secondo me, un terreno sul quale sarebbe
possibile fondare non solo nuove elaborazioni teoriche, ma anche una
prassi di azione che coinvolga i gruppi e le individualità
più svariati, senza troppe illusioni per l'immediato futuro,
visto che la realtà è per tutti quella che è.
La mia opinione di esterno è che per arrivare a questo non
sia necessario che gli anarchici si sbarazzino delle loro idee, ma
semplicemente che le vivano in maniera più libera e questo
mi sembra che "A" lo stia già facendo. Andrea
Ferrario (Milano)
Nuovi orizzonti
Un ciao vi giunga da Belluno, e più precisamente dal
Wilmer, un povero kristo attualmente ristretto presso il locale
carcere. Niente paura, non vi scrivo nell'intento di elencarvi
dubbi e dolori che accompagnano la mia terrena esistenza e neppure
nel tentativo di strapparvi favori di sorta. E allora perché
vi scrivo?
A sì, per salutarvi, o redazione di "A".
Innanzitutto per porgervi il mio plauso alla rivista.
Vi leggo ormai da luglio, come immagino capirete bene nello
"spazzo" quotidiano e nella crisi socio-morale, in cui
anche il più abbietto finisce per sguazzare.
L'arrivo della rivista viene accolto con riverenza e con
speranza, dove verrà rivoltato il coltello in questo numero?
Questa è una delle tante domande che mi pongo quando
febbrilmente lacero il bustone bianco che la contiene. È
sempre un piacere - per evitare toni enfatici- dicevo, è
sempre un piacere trovare un po' di buon senso che cola dalle firme
più disparate, e non mi va di dilungarmi: non voglio apparire
eccessivamente "sdolcinato". Cosa posso dire. Spezzo
una lancia in favore della rivista, che ha effettivamente - per me
neofita - dischiuso nuovi orizzonti. Forse dentro di me come per
istinto ho sempre avuto potenzialmente l'anarchico seme, doveva solo
crescere, anche attraverso le esperienze più disperate. Le
legnate servono (in senso figurato) a capire meglio le incongruenze
di tutto ciò che mi circonda. Lo so che non esiste una
delimitazione netta tra bene e male, tra giusto e ingiusto, l'ho
sperimentato sulla mia pelle, lo so. Ma gli sforzi e le fatiche
dovrebbero essere indirizzati nel tentativo di costruire una società
migliore e di ciò, ne sono più che convinto, la
formula attuale, falsamente democratica (solo nel nome) basata sul
capitalismo è destinata ad avere purtroppo successo. Troppe
le lusinghe che sa esibire, ma purtroppo porterà questo
pianeta al collasso, ad uno scenario da fantascienza. Temo che sarà
una titanica lotta nella quale la promulsione delle forze anarchiche
sortirà scarso effetto. Ma come tutte le forze, anche
questo binomio demokrazia e capitalismo si svilupperà fino a
non riuscire più a gravitare sul proprio fulcro ed il sistema
esploderà autoannientandosi. Ci sarà la temuta
repressione, si creeranno nuovi valori, se ne riscopriranno degli
altri e le scritture dei vecchi saggi saranno riscoperte e
adorate. Insomma, con questa tiratina non voglio dire che basta
aspettare per ritrovarci in un'età dell'oro, anzi tutti
dovremo dare il nostro contributo senza demoralizzarci ecc. ecc.
(...) Ancora grazie e a presto, Willy De Salvador (carcere
di Belluno)
|