Rivista Anarchica Online
Il presidente nessuno
di Leslie Ray
I muri parlano di illusioni e sogni in ogni parte del
mondo. In Argentina più che altrove i muri spesso si
rimangiano tutto nell'arco di una notte. Un breve percorso in
taxi può rilevare molte cose. In questo racconto,
l'Argentina di oggi con i suoi drammi e le sue paure
Stava
sorgendo il sole quando atterrava il 747 all'aeroporto di Ezeiza; il
cielo era coperto da un fitto banco di nubi, che l'aereo riuscì
a penetrare, ma il sole no. Nuovo giorno, ma laggiù era
ancora notte. Mi sentivo stanco. Il viaggio era stato
lunghissimo, ma avrei avuto poco tempo per riposarmi - avevo un
lavoro da fare e un minimo di tempo a disposizione. Lavoro
importante per me questo, un'intervista esclusiva al fulboista più
grande del mondo, che improvvisamente aveva deciso di lasciare la
sua amatissima Buenos Aires, e Boca, la squadra a cui aveva giurato
l'eterna fedeltà, di dare un calcio al passato, e di firmare
il contratto con la Juve. Nessuno conosceva il perché, ma
presto sarei stato io a scoprirlo. Io, giornalista cortigiano, sarei
stato ricevuto dal Re. Passati la dogana e l'immigrazione senza
difficoltà, sono uscito dall'aeroporto alla semiluce delle
sette e mi sono messo a cercare un tassì. Mi si ferma davanti
dopo nemmeno 30 secondi una vecchia macchina trasandata,
riconoscibile come taxi dal colore giallo e nero, e non dalla sua
andatura, che assomigliava di più a quella di un vecchio
trattore. Messi i miei pochi bagagli nel bagagliaio, sono salito
a bordo del mostro che ticchettava come una bomba ad orologeria. Ma
quando sarebbe esplosa? Il tassista ha colto in silenzio il nome
dell'albergo dove ero diretto, e siamo partiti. Meglio che non
avesse voglia di parlare, visto che ero stanco morto, e che il mio
spagnolo consisteva nell'italiano più qualche "s"
di qua e di là. Così mi sono messo a guardare dal
finestrino. Il raccordo autostradale che andava verso la capitale
era spazioso ma mal mantenuto: buche enormi sulla superficie
stradale, carcasse di vecchie macchine abbandonate sui bordi della
carreggiata, segni evidenti di fondi mancati, insomma. Poche
macchine andavano verso la città, e ancora meno verso Ezeiza;
si vede che chi doveva andare via era già andato. Sui muri
messi in disparte ai bordi della strada si vedevano scritte, ma per
la distanza e la poca luce non riuscivo a distinguere cosa
dicevano. Dopo pochi chilometri siamo giunti alla città.
Il primo impatto con Buenos Aires dava un senso di meraviglia.
Com'era possibile che palazzi così grandi ed imponenti e
baracche così fragili coesistessero nello stesso spazio
fisico? Avrei chiesto al tassista, ma non riuscivo a semplificare il
concetto abbastanza per poterlo esprimere. Finito il raccordo, ci
siamo messi dentro una zona abitata. I negozi erano ancora chiusi,
ma c'era un sacco di gente per la strada, che non andava al lavoro,
come ci si sarebbe potuto aspettare a quell'ora, ma che era già
occupata in frenetica attività. Con facce serie ed
arrabbiate, stavano, l'uno accanto all'altro, pennello in mano,
dipingendo di bianco i muri. Sembrava una strana inversione della
storiella dello steccato di Tom Sawyer; questa gente invece non si
divertiva a dipingere; anzi, sembrava odiare questo lavoro, e farlo
con un'urgenza di finire fuori del normale. Uno dopo l'altro, strada
dopo strada, giovani e vecchi, uomini e donne, chi a stracci e chi
vestito con più orgoglio, i pittori dipingevano. Fissando
gli occhi più attentamente sulla scena che mi affrontava, mi
sono accorto che stavano dipingendo non per mettere sul muro
qualcosa, ma per cancellare qualcosa.
Sì, stavano coprendo delle scritte con la vernice; cosa
c'era scritto? Per il lavoro non ancora terminato, riuscivo a
scorgere qualche lettera di qua e di là non ancora cancellata
per sempre:
ME...NE...EN...E...M....MEN...E...NE...N...M...E...E...M. Erano
gli ultimi momenti di un messaggio che non riuscivo a comprendere,
un codice impenetrabile. "Que es?"; ho detto al
tassista; indicando i muri e i pittori. "Tenenos que olvidar
al hijo de puta!" mi ha risposto, ovviamente seccato. Piano
piano le strade cambiavano, palazzi leggermente più belli e
subito dopo delle rovine immonde, musei di altre epoche più
felici, e edifici moderni firmati da architetti semifolli. Ma i
pittori continuavano. Venti minuti di strade. Siamo passati per quel
che immaginavo fosse il centro - banche, fast food, negozi di ogni
dimensione. I pittori continuavano. Improvvisamente abbiamo
girato un angolo, e ci siamo trovati su un lungo viale, costeggiato
da una parte da edifici grandi, incombenti, e da un parco enorme
dall'altra. "Donde estamos?" "Palermo". Palermo;
già, il mio albergo si sarebbe trovato lì. A giudicare
da ciò che vedevo, era una delle zone più ricche della
capitale. Ormai le scritte non c'erano più. Si vede che gli
abitanti di questi palazzi non avevano voglia né di scrivere
sui muri né di cancellare. Il tassista si è fermato
davanti al mio albergo, l'ho pagato in dollari e sono sceso.
Mentre il receptionist mi dava la mia chiave, ho chiesto anche a lui
di spiegare le scritte che stavano scomparendo. "Those
people will never learn", fu la risposta. Mi pareva di
capire che questi pittori non avevano imparato qualcosa. Ma che
cosa? "Tenemos que olvidar al hijo de puta!" mi ha
detto il facchino che mi portava su la valigia. Dimenticare chi?
Avevo un paio di ore per riposarmi prima di andare all'intervista.
Mi sono steso sul letto della mia camera, e mi sono messo a
riflettere. Questo mistero mi aveva tolto ii sonno. Quelle
lettere mi facevano pensare a una frase che ricordavo dai miei studi
della Bibbia, del vecchio testamento: "MENE MENE TEKEL PERES"
era la frase, me la ricordavo benissimo. Una mano lo aveva scritto
su un muro. ma non mi ricordavo il perché. Ogni camera di
albergo possiede una Bibbia, e questa non faceva eccezione. Dopo
lunghe ricerche sono riuscito a trovarlo. Si trovava nel libro di
Daniel, nel capitolo 5, e si trattava del banchetto di Baldassàr,
il figlio di Nebucadànasar. Una mano aveva scritto sul muro
quelle parole, che Daniel aveva interpretato per Nebucadànasar
così: "MENE: Dios ha computado tu reino y le ha
puesto fin. TEKEL: Tu has sido pesado en la balanza y has estado
encontrado en falta, PERES: Tu reino ha estado dividido y dado a
los Medos y a los Persas". La fine di un regno, allora, un
peso mancante sulla bilancia? Tutto questo poteva avere un senso, se
non per il fatto che la gente non stava scrivendo quelle parole, le
stavano cancellando - oppure erano altre parole? Ho guardato
l'orologio: era l'ora di andare, il mio giocatore mi stava
aspettando, e non bisognerebbe farlo aspettare, personaggio
difficile com'è.
Dieci minuti dopo mi trovavo in un altro taxi-pachiderma diretto
verso La Boca. L'auto si è fermata ad un incrocio con un
altro grande viale. Si udiva un rumore di motori pesanti dalla
destra; mi aspettavo di vedere dei camion, ma no... erano carri
armati militari! Ne sono passati uno, due, tre, dieci, venti,
chissà? Noi avevamo il semaforo verde, ma loro avevano la
precedenza. Provavo una grande paura a vedere tutta questa potenza
distruttiva diretta verso il centro della capitale, e forse verso il
potere? "Vuelven los milicos de mierda!" disse
rassegnato il tassista, "Culpa de ese hijo de puta!" Noi
(fortunatamente per me) abbiamo preso la direzione opposta dopo
l'allontanarsi verso il centro dei militari. Ancora mi tremavano le
mani quando si è fermato il taxi. "Siamo arrivati?"
chiedevo a me stesso mentre il tassista indicava il tassametro.
Altri dollari e mi trovo per la strada nel quartiere della Boca. Che
strano ! Anche qui erano dipinti i muri, ma di tutti i colori
immaginabili. I palazzi erano pericolanti, ma erano una festa per
gli occhi. Rossoverdeblugialloviolaarancione... mancavano solo il
bianco ed il nero. Ho trovato l'indirizzo senza difficoltà.
Ha aperto la porta uno che si è presentato, in un italiano
perfetto, come l'agente del mio eroe, e mi ha condotto in una stanza
dove egli mi stava aspettando. Una stanza semplice, pochi segni
di lusso - l'unica concessione al materialismo sfrenato era una
televisione gigantesca. La star tamburellava le dita sul
tavolo. "Incominciamo?" "Parli
italiano?" "Certo, qui siamo tutti figli di
italiani"" "Siete stati voi a dipingere i
muri?" "Quando sono arrivati i nostri padri, non
avevano soldi per comprare la vernice, cosicché o si sono
fatti dare o hanno fregato le vernici che avanzavano dalle navi qui
nel porto, ed è per questo che vedi tutti questi colori
diversi". "No, non parlavo di questo. Volevo dire quei
muri bianchi che si vedono ora per tutta la città. Chi li
dipinge?" Non potevo fare a meno di chiedere. "Ieri il
nostro Presidente è scappato a Miami (ora la gente non lo
ama, lo odia!) con miliardi su miliardi di dollari. Quello che ha
ricavato dall'aver venduto il nostro stato alle ditte straniere. Ora
non abbiamo più niente, a parte il debito, e i militari che
lui ha liberato. La gente si è svegliata stamattina e non ce
l'ha fatta a guardare in faccia la propria stupidità - sapevano
che l'avrebbe fatto, e lo hanno lasciato fare, applaudendolo - e
quindi hanno preso il pennello in mano per cercare di cancellare
quel nome che durante la campagna elettorale avevano scritto con
tanta speranza e che ora per loro significa soltanto ignoranza e
vergogna". "Ma tu perché vai via?" "Sono
amico suo - devo andarmene per forza, se no mi ammazzano!" Tornando
all'aeroporto, guardando tutti quei muri bianchi, ho cercato di
credere che auspicavano un futuro migliore, ma era difficile. Quella
gente non impara mai, aveva detto il receptionist anglofilo. Per
forza, devono sempre dimenticare. Girato un angolo, ho visto che
sui muri era già apparso un nuovo nome: "Udini!" Forse
questo Udini poteva trovare una via d'uscita. Prima di andare al
mio cancello per prendere l'aereo, mi sono comprato un giornale
nordamericano. Il titolo della prima pagina era: "NEMEN
ARRIVES IN MIAMI". Così, si chiamava Nemen. Tanto,
non importa come si legge il suo nome; qui non è
nessuno.
|