Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 179
febbraio 1991


Rivista Anarchica Online

"A" proposito
di AA. VV.

Ecco un'altra decina di interventi nella riflessione/dibattito iniziata sull'ormai lontano numero di settembre. A noi pare che il solo fatto che decine di persone si siano espresse sia già di per sé indicativo dell'interesse che "A" comunque suscita. Interessante è il fatto che non solo gli anarchici (né tantomeno i soli militanti anarchici) abbiano detto la loro. Questa volta, poi, c'è una novità: un intervento a fumetti. A quando il prossimo?

Noiosa, opprimente, lagnosa

Cari compari,
questa è una lettera che da qualche anno vorrei scrivere e invece non scrivo mai, non per pigrizia ma per l'eccessiva distanza che mi sembra ci separi. Cercando di essere il più sintetico possibile elimino le critiche tipo grafica e rubriche, già esposte da altri e, per me, rilevanti ma non fondamentali.
E' necessario premettere che trovo poche cose più squallide di due anarchici che litigano, su chi sia più anarchico, o di chi infligge scomuniche o bacchettate a destra e sinistra convinto di essere, lui e il suo gruppetto, gli unici veri anarchici viventi.
Quindi io rifiuto la definizione di anarchico come ogni altra definizione che vada al di là di un utilizzo pragmatico e contingente, e che, con il potere totalizzante delle definizioni, si trasformi nel tentativo di costruire un'ortodossia. Le ortodossie mi fanno tutte schifo. E forse quello che mi spinge - da tanto - a comprare "A" è la sensazione di essere almeno parzialmente in sintonia su questo punto, dato che in genere non state neanche voi ad esaminare il patentino di anarchico della gente.
Altri punti non so se ce ne sono.
1. La rivista è noiosa, opprimente, lagnosa. Come sottotitolo ci metterei scritto "Una risata ci seppellirà". Sembra che sia fatta non per necessità e godimento personale dei redattori ma per il senso del dovere di testimoniare le malefatte del potere o i barlumi di libertà che si accendono di tanto in tanto nel mondo. Faccio eccezione per Carlo Oliva e non la faccio per Andrea Papi, che una o due volte all'anno ci infligge il supplizio di un articolo sull'astensionismo, sentendo evidentemente una voce interna che gli ordina di salvare i poveri peccatori - i votanti. Oppure andatevi a leggere Pandin di qualche anno fa quando su Rockerilla scriveva sul punk anarchico, e poi paragonarlo alle pallosissime cronache su comatosi festival francesi dove quattro intellettualucoli ne ascoltano altri quattro che suonano, e tutti e otto - con Marco nove- pensano che Public Enemy, BDP, Ice-T, NWA, Geto Boys fanno solo musica da discoteca ed è per questo che vendono milioni di dischi. Allora, dato che da bravo bambino di educazione cattolica mi sento in colpa se faccio solo critiche distruttive, evitando il paragone con altra stampa sedicente anarchica, vi suggerisco di andarvi a vedere, ad esempio, Decoder. E' vero che dentro potete trovarci anche un sacco di puttanate, ma la sensazione è che sia un giornale fatto da chi non ne può fare a meno, e gode nell'infilare il naso, le dita e le antenne in quello che ci sta attorno, dal rap - appunto - al tetrapack. Quando compro Decoder mi sento 13 anni, quando compro "A" me ne sento 52.
2. Ehilà, belli, ve ne siete accorti che c'è un movimento? Se non ve ne siete accorti ve lo dico io. Gli ottanta del surgelamento sono finiti, Abbiamo occupato le facoltà per mesi e non tutti sono tornati a casa a studiare e basta. Le manifestazioni si stanno facendo più frequenti, più affollate e anche più incazzate. In molte città i centri sociali diventano non solo il rifugio degli ultimi moicani, ma centri di aggregazione nella lotta contro il potere. Ora è notorio come i centri di aggregazione tendano spesso a trasformarsi essi stessi in centri di micropotere - leggi contropotere - gerarchicamente organizzato, e se non ci vanno gli anarchici a rompere i coglioni in queste situazioni, chi ci va? Voi credete di cavarvela con una copertina e quindici pagine di banalità e poi, tra vent'anni, farete un bel numero di Volontà sul 91 - o sul 92, 93... Per chi vuole stare dentro il movimento i problemi sono e saranno grossi. Innanzitutto quello dei "compagni di strada". Ora, io non solo non esigo giuramenti sotto la mia bandiera, ma di bandiere non ne posseggo in generale. Però ho bisogno di chiedermi come si evita che il movimento venga nuovamente bruciato da polizia, lottarmatisti, fascisti, magistratura, avanguardisti, partiti grandi, partiti piccoli, partiti microscopici e partiti che fanno finta di non essere partiti, ma poi partono sempre. Ci troveremo a lottare insieme ad ecologisti, M-L, Aut. Op., trozkisti, demo-proletari, pacifisti e nostalgici delle BR, potenziali sprangatori e masochisti gandhiani. Nei giorni di festa grande ci capiteranno tra i piedi pure i giovani democratici della sinistra, con tutta la loro moderazione e il loro nauseabondo buon senso. Qual è il bagaglio di cultura politica con il quale Viviana T. o Federica 71 affronteranno le prevaricazioni, le forzature sulle assemblee, i tentativi di dirigere il movimento? Per caso con una approfondita conoscenza delle cooperative tessili indiane? Piuttosto urgerebbe un po' di discussione sulle organizzazioni, sulla democrazia diretta - cioè su: "tutto il potere all'assemblea, tutta la servitù agli individui" -, sull'ansia di fare i capetti, sull'ossessiva necessità di acquisire un metodo, cioè trovare, o nei migliore dei casi crearsi, una bella bibbia che ci metta al riparo da sorprese belle o brutte. Discussione anche su che cosa succedeva in piazza, sul lavoro, nella scuola durante quei cazzo di anni '70 e come è stato possibile che i padroni, lo stato, la famiglia, l'eroina, la coppia e la televisione siano riusciti a trasformare gli "anni affollati" in anni deserti.
3. Non so però come ne uscireste dalla discussione. Siete tanto sulla difensiva - per gli attacchi degli ortodossi di cui sopra - che siete diventati quasi trasparenti. Un po' come per quel gruppo napoletano che ha come caratteristica più spiccata quella di mettere un timbro sulle copie di "A" che distribuisce, le vostre posizioni non si sanno, si devono intuire. Il vostro anarchismo etico/sofferente alla Le Guin vi porta, come lei, a ritenere che la distruzione del potere passi per la costruzione di una Solidarietà tra gli uomini, basata su un'Etica anarchica, su una Coscienza anarchica, alla quale gli uomini devono Elevarsi, con un'Educazione fatta di lacrime, sudore e Sacrificio, perché, compagni cari, il mondo è duro e non possiamo permetterci di essere Egoisti. Ma, oibò, ecco che ci siamo ritrovati in tasca tutto l'apparato ideologico che il potere usa per schiacciare l'individuo con il ricatto del bene della collettività. Solidarietà, Etica, Coscienza, Elevazione, Educazione, Sacrificio, Altruismo: questo è il vocabolario con il quale l'autorità ci estorce la nostra sottomissione giorno per giorno, ripetendolo incessantemente con le sue mille voci, dall'altare, dagli schermi, dai giornali, dalle cattedre. Voci che spacciano la peggiore schiavitù alle convenzioni, il mito della carriera e dell'uomo che conta, cioè il servo più zelante, come "individualismo".
Io non ho nessuna coscienza, non mi sento solidale con nessuna categoria, non ho morale, non voglio elevarmi, non devo insegnare a nessuno come essere qualcun altro da se stesso, sono crassamente egoista e non ho intenzione di fare nessun sacrificio per nessuna collettività. E poi dovrebbe essere lampante che su questo terreno - coscienza, solidarietà, ecc. - i marxisti sono in possesso di un arsenale ideologico formidabile, essendo cent'anni e più che si allenano alla sovversione disciplinata che diventa prima o poi disciplina e basta, cosicché gli anarcoetici sono ineluttabilmente votati alla sconfitta.
Ed ora, da lassù, riuscite ancora a sentirmi?
Saluti e baci.

Giuseppe Aiello (Barano d'Ischia)

Dov'è finita la coerenza?

Cari amici,
rompo un lungo silenzio, determinato più che altro dal fatto di non aver molto da dire. Più vado avanti (o forse invecchio...) e più si divarica la forbice tra come immagino l'idea e come la vedo applicata, propagandata o soltanto discussa le poche volte che mi trovo a parlare con anarchici militanti. Chi "fa politica", in specifico gli anarchici, lavora inevitabilmente all'ingrosso: tutte le leggi fanno schifo, tutti gli stati sono fascisti, tutti i padroni vanno eliminati. In sostanza una critica che mi pare tanto ottusa nella sua radicalità.
A titolo di esempio, perché mi rendo conto di non spiegarmi bene, sono andato ad un'assemblea antimilitarista ad Arezzo. Bene, si alza uno, chiaramente "spoliticizzato" che dice che non vuol fare il militare ma non si sente di fare l'obiezione; chiede dunque perché non esistono strutture che possano aiutare gente come lui.
Risposta: imbarazzo, e poi un discorsetto del tipo "obiezioni diverse da quella totale non servono a niente". Un altro chiede all'obbiettore totale presente cosa ne pensa dell'obiezione fiscale alle spese di guerra. Imbarazzo anche qui, non si sa se la possono fare i lavoratori dipendenti. Poi si alza il capo anarchico che non è d'accordo, che le tasse non si devono pagare per niente, non soltanto quelle destinate alla difesa, ma tutte. E come se non bastasse, vengo poi a sapere che lui, lavoratore dipendente, le tasse le paga , eccome!. Allora forse ora riuscite a capirmi:è questa faciloneria, questa improvvisazione, questa superficialità, questo gioco al massacro, che mi urtano: ancora di più negli anarchici, che fanno della coerenza mezzi-fini uno dei loro capisaldi. E della coerenza fra il sé e gli altri, cosa ne fanno? Mi sarebbe piaciuto conoscere l'opinione dell'aspirante evasore totale, ma alla fine non gliel'ho nemmeno chiesto.
Forse ora capirete perché al principio ho detto che non avevo molto da dire. Ma poi si sono accumulate alcune altre cose e allora eccomi qui. (Non marginale è il fatto comunque che a gente per cui si prova amicizia e stima, come per voi due, bisogna pure farglielo sapere in qualche modo che li si ricorda, no?) (...)
E poi sto sforzandomi di seguire il dibattito sulla rivista. E' infatti per me uno sforzo seguire quella quantità di sapienti che continuano a dirvi quello che dovete o non dovete fare, pena la scomunica.
Personalmente, credo che questo predicare a vanvera vada ricondotto come origine al conflitto irrisolto che gli anarchici hanno fra autorità-autoritarismo-autorevolezza: nel dirvi ciò che dovete fare, ci trovo un fondo decisamente autoritario. Ma trovo autorevoli voi (in altri termini: degni di rispetto) per il fatto che da 20 anni ce la fate a far uscire regolarmente malgrado il casino che c'è intorno,
Mi pare che in questo dibattito non siano stati valutati a sufficienza i due elementi principali di questa (e di qualsiasi altra) impresa: nessuno, salvo forse (e dico "forse") i velinari dei giornali di partito, credo sia disponibile a fare da portavoce e da cassa di risonanza ai pensieri espressi da altri. Mi sembra dunque inutile che si dica che sulla rivista ci dovrebbe essere più politica, oppure più storia, oppure più notizie "dal reale": lo si faccia, accettando con modestia l'eventuale giudizio negativo alla pubblicazione.
I mezzi sono quelli che rendono economicamente autonoma la rivista: io non credo che "A" abbia una situazione ottima di costi e ricavi: credo al contrario che senza le sottoscrizioni dei lettori, difficilmente potrebbe continuare ad uscire. In un movimento evanescente come quello anarchico, non mi sembra però che le sottoscrizioni offrano quelle garanzie di continuità di cui un progetto editoriale ha bisogno. Le difficoltà che ha trovato Umanità Nova nel reperire soltanto 100 (mi pare) sostenitori a 100.000 lire al mese mi sembrano una conferma.
Allora non riesco a spiegarmi l'ottuso rifiuto che c'è della pubblicità. Pensano forse che voi, notoriamente golosi, vendereste la rivista alla Nestlé, in cambio di una tavoletta di cioccolato? Io non sono contrario alla pubblicità, se utile per far quadrare i conti. E sono convinto che in un giornale anarchico ciò si tradurrebbe in un miglioramento qualitativo della pubblicazione. (...)
Un abbraccio a tutti voi.

Dino Mosca (Terontola)


Facere saltum

Cari compagni,
a rischio di apparire lezioso vi confesserò, in via preliminare, di essere quasi commosso per le parole di apprezzamento nei miei confronti che alcune anime gentili hanno voluto inserire nei loro interventi al dibattito sul presente e sul futuro di "A". Non mi succede spesso. Salvo errore, finora mi è toccata solo una tiratina di orecchi, da parte del Roberto Ambrosoli, che, a quanto capisco, mi accusa d'aver scritto sul PCI una cosa che in effetti non ho scritto, ma non importa perché in questi casi la colpa è di chi non si fa capire e comunque ci conosciamo, io e l'Ambrosoli, da almeno trent'anni, per cui non è il caso di litigare.
Comunque, l'occasione buona per ringraziare il corpo redazionale al completo per l'ospitalità e inserirmi, magari un po' surrettiziamente, nel dibattito.
Surrettiziamente perché esso dibattito ha avuto finora una forte caratterizzazione "interna" diciamo di "movimento", e questo è un terreno sul quale avrei qualche difficoltà ad avventurarmi (per non dire che potrei anche non riuscire gradito a tutti). Facciamo così: se i punti di vista che mi azzarderò comunque a esprimere andranno troppo fuori bersaglio, cestinate tranquilli il tutto e limitatevi a trasmettere a chi di dovere i ringraziamenti del caso.
Mi spiego subito. Credo di essere, con l'ottimo Accame e forse qualcun altro, fra i pochi non anarchici che collaborano abitualmente a una rivista anarchica. E come osserva un lettore, peraltro gentile, non mi dichiaro nemmeno tale. Il che, visto che non c'è altro mezzo di compiere un'opzione ideologica se non quella di dichiararla, può far nascere qualche problema, soprattutto nella prospettiva di un periodico, come si diceva una volta, "militante" fatto da militanti per altri militanti. E per militare, non c'è santi, non milito: ve lo garantisco.
Il particolare può sembrare irrilevante, perché, in fondo, non mi dichiaro neanche non anarchico, anzi ho smesso da tempo di dichiararmi alcunché, ma mi rendo conto che non è una grandissima consolazione. Da un punto di vista anarchico ortodosso (se un punto di vista anarchico ortodosso non è soltanto un ossimoro) ho parecchie mende. Tanto per cominciare, ho un passato, come le fidanzate nei romanzi popolari di una volta. Ho bazzicato dei partiti, come si diceva, borghesi, e - peggio - dei gruppuscoli marxisti, le cui colpe verso il movimento anarchico non sono state dimenticate. E anche se il passato notoriamente è morto e sepolto almeno dagli anni '80, è vero che non mi sono neanche pentito. Rivendico la validità delle esperienze politiche degli anni '70 (in cui la componente anarchica ha avuto un ruolo, per così dire, marginale) e continuo a pensare che il marxismo sia un utile strumento di analisi critica delle realtà politiche e sociali. Per fare un esempio a caso, ma non troppo, sono convinto che il vecchio Marx ne sapeva qualcosa di interazione tra bisogni materiali e costruzioni ideologiche (questione nazionale compresa) e che quindi è proprio mediante un'analisi marxista che si può cercare di capire qualcosa su quanto è successo negli ultimi anni nell'Europa dell'est.
Quasi tutti oggi tendono a considerare, come minimo, poco fine utilizzare delle categorie marxiste per analizzare la crisi di sistemi politico sociali che si definivano marxisti, ma non so che cosa farci. Le analisi libertarie, come dire tradizionali, corrono troppo spesso il rischio di confondersi con quelle liberal-democratiche della grande stampa: sapete, quella che risolve sempre tutto contrapponendo l'amore della libertà alla tirannia e identifica l'amore della libertà con l'adesione alla NATO, il licenziamento del personale in esubero, l'aumento dei prezzi, l'introduzione del catechismo nelle scuole di ogni ordine e grado e la possibilità di assistere finalmente all'elezione di Miss Italia in diretta TV. Certo, utilizzare delle categorie marxiste non significa essere marxisti, nel senso di far propria una visione rigida del mondo, aderire a ipotesi politiche predefinite o farsi zelatori di quel socialismo che, dio solo sa perché, si definisce "reale". E anche le analisi marxiste, quanto a questo, corrono i loro bravi rischi: per esempio si prestano bene a pervicaci giustificazionismi, ma questo è un altro discorso. E comunque era solo un esempio: se interessa potremo (dovremo) parlarne a lungo in futuro. Il fatto è che in questi anni '90 le categorie ideologiche tradizionali della sinistra, anche quelle a cui siamo più affezionati, tendono a farsi strettine: personalmente credo che sia utile sforzarsi di inventarne di nuove, ma non rilutto a un oculato reimpiego di quanto già disponibile. Mi rendo conto che è pratica che presta il fianco ad accuse di eclettismo teorico ma, in fondo, chi se ne frega.
Mi accorgo, con qualche sgomento, che mi è scappato l'aggettivo "libertario". Mi ero ripromesso di evitarlo come la peste, ma tanto vale. Concorderete senza dubbio con me che è un aggettivo comodo, ma un po' infido. Definendoci libertari (o anti-autoritari, in caso di timidezza) potremmo trovarci tutti d'accordo senza difficoltà, ma sarebbe un accordo da poco. E' difficilissimo, oggi come oggi, trovare qualcuno che abbia il coraggio di dichiararsi autoritario (credo che non lo faccia neanche Den Xiaoping), e ciò toglie molto valore al termine opposto. E poi ammetterete che è un'etichetta che può coprire di tutto. Ricordo che anche i partiti borghesi e i gruppuscoli marxisti di cui sopra, erano in teoria, libertari (in effetti, i loro avversari li tacciavano spesso di essere "anarchici "), ma solo l'intrinseca sbragataggine organizzativa impediva d'essere ferrea: i dirigenti avevano il vezzo di dirigere, appunto, e di aspettarsi che i diretti obbedissero senza fiatare se no li espellevano, e capirete che la cosa non faceva ben sperare per le prospettive della società che ci si proponeva di costruire. Contraddizioni, certo, ma utili a ricordarci come sia sempre necessario adibire anche verso se stessi la più sagace vigilanza ideologica.
In fondo, libertari non lo si è mai abbastanza. Come dire che il termine attiene più alla sfera degli ideali che a quella delle definizioni. E mentre è fin troppo facile assumerlo come fine (a questo appunto servono gli ideali), non sempre si riesce a non dubitare della possibilità di utilizzarlo incondizionatamente come mezzo. Le petizioni di principio, in genere, non servono un gran che e non si può mai dire mai, se no che libertari del cavolo saremmo. Se è vietato vietare, sarà anche vietato vietare di vietare. Il sullodato Accame potrebbe spiegarci quali operazioni mentali sottostiano a questi paradossi: nel concreto resta vero che chi voglia agire (e scrivere e analizzare) con spirito libertario non può far altro che andare avanti un po' a caso e un po' a casaccio, stando ben attento a non sgarrare e fidando soprattutto sul buon senso. Che, ammetto, non è una grande scoperta, dopo quasi quattro cartelle, anche se a me basta e infatti su "A", se non me lo impedite voi, conto di continuare a scrivere per un bel po'. Ma il problema è un altro. E' un fatto che la maggior parte dei compagni intervenuti nel dibattito non mi sembrano follemente innamorati di un atteggiamento libertario generico fondato sul buon senso. L'idea del "lettore medio di sinistra libertario" li manda piuttosto in bestia. Scrivono che non è la rivista a essere genericamente di sinistra è un po' "tutto l'andazzo del movimento anarchico" ed è chiaro che ci soffrono. Vogliono la diversità, tutta la possibile diversità, come condizione per agire e trasformare il mondo. Postulano un "anarchismo diffuso,... uno spirito libertario capace di animare vasti movimenti" di fronte a cui v'è l'incapacità degli anarchici di superare i vecchi schemi, di intraprendere vie nuove, di provare percorsi "alternativi". E si rifugiano in auto-deprecazioni ermetiche, come quella secondo cui "il problema è ora l'esaurimento di quella vivacità intellettuale e critica (e quindi anche auto-critica) che ha finora posto il movimento anarchico in perfetta sintonia teorica con il proprio tempo nonostante la continua (e forse fisiologica) distonia storica" (Ambrosoli, Ambrosoli...).
Naturalmente, non essendo anarchico, non so se sia possibile superare questi deprecabili limiti. Me lo auguro di cuore e comunque ho la mezza convinzione che la distonia storica in questione (suppongo voglia dire che ogni volta che hanno provato a combinare qualcosa gli anarchici le hanno sempre prese di santa ragione) rappresenti, nella sinistra di oggi, una condizione privilegiata, perché, a ben pensare, in vista dei compiti che ci aspettano è più importante averle prese che averle date. Non so neanche se "A" abbia i titoli per esprimere la voce del movimento anarchico, o di qualche sua parte e frazione, o se altri siano più indicati allo scopo. E' vero che un po' mi inquieta nel leggere occasionali deprecazioni di altre realtà giornalistiche, a me ignote, che non sono abbastanza di movimento, o lo sono un po' troppo, o comunque non lo sono nel modo giusto: la cosa suscita ricordi sgradevoli, e poi è controproducente, perché critiche del genere di solito fanno venire l'acquolina in bocca. Il fatto è che come collaboratore di "A" e convinto sostenitore, come tale, della pratica di analizzare, enunciare e quindi ostacolare i comportamenti abitudinari dei detentori del potere (e le interpretazioni del mondo che li sostengono) adibendo all'uopo quel po' di capacità critica collettiva che tra tutti riusciamo a mettere insieme - perché quella di consentirsi di mettere insieme un poco di capacità critica collettiva è la funzione di una rivista come la nostra - ho delle perplessità. Pur auspicando che il movimento prosperi e alligni come e più del lauro dei Salmi, non sono sicurissimo di credere che lo sviluppo della rivista ne sia una funzione, o viceversa. Diciamo che non credo particolarmente all'utilità delle riviste di movimento.
Allora, parliamo di affari. Una rivista come "A" serve alla circolazione delle idee, ed è particolarmente utile quando, come succede in questi tempi grami, di idee non omologate agli interessi del potere ne circolano pochine. Quindi, deve porsi come referente - come unico indispensabile referente - dei lettori: diciamo un settore, il più ampio possibile, di opinione pubblica. E' improbabile che ci riesca con la purezza ideologica (anche se, naturalmente, neanche lo sputtanamento programmatico totale è garanzia di successo) ma questo lo sappiamo già. L'ipotesi da verificare è che esista, tra i lettori di lingua italiana, un settore interessato al tipo di analisi e di informazione che "A" produce e diffonde (che tale attività rampolli dal filone storico dell'anarchismo non è irrilevante. Ma non è l'unico elemento da prendere in considerazione). Dico da verificare, ma naturalmente in questi casi l'ipotesi la si da per scontata, e al massimo la si verifica perseguendola, e se poi ci si rompe le corna vuol dire che non era vero. "A" tira avanti da una ventina d'anni e questo è già un dato abbastanza confortante.
Ma appunto, dicono in buona sostanza gli intervenuti al dibattito, dopo vent'anni "A" ci ha un poco stancato. E' sempre la stessa: carina, certo (ci scrive persino l'Oliva), ma si può fare di meglio. Guai se non ci fosse, ma è anche vero che corre il rischio di essere ripetitiva, poco eccitante, un qualcosa che ci accompagna come un antico rimorso o un vizio assurdo, o piuttosto come una buona abitudine cui non sapremmo rinunciare ma che non ci gratifica come vorremmo con il brivido dell'anticonformismo e dell'audacia. Ci mettiamo la maglia di lana, apriamo l'ombrello se piove e ci leggiamo i nostri nove numeri di "A" tutti gli anni. Lungi da noi l'idea di lamentarci, ma... Non si potrebbe fare qualcosa di nuovo?
Non tocca a me rispondere e me ne compiaccio, perché non saprei come. Se posso esprimere un parere da collaboratore senza responsabilità redazionali, ma non del tutto digiuno di giornalismo professionale, la rivista è fatta benissimo: sfrutta al meglio le possibilità della sua formula, di cui rappresenta l'unica accettabile incarnazione contemporanea. Al massimo, ad essere usurata è proprio la formula che è appunto quella, essenzialmente amatoriale, della rivista di movimento degli anni '70 (per questo, prima, blateravo tanto di movimento). Certo, nulla osta che la si perpetui nei secoli: nel mondo giornalistico e sub-giornalistico allignano già parecchi buoni esemplari di fossili viventi, di specie protette degne tutte di qualche interesse, e probabilmente potrebbe starcene un altro, ma, in fondo, perché? "A" merita a tutti gli effetti l'Oscar della sua categoria (potremmo chiamarla quella del "mercato speciale"), ma forse, per svolgere la sua funzione, dovrebbe cercare d'uscirne. Le specie protette non possono sperare in altro che nella sopravvivenza: noi abbiamo altri progetti. Per realizzare i quali, dunque, bisogna provarsi a entrare nel mercato normale. Secondo i cui standard, "A" è attualmente un prodotto ibrido: è, più o meno, un mensile strutturato come un settimanale. Ma naturalmente del settimanale non ha la capacità di coprire, anche solo a livello di commento, tutta l'attualità, e del mensile gli manca lo spessore, inteso sia come numero di pagine sia come ampiezza e varietà dell'analisi e dell'approfondimento. Sono fermamente convinto che questa ambiguità vada risolta, in un senso o nell'altro (quale, è tutto da discutere).
Il suggerimento, in definitiva, è quello di andare oltre la dimensione amatoriale. Se non altro di provarci. Di pensarci, almeno. Bella forza, direte: come se non ci avessimo pensato di già. Beh, qualcuno lo doveva pur dire. So che la cosa è tutt'altro che facile, perché quello di una rivista a vasta distribuzione, da lanciare sul mercato, sono caratteristiche che non si improvvisano, e nemmeno si realizzano a forza di buona volontà, richiedendo comunque l'apprestamento preliminare di strutture produttive e distributive di ingente impegno (in regime capitalistico, richiedono anche la disponibilità di un mucchio di quattrini): roba da far rizzare i capelli in testa. Ma non impossibile, su un lasso di tempo ragionevolmente programmato. E poi, che ci posso fare? Siete stati tanto bravi, amici redattori, da giungere al top del settore. Adesso, o si ristagna o si prova a facere saltum. La modestia di chi, con artigianale competenza e quieta soddisfazione coltiva il proprio orticello non si addice a quanti ambiscono a porsi in radicale contrapposizione con il sistema. Per fare davvero gli anarchici bisogna essere in grado di sobbarcarsi agli impegni dell'imprenditorialità. Vatti a fidare della dialettica.
Che il nuovo anno sia foriero di ogni successo.

Carlo Oliva (Milano)


Uscire dall'orticello

Vorrei intervenire nel dibattito sulla nostra rivista alla luce della mia esperienza personale. Su "A" 178 Gian Franco Bertoli poneva l'interrogativo se si credesse e si volesse un giornale per incidere socialmente (e la società non è fatta di soli anarchici, anzi...), oppure un giornale rivolto al compiacimento narcisistico di un cenacolo di puri e irriducibili custodi di un mito e di fatto, paradossalmente destinato a rinserrarsi in un ghetto rassicurante.
Nel mio relativamente recente riavvicinamento all'ideale e, di conseguenza, al movimento anarchico e alla sua stampa, ho purtroppo spesso avuto la sensazione (spesso epidermica) di trovarmi di fronte ad un insieme di sette, con relativi sacerdoti e profeti, ognuna composta da un ipotetico popolo di eletti che aveva ricevuto da chissà quale dio la verità rivelata, da rivendicare come "primato" e da tenere ben stretta fra le dita.
Non so se effettivamente questa visione sia realistica, certo è l'impressione che parecchi altri miei conoscenti, hanno ricavato da molti contatti con alcuni compagni e con la nostra stampa. Per me, che ritorno all'anarchismo dopo esperienze politiche differenti, anche con le istituzioni (la grande delusione delle liste verdi, che portandomi alla sfiducia nei confronti di qualsiasi istituzione e delega ha aperto la strada a questo ritorno ai miei primi passi in politica per ritrovare la strada che credo più giusta) con ancora aperti moltissimi dei dubbi e delle sfiducie che mi hanno spinto, nell'adolescenza, ad allontanarmene, la stampa militante, con quel senso di chiusura a tutti i "non adepti" è indigesta, non mi da niente, non mi fa progredire, e quindi, in un certo senso, mi fa fare dei passi indietro.
Credo che sia importante per il movimento anarchico avere dei luoghi di discussione aperti anche ai non anarchici e ai non "ortodossi" per parecchi motivi. Innanzitutto perché se vogliamo non soffocare nelle certezze (di alcuni) dobbiamo essere aperti a punti di vista diversi, anche contrastanti, e al dubbio, al rimetterci in discussione, dobbiamo, penso, re-imparare a dialogare senza tranciare giudizi emarginanti e senza il timore che altri li trancino.
Inoltre, poiché siamo anche noi tutt'altro che perfetti e poiché nella società (tanto quella attuale quanto l'auspicata futura società anarchica) vi sono molti problemi e situazioni di tipo non prettamente militante in cui un anarchico dovrebbe comportarsi secondo i propri principi, di tantissime cose anche non strettamente "politiche" (nel senso restrittivo del termine), per proseguire e migliorare come soggetti.
Se poi vogliamo veramente costruire una società libertaria dobbiamo uscire dal nostro orticello per cercare di cambiare il nostro modus vivendi e farlo cambiare agli altri soggettivamente (Gaber cantava che le idee devono essere nella testa, ma anche nella pelle, devono essere interiorizzate, assimilate, digerite, certo non subite). Ogni progetto di cambiamento politico, violento oppure no, che prescinda da questo presupposto, a mio avviso, può solo sostituire un potere con un altro, o meglio, può sostituire le persone che lo detengono e che lo esercitano e le forme in cui si esprime. E questo è in contraddizione con l'idea anarchica. Una rivista anarchica aperta serve anche per questo cambiamento.
"A" può avere anche un valore di "propaganda del fatto" di un valore fondamentale per un anarchico: il rispetto. Naturalmente, la funzione della rivista è anche quella di mettere in comunicazione le diverse concezioni di anarchia dei diversi gruppi e dei diversi compagni, interni o esterni al movimento, possibilmente senza pregiudizi e arroganze: da tutto e tutti, o quasi, possiamo prendere qualcosa di valido per noi, a tutto e a tutti possiamo dare qualcosa di valido.
Un difetto, e grosso anche, a mio parere, la rivista l'ha: è la mancanza del rifiuto della delega da parte di noi lettori. Dovremmo imparare a sentirci tutti redattori, parte attiva e non soltanto fruitori del lavoro altrui.

Elisabetta Michelini (Sannazzaro de' Burgondi)


Vedrai che andrà meglio

A/Rivista,
ho preso il coraggio per la coda dopo aver letto il suggerimento di Marianne Enckell ("A" 177, "Dibattito su A/5)e, "da collaboratore" e "da lettore" questo mese oltre alla solita pagina di Musica & idee ho deciso di scriverti una lettera per dirti quando e quanto mi piaci. E per parlarti un po' di me. Non ti ho conosciuta a scuola né all'università, anche se qualche volta, allora, ti ho sfogliata. Ti leggo con una certa regolarità da circa dieci anni, con attenzione e interesse e coinvolgimento variabili, comunque in costante aumento. I primi numeri li ho acquistati perché ero più curioso che convinto: non per il mio sesto senso storico-politico, ma mi sentivo più attratto da te che da una rivista socialdemocratica o da una fanzine dell'autonomia operaia. Non mi sei piaciuta subito. Meglio, non mi è stato facile capirti subito. A volta parlavi un'altra lingua pur mostrandomi immagini familiari: era come starsene al cinema, a guardare un film russo sottotitolato in tedesco o francese (spero di aver reso l'idea). Le cose nel frattempo sono cambiate: io sono diventato più grande - anche se continuo ad avere difficoltà con il russo , tedesco e francese... e con la vita in generale - e anche tu sei cresciuta. Ospiti facce nuove e spesso diverse tra loro (pure la mia da un bel pezzo: dal 1983...troppo?), e mi piace respirare l'aria nuova mossa dalle tue pagine. Riesci a muovere le idee, gli umori, a trovare posto per così tante sfumature dell'utopia anche se in bianco e nero è difficile.
Nelle pieghe della tua sottana riesco a trovare posto anch'io, che non faccio il punk militante ma l'impiegato, che non ho mai tirato un sasso a nessuno né fatto a pugni ma a volte bestemmio da far schifo, che vivo in una città di provincia grassottella, nordista e razzista invece che nella giungla metropolitana o nelle piste Policar dell'antagonismo. E' che mi lascio trasportare dalle impressioni più che dalle responsabilità. Eccomi a leggere Bruce Chatwin invece di Kropotkin o Bakunin ("marche di vodka"... per dirla con Penny Rimbaud), ad ascoltare Annie Anxiety ed i Crass invece che i canti libertari della guerra di Spagna. Eccomi trascorrere il lunedì sera in compagnia di Lucia, invece di partecipare alla riunione settimanale del Collettivo Libertario cittadino: è l'unica sera della settimana che posso passare assieme a mia moglie, e ho anch'io i miei gusti.
Un topo da retrovie? Mettila come vuoi, A/Rivista, ma anche i topi sognano. Il 12 dicembre scorso ho evitato di proposito di scendere in piazza. Le celebrazioni hanno per me un odore insopportabile: bisognerebbe scendere in piazza perché c'è qualcosa che non va tutte le mattine, tutti i giorni in ogni città e paese del mondo. Ho preferito starmene per conto mio a pensarci sopra. Ho preferito gettare qualche fiore giù dalla finestra di casa mia tre giorni dopo, e ascoltare "Imagine" ripensando a mio padre, con una pietra al posto del cuore per tutte queste assenze, per tutta questa solitudine.
E poi? Poi ho cambiato idea. E l'ho cambiata ancora. Vorrei essere libero di cambiare idea ogni volta, senza restare invischiato nella coerenza, nell'etica, nel moralismo, specie se "alternativi'. No alla bistecca ma sì agli stivali nuovi in vendita, no alla repressione ma sì al pellegrinaggio al centro sociale occupato, no alla pubblicità anarchica sul Manifesto ma sì alle cassette e dischi autoprodotti tutti irrimediabilmente uguali, tutti irrimediabilmente disgustosi. Eppure così vivi. Eppure così tristemente vuoti, vuoti d'amore.
Tornando a te, volevo dirti che sono felice del tuo ventesimo compleanno. Ti sei fatta più bella, ti sei vestita a festa. Non preoccuparti se a qualcuno qualche volta la tua copertina non è piaciuta, se qualche articolo ha offeso qualcuno, se sei stata fraintesa o strumentalizzata: a vent'anni si può non essere per forza dei sopravvissuti.
Vedrai che andrà meglio: l'ho sognato, quindi dovrà succedere. Un bacio.

Marco Pandin (Padova)


Una proposta "costruttivista"

Cerco di intrufolarmi nel dibattito in corso - su "A", sulla pratica anarchica e sullo schema teorico che la guida. Ci tento, lo premetto, perché non sono sicuro di riuscirci. Concordo con le analisi di chi mi ha preceduto - analisi ove contrasti veri e propri, divergenze irrimediabili, non mi sembra si siano esplicitate: concordo in particolar modo con Bertoli allorquando ci racconta di come farebbe volentieri a meno di un giornale "consolatorio", in cambio di un giornale che sappia "incidere sulla mentalità collettiva e sul costume", e raccolgo il suo invito a riflettere sulle condizioni che favorirebbero tale programma e conseguenti risultati. Sappiamo bene tutti quanti che non si tratta di un programma da poco. Da un lato la Concorrenza è mostruosamente cospicua, radicata, articolata in un sistema coesivo di istituzioni, piaghe storicizzate, centri di potere, giornalismi, spettacolarità coatte e scemenze sacrali- il tutto autoperpetuante come un gene perfido e rigorosamente egoista. Di fronte a questa mole c'è di che striminzirsi. Dall'altro lato c'è il problema, che problema benché gli anni passino è ancora, di cosa qualifichi, in termini di un paradigma perlomeno equipotente, l'opposizione a questa Concorrenza.
In proposito se devo dire la mia, mi tocca prenderla alla lontana.
Nello scenario delle idee al mondo, da sempre, si combattono due punti di vista inconciliabili. Chi si riferisce ad una Realtà come collezione di enti e di proprietà esistenti per conto proprio, indipendentemente dall'uomo che passivamente dovrebbe recepirla - ragion per cui la Scienza sarebbe un'impresa difficile, ma destinata, prima o poi, a colpire nel segno ed a fornire descrizioni dell'Autentico, del Vero e del Oggettivo, ragion per cui Morale e Politica troverebbero già bell'e fatto un Ordine cui analogicamente attenersi. E chi si riferisce ad una Realtà come costruzione dell'Uomo, attivo partecipante o addirittura creatore - ragion per cui alla Scienza tocca di avanzare modelli il più possibile coerenti fra loro, ma senza speranza alcuna di giungere prima o poi all'Ultimo; ragion per cui Morale e Politica non possono riposare su alcuna giustificazione (esterna) a chi le formula e le adotta per guidare comportamenti propri e altrui. Platone e Aristotile (con le dovute differenze: uno più spiritualista, rinviante ad un empireo come collezione di garanzie di Verità; l'altro, più materialista, rinviante a virtù tutte umane ma egualmente misteriose) da una parte e Protagora dall'altra costituiscono un modello di schieramento idoneo a renderci conto della filosofia classica greca, ma pari pari modelli del genere possono rappresentare qualsiasi epoca, oggi incluso.
Il primo punto di vista ha segnato la storia di brutto: in una versione o nell'altra, i grandi movimenti delle masse sociali sono stati legittimati dal richiamo ad un ordine "già fatto" cui non rimane altro che "adeguarsi". Cristianesimo e marxismo per citare due paradigmi ancora impari per nefandezze a carico sono saldamente "realisti" e si differenziano di un minimo solo per il tipo di Sanatore cui ricorrono per garantire sia la copia "esterna" come uguale alla copia "interna", sia la sana e robusta costituzione di Morale e Politica in grazia di un pizzico di teleologismo (Dio e il Paradiso, la Storia e il trionfo della Classe).
Il secondo punto di vista è forse meno compatto, mai gli ha arriso il successo popolare, ma non per questo è esente da macchie. In certe versioni ha portato allo scetticismo più galoppante - per cui l'impresa della scienza sarebbe un'impresa demente, priva di qualsiasi utilità, e via smantellando a parole e lasciando di fatto le cose come stanno; in altre, al moderato empirismo per cui all'uomo toccherebbe di costruire le qualità secondarie delle cose e di subire le primarie (da cui, volendo, un po' di democrazia all'anglosassone) ; in altre ancora, ahinoi, all'idealismo - per cui al mondo toccherebbe d'essere la creazione di un "io" per mezzo di chissà quali magiche virtù ("atti" più e meno "puri"), per cui scienza, morale e politica diventano appannaggio dell'"io" più forte; per cui democrazia ed uguaglianza verrebbero a rappresentare la soluzione d'emergenza del più debole.
Ora, mentre le contraddizioni del secondo punto di vista (come mai, se esco dalla stanza il tavolo è ancora lì, anche se non ci sono più io a percepirlo-costruirlo? Sarà anche vero che qualcosa nella scienza non funziona, ma come mai, ogni volta che voglio farmi un piatto di spaghetti, l'acqua messa sul fuoco, dopo un po', bolle?) ne minano la credibilità, il primo punto di vista sembra godere di ottima salute e riscuotere successi. A guardare le cose con più attenzione tuttavia, ci si accorge che anche il realismo ha il suo bel problemino. Non si può pensare che Platone fosse così scemo da tirare in ballo una spiegazione così palesemente insoddisfacente come l'empireo se non si fosse accorto che nel realismo c'era qualcosa che non andava. L'"esternità" e "l'internità" attribuite alle cose del mondo ed alle copie che di esse ci faremmo sono semplici metafore (interna a cosa? alla testa, al cervello, al singolo neurone, alla sinapsi? al neurotrasmettitore?) e anche il nome che diamo alla pretesa operazione di confronto, il "conoscere", è una metafora (perché non designa un confronto fra una ripetizione effettuata in due momenti, bensì in due posti): se ipotizzo una cosa da conoscere ed un soggetto conoscente, come faccio a garantirmi che il risultato dell'attività del soggetto corrisponda esattamente alla prima? Il realismo, dunque, si porta dietro la tenia del problema "epistemologico", ma, per quanto incapace di rendersi conto dell'impossibilità di principio del confronto richiesto, sopravvive arzillo e beato: per economia del viver quotidiano, noi tutti preferiamo non chiederci come operiamo nei confronti di chicchessia e, dunque, lo prendiamo come "già fatto"; per economia evolutiva questo "già fatto" viene sancito in quella particolare costruzione sociale della realtà che è il linguaggio; per logica di sviluppo tecnologico, fino a qualche anno fa, a nessuno poteva venire in mente di simulare artificialmente le attività umane responsabili di quel "già fatto", (è la cibernetica che comincia a prospettare l'idea di macchine che passino da una situazione non linguistica ad una linguistica, di macchine che traducano da una lingua in un'altra secondo modalità umane - cioè comprendendo -, di macchine che percepiscano, che memorizzino e che rappresentino il proprio ambiente, etc.); per logica di sviluppo scientifico, fino a qualche anno fa, a nessuno poteva né venire in mente di screditare i metodi descrittivi della fisica classica (è la meccanica quantistica che rinunciando alla dicotomia di teoria ondulatoria e teoria corpuscolare della luce, mette in crisi la concezione realista tradizionale di oggetto fisico, di osservato e di osservatore mostrandone l'interdipendenza), né di attendersi una biologia talmente rinnovata da intendere come proprio oggetto di studio lo stesso fenomeno del pensiero. A iosa, il concorso di simili evenienze spiega e il successo del realismo, e il suo attuale momento di intrinseca debolezza.
A maggior ragione vale la considerazione se pensiamo al mondo dei Valori - mondo che da Scienza, Morale e Politica, non senza ibridazioni più pestifere, si informa. La millenaria pratica realista è consistita nel conferire al Valore - qualsiasi esso fosse - lo statuto dell'ipostasi: diritto e gerarchie sono in Natura; o in Dio (e suoi Ministri in Terra), o nella Storia (e suoi Ministri in Terra). La nostra stessa storia, l'autorappresentazione che in quanto collettività ci è concessa, è un campione della capacità selettiva del Valore. All'uomo sono state espropriate le operazioni con cui - grazie al porre un rapporto fra due cose qualsiasi ed alla capacità di soddisfare questo rapporto (l'acqua, positiva per l'assetato, negativa per l'annegato) - si costruisce il valore giorno per giorno. Il maltolto gli è stato reso Assolutizzato e si è innescato il principio della subordinazione per masse sempre più consistenti e sempre più immiserite nell'identità di vittime supine. Non c'è religione, Stato o forma di potere che non si sia asseverata tramite questo processo. Quando Marx e altri parlano di alienazione, parzialmente, comprendono il meccanismo di quest'infamia: purtroppo, pur sentendo il puzzo che emana dal cadavere della filosofia e dalle discipline ideologiche, come l'economia, da questa generate, subiscono ancora come tale il problema epistemologico (senza imputare loro, qui, altri "difettucci" più noti).
Alla mentalità e al costume altrui, con il dichiarato scopo d'indurvi rilevanti cambiamenti (e l'urgenza di farlo, purtroppo, c'è), vorrei dunque presentarmi con una proposta ben ponderata. Io, più spesso, la chiamo metodologico-operativa (soprattutto in omaggio a storie mie), ma, se garba di più, la si chiami pur "costruttivista". Essa comprende l'assunzione di un punto di vista che considera qualsiasi cosa risultato di nostre operazioni (il ramo scientifico di questa proposta potrà specificare la natura di queste operazioni in un modello di mente intesa come funzione, in rapporto al cervello inteso come organo, dando l'addio a dualismi ed a idealismi- ed è ciò di cui mi occupo da venticinque anni a questa parte), valori inclusi; la liquidazione del problema epistemologico come autocontraddittorio (il costrutto è fisico se faccio queste operazioni, è psichico se ne faccio altre; il tavolo è fisico in quanto lo localizzo spazialmente e lo metto in una rete di rapporti con altri costrutti, come il pavimento, il tappeto e i muri della stanza; la costruzione di questa rete di rapporti è un indotto sociale sancito dalle procedure percettive, dalle categorizzazioni e dal linguaggio condiviso: è lo "stesso" tavolo di prima che uscissi dalla stanza in quanto eseguo nei suoi confronti certe operazioni e non altre - se ne andassi a controllare la struttura atomica potrei parlare benissimo di un "altro" tavolo, etc.) e, infine, la liberazione delle scienze dall'appestamento ideologico cui sono state sottoposte (scienze cosiddette "dell'uomo" come la psicologia e la sociologia - di cui finalmente rimarrebbe ben poco -, la linguistica, l'antropologia, etc., e scienze naturalistiche classiche, come la fisica e la biologia, senza dimenticare i deliri panmatematicisti grazie al quali l'intelligenza capitalistica tenta di mettere le ultime pezze agli ultimi buchi).
Ecco, detto un po' per sommi capi, cosa potrebbe qualificare, a parer mio, un paradigma oppositivo alla Concorrenza (ed ecco, per capi ancor più sommi, il senso della mia pratica - che forse ambisce soltanto alla caratterizzazione anarchica - e della mia collaborazione ad "A" collaborazione che, detto in parentesi, meriterebbe un mio maggior entusiasmo...).
Un rilevatore del valore surrettiziamente inoculato in cose e vicende e il laboratorio sperimentale di comunità che vogliano convivere nella consapevolezza del proprio operare creativo e nella tolleranza reciproca: è il mio modello prediletto di giornale - uno dei pochi che mi fa apprezzare la pena di essere ancora e sempre in minoranza. All'insegna del "non facciamogliene passare nessuna", del "dagli al Regime" e del "dimostriamo come se ne possa fare a meno", senza illusioni ma fiduciosi nella chiarezza dei nostri intenti.
Affettuosamente

Felice Accame


L'opinione di un "laico"

Sono un lettore non anarchico di "A". Alla rivista sono arrivato del tutto casualmente: l'ho acquistata per la prima volta in libreria perché avevo visto che c'era un articolo su un argomento che mi interessava; da allora la leggo regolarmente. La trovo interessante e mi sono persino sentito stimolato a saperne qualcosa di più sull'anarchia, cosa che di sicuro non sarebbe successa con altre riviste più "militanti" che ho provato in seguito a leggere. Pur essendo tutto sommato una persona curiosa, che legge, si interessa, ecc. e pur avendo addirittura partecipato ai tempi del liceo ad un paio di riunioni anarchiche, dell'anarchia avevo un'opinione molto riduttiva (gli anarchici? Simpatici ,disinteressati, rompiscatole, peccato però che vivano fuori dal mondo, si accontentino di utopie irrealizzabili e così via). Il che equivale a dire che, come la stragrande maggior parte della gente, non avevo in fin dei conti alcuna opinione, perché una volta stabilito quanto sopra, la questione era definitivamente liquidata. Sono contento di essere stato costretto a cambiare idea e di avere la possibilità ogni mese, grazie alla Rivista anarchica, di leggere cose interessanti,.
Essendo un "laico" non posso addentrarmi nei problemi specifici riguardanti il movimento anarchico toccati nel dibattito in corso sulla rivista, vorrei però, se mi è concesso, richiamare l'attenzione su alcuni punti per me interessanti.
1) Per dirla nuda e cruda: il movimento anarchico è un movimento (purtroppo) quasi del tutto ininfluente e più ancora che impopolare, può essere definito come assolutamente ignorato dalla maggior parte della gente, anche quella che tendenzialmente potrebbe essere più aperta alla sua cultura. Ciò è dovuto in gran parte, a mio parere, oltre che a motivi di boicottaggio da parte del circuito informativo e al rifiuto di scendere a patti con le strutture esistenti (motivi che pure svolgono il loro ruolo), all'atteggiamento di chiusura con il quale certe parti dello stesso movimento si presentano all'esterno e all'incapacità che ne consegue di confrontarsi con altre culture, magari molto vicine, ma non sufficientemente "pure". Questo tipo di atteggiamento oltre che respingere in pratica qualsiasi tipo di arricchimento proveniente dall'esterno è ancora più negativo, poiché è del tutto funzionale allo status quo: sarà forse bello rimanere a contemplarsi davanti allo specchio, ma non si contribuisce di certo a cambiare le cose in questo modo. Mi sembra che "A" non segua questa strada e trovo questo un suo lato positivo che andrebbe senz'altro reso ancora più marcato. Non vedo poi nessun motivo per cui la cosa debba avvenire a scapito dl una "forte" connotazione anarchica, anzi.
2) Molto opportunamente è stato posto da Maria Matteo ed Emilio Penna e da Roberto Ambrosoli ("A" 178) il problema dell'approccio agli sconvolgimenti avvenuti nell'Europa orientale durante l'89/90. L'"avevamo ragione noi" con il quale molto spesso si liquida la cosa da parte anarchica rischia di diventare un pericoloso e sclerotico autoincensamento. A parte l'ovvio orgoglio per aver sempre preso chiaramente le distanze e per aver sempre avversato l'ideologia sulla quale quei regimi si reggevano, a me pare che con questo atteggiamento si rinunci a priori ad una chiara analisi di quello che questi sconvolgimenti comportano per tutti noi, rinunciando di conseguenza anche ad una tempestiva ed efficace reazione. Forse alcuni anarchici non si rendono conto del fatto che se andassero ora ad esporre anche le più moderate e aggiornate idee libertarie ad un normale abitante della Polonia, della Cecoslovacchia, ecc., si sentirebbero immediatamente dare del comunista bolscevico e che in quei paesi mai come ora è stato così forte il bisogno di delega a personalità ed istituzioni autoritarie e mai è stato così spento il desiderio di agire in prima persona. Questa situazione dovrebbe essere a mio parere prima di tutto materia di riflessione e non di celebrazione. Senza contare il fatto che bisogna qui di nuovo constatare che l'anarchismo è rimasto, e rimane, praticamente del tutto ininfluente anche in occasione di questi rivolgimenti di portata storica.
3) Gli atteggiamenti di cui sopra risultano a mio parere ancora più gravi perché l'anarchismo avrebbe in realtà tutte le carte in regola per svolgere un ruolo di primo piano nella situazione attuale, prima di tutto perché è un movimento con un forte passato e questo è un fattore che può svolgere una funzione decisamente alternativa rispetto ad un sistema che si regge in buona parte sulla "dimenticanza" del passato e che sembra capace di assorbire dentro di sé quanto di nuovo nasce; in secondo luogo perché questo passato non è compromesso e, infine, perché la sua tradizione culturale è particolarmente ricca, grazie alle contaminazioni con il movimento operaio in Europa da una parte e al movimento anarchico americano di natura più individualista dall'altra (per non parlare poi delle esperienze molto vicine all'anarchia dell'India).
Tutto questo costituisce, secondo me, un terreno sul quale sarebbe possibile fondare non solo nuove elaborazioni teoriche, ma anche una prassi di azione che coinvolga i gruppi e le individualità più svariati, senza troppe illusioni per l'immediato futuro, visto che la realtà è per tutti quella che è. La mia opinione di esterno è che per arrivare a questo non sia necessario che gli anarchici si sbarazzino delle loro idee, ma semplicemente che le vivano in maniera più libera e questo mi sembra che "A" lo stia già facendo.

Andrea Ferrario (Milano)


Nuovi orizzonti

Un ciao vi giunga da Belluno, e più precisamente dal Wilmer, un povero kristo attualmente ristretto presso il locale carcere. Niente paura, non vi scrivo nell'intento di elencarvi dubbi e dolori che accompagnano la mia terrena esistenza e neppure nel tentativo di strapparvi favori di sorta. E allora perché vi scrivo?
A sì, per salutarvi, o redazione di "A". Innanzitutto per porgervi il mio plauso alla rivista.
Vi leggo ormai da luglio, come immagino capirete bene nello "spazzo" quotidiano e nella crisi socio-morale, in cui anche il più abbietto finisce per sguazzare.
L'arrivo della rivista viene accolto con riverenza e con speranza, dove verrà rivoltato il coltello in questo numero? Questa è una delle tante domande che mi pongo quando febbrilmente lacero il bustone bianco che la contiene.
È sempre un piacere - per evitare toni enfatici- dicevo, è sempre un piacere trovare un po' di buon senso che cola dalle firme più disparate, e non mi va di dilungarmi: non voglio apparire eccessivamente "sdolcinato".
Cosa posso dire. Spezzo una lancia in favore della rivista, che ha effettivamente - per me neofita - dischiuso nuovi orizzonti. Forse dentro di me come per istinto ho sempre avuto potenzialmente l'anarchico seme, doveva solo crescere, anche attraverso le esperienze più disperate. Le legnate servono (in senso figurato) a capire meglio le incongruenze di tutto ciò che mi circonda. Lo so che non esiste una delimitazione netta tra bene e male, tra giusto e ingiusto, l'ho sperimentato sulla mia pelle, lo so. Ma gli sforzi e le fatiche dovrebbero essere indirizzati nel tentativo di costruire una società migliore e di ciò, ne sono più che convinto, la formula attuale, falsamente democratica (solo nel nome) basata sul capitalismo è destinata ad avere purtroppo successo. Troppe le lusinghe che sa esibire, ma purtroppo porterà questo pianeta al collasso, ad uno scenario da fantascienza. Temo che sarà una titanica lotta nella quale la promulsione delle forze anarchiche sortirà scarso effetto.
Ma come tutte le forze, anche questo binomio demokrazia e capitalismo si svilupperà fino a non riuscire più a gravitare sul proprio fulcro ed il sistema esploderà autoannientandosi. Ci sarà la temuta repressione, si creeranno nuovi valori, se ne riscopriranno degli altri e le scritture dei vecchi saggi saranno riscoperte e adorate.
Insomma, con questa tiratina non voglio dire che basta aspettare per ritrovarci in un'età dell'oro, anzi tutti dovremo dare il nostro contributo senza demoralizzarci ecc. ecc. (...)
Ancora grazie e a presto,

Willy De Salvador (carcere di Belluno)