Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 179
febbraio 1991


Rivista Anarchica Online

Il presidente nessuno
di Leslie Ray

I muri parlano di illusioni e sogni in ogni parte del mondo. In Argentina più che altrove i muri spesso si rimangiano tutto nell'arco di una notte. Un breve percorso in taxi può rilevare molte cose. In questo racconto, l'Argentina di oggi con i suoi drammi e le sue paure

Stava sorgendo il sole quando atterrava il 747 all'aeroporto di Ezeiza; il cielo era coperto da un fitto banco di nubi, che l'aereo riuscì a penetrare, ma il sole no. Nuovo giorno, ma laggiù era ancora notte. Mi sentivo stanco. Il viaggio era stato lunghissimo, ma avrei avuto poco tempo per riposarmi - avevo un lavoro da fare e un minimo di tempo a disposizione. Lavoro importante per me questo, un'intervista esclusiva al fulboista più grande del mondo, che improvvisamente aveva deciso di lasciare la sua amatissima Buenos Aires, e Boca, la squadra a cui aveva giurato l'eterna fedeltà, di dare un calcio al passato, e di firmare il contratto con la Juve. Nessuno conosceva il perché, ma presto sarei stato io a scoprirlo. Io, giornalista cortigiano, sarei stato ricevuto dal Re.
Passati la dogana e l'immigrazione senza difficoltà, sono uscito dall'aeroporto alla semiluce delle sette e mi sono messo a cercare un tassì. Mi si ferma davanti dopo nemmeno 30 secondi una vecchia macchina trasandata, riconoscibile come taxi dal colore giallo e nero, e non dalla sua andatura, che assomigliava di più a quella di un vecchio trattore. Messi i miei pochi bagagli nel bagagliaio, sono salito a bordo del mostro che ticchettava come una bomba ad orologeria. Ma quando sarebbe esplosa? Il tassista ha colto in silenzio il nome dell'albergo dove ero diretto, e siamo partiti. Meglio che non avesse voglia di parlare, visto che ero stanco morto, e che il mio spagnolo consisteva nell'italiano più qualche "s" di qua e di là. Così mi sono messo a guardare dal finestrino.
Il raccordo autostradale che andava verso la capitale era spazioso ma mal mantenuto: buche enormi sulla superficie stradale, carcasse di vecchie macchine abbandonate sui bordi della carreggiata, segni evidenti di fondi mancati, insomma. Poche macchine andavano verso la città, e ancora meno verso Ezeiza; si vede che chi doveva andare via era già andato. Sui muri messi in disparte ai bordi della strada si vedevano scritte, ma per la distanza e la poca luce non riuscivo a distinguere cosa dicevano.
Dopo pochi chilometri siamo giunti alla città. Il primo impatto con Buenos Aires dava un senso di meraviglia. Com'era possibile che palazzi così grandi ed imponenti e baracche così fragili coesistessero nello stesso spazio fisico? Avrei chiesto al tassista, ma non riuscivo a semplificare il concetto abbastanza per poterlo esprimere.
Finito il raccordo, ci siamo messi dentro una zona abitata. I negozi erano ancora chiusi, ma c'era un sacco di gente per la strada, che non andava al lavoro, come ci si sarebbe potuto aspettare a quell'ora, ma che era già occupata in frenetica attività. Con facce serie ed arrabbiate, stavano, l'uno accanto all'altro, pennello in mano, dipingendo di bianco i muri. Sembrava una strana inversione della storiella dello steccato di Tom Sawyer; questa gente invece non si divertiva a dipingere; anzi, sembrava odiare questo lavoro, e farlo con un'urgenza di finire fuori del normale. Uno dopo l'altro, strada dopo strada, giovani e vecchi, uomini e donne, chi a stracci e chi vestito con più orgoglio, i pittori dipingevano.
Fissando gli occhi più attentamente sulla scena che mi affrontava, mi sono accorto che stavano dipingendo non per mettere sul muro qualcosa, ma per cancellare qualcosa.

Sì, stavano coprendo delle scritte con la vernice; cosa c'era scritto? Per il lavoro non ancora terminato, riuscivo a scorgere qualche lettera di qua e di là non ancora cancellata per sempre: ME...NE...EN...E...M....MEN...E...NE...N...M...E...E...M. Erano gli ultimi momenti di un messaggio che non riuscivo a comprendere, un codice impenetrabile.
"Que es?"; ho detto al tassista; indicando i muri e i pittori.
"Tenenos que olvidar al hijo de puta!" mi ha risposto, ovviamente seccato. Piano piano le strade cambiavano, palazzi leggermente più belli e subito dopo delle rovine immonde, musei di altre epoche più felici, e edifici moderni firmati da architetti semifolli. Ma i pittori continuavano. Venti minuti di strade. Siamo passati per quel che immaginavo fosse il centro - banche, fast food, negozi di ogni dimensione. I pittori continuavano. Improvvisamente abbiamo girato un angolo, e ci siamo trovati su un lungo viale, costeggiato da una parte da edifici grandi, incombenti, e da un parco enorme dall'altra.
"Donde estamos?"
"Palermo".
Palermo; già, il mio albergo si sarebbe trovato lì. A giudicare da ciò che vedevo, era una delle zone più ricche della capitale. Ormai le scritte non c'erano più. Si vede che gli abitanti di questi palazzi non avevano voglia né di scrivere sui muri né di cancellare. Il tassista si è fermato davanti al mio albergo, l'ho pagato in dollari e sono sceso.
Mentre il receptionist mi dava la mia chiave, ho chiesto anche a lui di spiegare le scritte che stavano scomparendo.
"Those people will never learn", fu la risposta.
Mi pareva di capire che questi pittori non avevano imparato qualcosa. Ma che cosa?
"Tenemos que olvidar al hijo de puta!" mi ha detto il facchino che mi portava su la valigia. Dimenticare chi?
Avevo un paio di ore per riposarmi prima di andare all'intervista. Mi sono steso sul letto della mia camera, e mi sono messo a riflettere. Questo mistero mi aveva tolto ii sonno.
Quelle lettere mi facevano pensare a una frase che ricordavo dai miei studi della Bibbia, del vecchio testamento: "MENE MENE TEKEL PERES" era la frase, me la ricordavo benissimo. Una mano lo aveva scritto su un muro. ma non mi ricordavo il perché.
Ogni camera di albergo possiede una Bibbia, e questa non faceva eccezione. Dopo lunghe ricerche sono riuscito a trovarlo. Si trovava nel libro di Daniel, nel capitolo 5, e si trattava del banchetto di Baldassàr, il figlio di Nebucadànasar. Una mano aveva scritto sul muro quelle parole, che Daniel aveva interpretato per Nebucadànasar così:
"MENE: Dios ha computado tu reino y le ha puesto fin.
TEKEL: Tu has sido pesado en la balanza y has estado encontrado en falta,
PERES: Tu reino ha estado dividido y dado a los Medos y a los Persas".
La fine di un regno, allora, un peso mancante sulla bilancia? Tutto questo poteva avere un senso, se non per il fatto che la gente non stava scrivendo quelle parole, le stavano cancellando - oppure erano altre parole?
Ho guardato l'orologio: era l'ora di andare, il mio giocatore mi stava aspettando, e non bisognerebbe farlo aspettare, personaggio difficile com'è.

Dieci minuti dopo mi trovavo in un altro taxi-pachiderma diretto verso La Boca. L'auto si è fermata ad un incrocio con un altro grande viale. Si udiva un rumore di motori pesanti dalla destra; mi aspettavo di vedere dei camion, ma no... erano carri armati militari! Ne sono passati uno, due, tre, dieci, venti, chissà? Noi avevamo il semaforo verde, ma loro avevano la precedenza. Provavo una grande paura a vedere tutta questa potenza distruttiva diretta verso il centro della capitale, e forse verso il potere?
"Vuelven los milicos de mierda!" disse rassegnato il tassista,
"Culpa de ese hijo de puta!"
Noi (fortunatamente per me) abbiamo preso la direzione opposta dopo l'allontanarsi verso il centro dei militari. Ancora mi tremavano le mani quando si è fermato il taxi.
"Siamo arrivati?" chiedevo a me stesso mentre il tassista indicava il tassametro. Altri dollari e mi trovo per la strada nel quartiere della Boca. Che strano ! Anche qui erano dipinti i muri, ma di tutti i colori immaginabili. I palazzi erano pericolanti, ma erano una festa per gli occhi. Rossoverdeblugialloviolaarancione... mancavano solo il bianco ed il nero.
Ho trovato l'indirizzo senza difficoltà. Ha aperto la porta uno che si è presentato, in un italiano perfetto, come l'agente del mio eroe, e mi ha condotto in una stanza dove egli mi stava aspettando.
Una stanza semplice, pochi segni di lusso - l'unica concessione al materialismo sfrenato era una televisione gigantesca. La star tamburellava le dita sul tavolo.
"Incominciamo?"
"Parli italiano?"
"Certo, qui siamo tutti figli di italiani""
"Siete stati voi a dipingere i muri?"
"Quando sono arrivati i nostri padri, non avevano soldi per comprare la vernice, cosicché o si sono fatti dare o hanno fregato le vernici che avanzavano dalle navi qui nel porto, ed è per questo che vedi tutti questi colori diversi".
"No, non parlavo di questo. Volevo dire quei muri bianchi che si vedono ora per tutta la città. Chi li dipinge?" Non potevo fare a meno di chiedere.
"Ieri il nostro Presidente è scappato a Miami (ora la gente non lo ama, lo odia!) con miliardi su miliardi di dollari. Quello che ha ricavato dall'aver venduto il nostro stato alle ditte straniere. Ora non abbiamo più niente, a parte il debito, e i militari che lui ha liberato. La gente si è svegliata stamattina e non ce l'ha fatta a guardare in faccia la propria stupidità - sapevano che l'avrebbe fatto, e lo hanno lasciato fare, applaudendolo - e quindi hanno preso il pennello in mano per cercare di cancellare quel nome che durante la campagna elettorale avevano scritto con tanta speranza e che ora per loro significa soltanto ignoranza e vergogna".
"Ma tu perché vai via?"
"Sono amico suo - devo andarmene per forza, se no mi ammazzano!"
Tornando all'aeroporto, guardando tutti quei muri bianchi, ho cercato di credere che auspicavano un futuro migliore, ma era difficile. Quella gente non impara mai, aveva detto il receptionist anglofilo. Per forza, devono sempre dimenticare.
Girato un angolo, ho visto che sui muri era già apparso un nuovo nome:
"Udini!"
Forse questo Udini poteva trovare una via d'uscita.
Prima di andare al mio cancello per prendere l'aereo, mi sono comprato un giornale nordamericano. Il titolo della prima pagina era: "NEMEN ARRIVES IN MIAMI".
Così, si chiamava Nemen. Tanto, non importa come si legge il suo nome; qui non è nessuno.